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Perché leggere Pantera Nera di Ta-Nehisi Coates

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Pantera Nera è il personaggio più politico della Marvel. Quando Jack Kirby iniziò a scrivere e disegnare la sua serie, negli anni Settanta, il partito delle Pantere Nere – quelle vere – era caduto in disgrazia presso l’opinione pubblica. J. Edgar Hoover le descriveva come la più grande minaccia alla sicurezza interna del paese. Anche se il nome del personaggio non ha nulla a che vedere con quello del coevo movimento – tanto che Stan Lee glielo cambiò, per un breve periodo, in Leopardo Nero, per evitare una sovrapposizione ideologica non voluta – Kirby fu comunque influenzato dalla loro forza mediatica, associata a comportamenti violenti e ideologie terroristiche.

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Nel primo arco narrativo della serie, Pantera Nera era alle prese con la Rana di Re Salomone, un macchina del tempo appartenuta al leggendario sovrano. T’Challa assisteva nel viaggio Abner Little, un bianco che affermava di aver conosciuto il nonno del principe. Mr. Little era un mezzo narrativo per permettere al pubblico bianco di entrare nella storia, ma il fatto che l’uomo fosse in possesso di informazioni sulla famiglia di T’Challa che lo stesso wakandano non conosceva era anche una rottura dei precetti di autoconoscenza ed educazione autonoma delle Pantere Nere.

Non caso, con lo stile imponente e perentorio che Kirby traspose dai suoi disegni ai dialoghi, T’Challa  declamava [traduzione mia]: «Io solo il figlio di un re, cresciuto in una nobile tradizione! La mia gente è composta di costruttori e studiosi!». Fu poi l’introduzione della principessa Zanda a innestare tematiche colonialiste: Zanda, insieme a un manipolo di individui che si professavano illuminati, fondò il gruppo dei Collezionisti.

Quella di Kirby era una critica allo sfruttamento coloniale del continente che illustrava in quale modo l’arte folk e gli artefatti etnici venissero trasformati in paccottiglia esotica dalle forze imperialiste (un’accusa mossa da Kirby anche alla sua stessa arte, i fumetti, involgariti dalle grandi aziende che volevano farne prodotti di consumo da vendere un tanto al chilo).

I collezionisti volevano impadronirsi dei materiali più preziosi del retaggio culturale del territorio ed erano pronti a corrompere e distruggere intere civilizzazioni per raggiungere il loro scopo. Un po’ per caso, un po’ scientemente, Kirby innestò nella serie diverse tematiche afrocentriche: lo scontro tra Zanda e T’Challa rappresentava uno degli snodi delle politiche del Potere Nero (lo scontro tra uomini e donne di colore) così come lo intendevano le militanti Assata Shakur, Afeni Shakur e Elaine Brown. Un po’ erano anche le contingenze: dato che il Comics Code proibiva l’uso delle armi, Kirby ribaltò il limite in slancio per far scontrare i due sulla legittimità delle armi. T’Challa esortò infatti Zanda ad abbandonare le armi, preferendo un confronto tra persone civilizzate. Il movimento delle Pantere Nere invece invocava a gran voce l’autodifesa, anche armata se necessario.

Dall’importante gestione di Don McGregor in poi, ogni autore successivo ha rielaborato gli stessi concetti. Come scrive Alberto Brambilla, a proposito del ciclo sceneggiato da McGregor: «Negli anni Settanta queste storie erano troppo ‘avanti’, trattando temi mai toccati prima, ma poco apprezzati dal pubblico. Il fumetto mainstream si è evoluto e ormai parlare di omosessualità non è più un’eccezione, così come dare spazio alla vita sentimentale di un personaggio secondario o portare avanti un discorso politico». Eppure, ogni autore successivo a McGregor ha mescolato quegli stessi temi in dosi personali. E Ta-Nehisi Coates – l’attuale sceneggiatore del personaggio – non fa eccezione, tanto che tra tutte le gestioni, la sua è quella che più assomiglia a quella di McGregor per intenti: si parla di politica, omosessualità e vita sentimentale di personaggi secondari.

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Quando la serie passa nelle mani di Christopher Priest, questi conferisce al personaggio una vena fantapolitica. L’operazione è parte di una prepotente critica alla narrativa supereroistica: Pantera Nera non ha nessun interesse a combattere per i valori del sogno americano. È un uomo che non appartiene all’America e che non ha intenzione di appartenervi.

Lo sceneggiatore scende a patti con il genere che sta trattando, facendo interagire T’Challa con un contesto che non gli appartiene. Nella gestione di Priest, Pantera Nera è costretto a rimanere negli Stati Uniti, mentre nel suo paese è in atto un colpo di Stato. La trappola dei suoi nemici è stata proprio quella di farlo diventare un supereroe in trasferta. E Pantera Nera, pur con tutte le sue forze e il suo acume intellettivo, non riesce a uscire da una storia il cui scopo principale è picchiare dei mostri. Il ruolo del vigilante è quindi, per Priest, una trappola in cui cadono personaggi, autori e lettori. Reginald Hudlin è stato l’ultimo autore che ha potuto dare un apporto significativo, se non altro in termini di quantità, ma di recente T’Challa ha trovato spazio più come membro degli Illuminati che come protagonista di una serie sua.

A rinnovare la tradizione sono arrivati Ta-Nehisi Coates – giornalista per Washington Post, The Atlantic, Village Voice New York Times e autore di Tra me il mondo e Brian Stelfreeze, disegnatore che da vent’anni fa spola tra Marvel e DC Comics. Le coordinate minime di fruizione Pantera Nera che cerca di proteggere la propria nazione dagli attacchi della contemporaneità alternando conversazioni impegnate a scazzottate – potrebbero non far capire dove sta la spaccatura tra Coates e gli altri.

L’analisi più eloquente la si trova nell’elemento paratestuale dell’abstract, il breve sunto che introduce ogni storia. Jack Kirby scriveva [traduzione mia]: «Con la sinuosità di una bestia della giungla, il principe di Wakanda solca il cemento della città e il sottobosco della prateria, perché quando il pericolo incombe indossa i panni del gatto selvaggio da cui ha preso il nome». Priest invece elabora così l’introduzione del fumetto [traduzione mia]: «Così è stato per generazioni di re guerrieri, così è oggi e così sarà finché la legge della giungla detterà che solo l’abile, l’intelligente e il forte sopravvivono! Nobile campione. Protettore vigilante». In entrambi i passi, pur presentando un parallelismo tra il mondo della natura e quello urbano, sono accentuate le caratteristiche animali del personaggio. Connettere la savana alle strade delle città statunitensi rivela un’ideologia razziale che guarda ai cittadini inurbati come ad animali disumanizzati (e non a caso, secondo l’attivista Kevin Powell, negli anni Ottanta lo zoo si trasformò in un simbolo dell’intero quartiere del Bronx).

Priest aggiunge un’annotazione nazionalistica, ma sembra più preoccupato di stare al passo con la prosa di piombo di Kirby piuttosto che di fornire un resoconto fedele delle tematiche alla base del personaggio. Hudlin, invece, esordisce così [traduzione mia]: «Ci sono posti con cui non ti conviene scherzare. Wakanda è uno di questi. […] Mentre il resto dell’Africa è stato smembrato come un tacchino natalizio dal resto del mondo, la rivoluzione culturale di Wakanda ha continuato, incontrollata, per secoli, libera dal giogo della colonizzazione. Il risultato: un paradiso sicuro, ricco di risorse hi-tech ed ecologico che al confronto fa sembrare il resto del mondo un luogo primitivo». Tutte le metafore faunistiche sono scomparse, a eccezione del ‘tacchino smembrato’ – una  potente distinzione geopolitica tra il Wakanda e il resto dell’Africa. Lo scarto linguistico rivela la volontà di catapultare il personaggio in un contesto politico al passo coi tempi (un informalissimo «you just don’t mess with»), non v’è più solo il gioco per l’avventura e l’esotico che contraddistingueva le precedenti gestioni.

Coates parte dall’assunto di Priest e lo rovescia: tutta la serie si svolge in Wakanda, ma T’Challa non riesce a comportarsi come un vero re ed è attanagliato dalle contraddizioni personali e della nazione: non ha senso agire come un re quando – come dice Coates nella storia – il re è temuto non per quello che sa fare ma per quello che il suo popolo pensa sappia fare; e ogni atto concreto diminuisce il suo potere perché ne svela i limiti. Lo stesso Wakanda, ipertecnologizzato ai limiti della distopia, non dovrebbe muovere verso forme più democratizzanti di governo? «Pantera Nera è l’ancestrale titolo cerimonale di T’Challa, re di Wakanda. T’Challa passa il proprio tempo a proteggere il suo regno e il resto del mondo. La nazione africana di Wakanda è la società tecnologicamente più avanzata al mondo. Si trova su un grande deposito di una risorsa naturale estremamente rara, il vibranio. Wakanda si vanta di non essere mai stato conquistato. Ma eventi recenti – un’inondazione biblica che ha ucciso migliaia di persone, un piano orchestrato dal Dottor Destino, e un’invasione di Thanos – hanno umiliato il regno.»

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Che il regno sia stato attaccato dai colonizzatori viene ribadito nel terzo numero, che si apre e si conclude con una poesia di Henry Dumas intitolata Rootsong, un componimento che ricostruisce la diaspora prima e dopo il colonialismo. Dumas morì a 33 anni per mano di un poliziotto che lo scambiò per un’altra persona (ma le cause dell’incidente sono, a quasi cinquant’anni dall’accaduto, poco chiare) e fu uno dei fautori della Black Aesthetics, il cui cardine era la frammentazione dello sguardo unilaterale bianco. Queste parole vengono accompagnate dalle immagini dei vari cataclismi Marvel che si sono abbattuti sul Wakanda, e in una carrellata temporale vediamo come guerre coloniali con lance e bastoni siano diventate guerre coloniali con tecnologia e magia.

C’è uno sketch del Saturday Night Live in cui si prende in giro l’affermazione da parte di Beyoncé della propria blackness, della propria identità nera. Nella gag del programma, i bianchi danno di matto quando scoprono che Beyoncé è nera e che, per una volta, il suo materiale parla di questioni avulse. «Non parla di me», urla Cecily Strong, «e di solito tutto parla di me». La battuta racconta della paura che ci pervade di fronte alla possibilità di perdere i privilegi. Secondo passaggio. Beyoncé ha scritto una canzone che si intitola Flawless, che interpola alla canzone un passaggio di Dovremmo essere tutti femministi, discorso (e poi libro) scritto da Chimamanda Ngozi Adichie, la più prominente scrittrice nigeriana del panorama contemporaneo (magari un’altra volta possiamo parlare di quanto sembri a sua volta stereotipante una manovra del genere, ma il punto è: il cantante che riempie i palazzetti smette di parlare a tutti, anche se paradossalmente continua a farlo, per rivolgersi a una realtà specifica).

Terzo e ultimo grado di seperazione: Adichie ha scritto un libro, Americanah, che parla di una giovane donna nigeriana, Ifemelu, emigrata negli Stati Uniti per frequentare l’università. Oltre a essere anche la storia di Pantera Nera (che ha studiato in Europa e negli USA), Americanah è uno dei libri che compaiono nella libreria di Changamire, professore di filosofia all’università del Wakanda, nel quarto numero di Black Panther. La scena in cui vediamo questo inserto è un lungo dialogo tra Ramonda e Changamire sul senso ultimo di una nazione, con da una parte Changamire intento a condannare il proprio paese per il fatto di avere tutta la tecnologia pensabile ma nemmeno una delle libertà di cui paesi meno avanzati godono, dall’altra la regina (con guardie armate al seguito) che gli ricorda che nessuna nazione è mai nata sul terreno vergine di verità e candore.

Questa vignetta contiene tutte le chiavi della poetica di Black Panther, alcune anche inaspettate. Se pare anche naturale vederci al suo interno A Nation Under Our Feet (il saggio di Steven Hahn sul potere politico afroamericano che dà anche nome alla storia), I dannati della terra di Franz Fanon o The Black Jacobins di C. L. R. James, è invece una scelta quasi peregrina Lo specchio lontano di Barbara Tuchman (un libro criticato di faciloneria che mette in correlazione il medioevo con la Prima guerra mondiale, dicendo che gli orrori del XIV secolo si sono riflessi in quelli del XX secolo).

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E quindi Beyoncé, Adichie e Pantera Nera parlano della stessa cosa, della ricerca di identità, di un paese che si possa chiamare casa senza che la voce si sporchi di vergogna. Di femminismo, anche, grazie alla sottotrama delle Dora Milaje, le guerriere guardie del corpo/spose di T’Challa create da Priest nel 1998 e qui reiventate, spogliate dal male gaze e rivestite di un discorso sulla rappresentazione femminile (Coates racconta che, nel descrive il bacio che le due si scambiano all’inizio della storia, aveva avvertito Stelfreeze di non farlo sembrare erotico nel senso maschile).

In Black Panther ci sono molti dei temi trattati in Tra me e il mondo, lunga lettera che Coates scrive al figlio e in cui gli racconta di cosa significhi essere afroamericani nell’America di ieri e oggi, tra le ingerenze della polizia e il razzismo latente che alimenta il Sogno Americano. In Tra me e il mondo, Coates parla del suo materialismo radicale («il nostro corpo è il nostro spirito, la mia anima è il voltaggio condotto da nervi e neuroni») e attua una sovrapposizione completa tra mondo concreto e spirituale. La sua concezione biopolitica si tramuta nella continua ripetizione della parola “corpo”, ribadendo così quanto il dominatore eserciti il proprio potere sul dominato attraverso le membra. Ecco, in Black Panther l’esaltazione corporale si spinge oltre: la parola che ricorre più spesso è “sangue”, a precedere “corpo” e “nazione”, e i riferimenti all’universo semantico della concretezza fisica si sprecano.

L’unica cosa su cui si frena è il sotterraneo sdegno (a volte perfino un senso di colpa dato dall’essere white straight male) che chiunque bianco abbia letto Tra me e il mondo avrà avvertito, come scrive Giorgio Fontana su Minima et moralia. È un Coates meno arrabbiato, più mentale e meno istintivo, che rivolge le proprie accuse a T’Challa, unico privilegiato della storia («non si più sostenere di essere supereroi ma poi chiedere venia per i propri errori umani» scrive in Tra me e il mondo) e allo stato del Wakanda, che viene valutato secondo i più alti standard di moralità, perché è così che va giudicata una nazione che si autoproclama straordinaria (era il consiglio che dava Coates al figlio quindicenne).

Sarà ormai chiaro che quello del 2016 è il Pantera Nera più letterario di tutti, sotto la scorza da thriller politico. La letteratura circonda i personaggi, è argomento di discussione, c’è un uso fortissimo dell’hausa, una delle tre lingue principali della Nigeria, e la prosa che padroneggia Coates è sempre aulica, perentoria, raffinata (a volte ridondante). C’è una sensazione costante, a volte sfuggente, che il fumetto sia stato scritto da un accademico e che molti dei riferimenti evaporino a contatto col cervello del lettore.

Ed è un segno della sclerotizzazione del fumetto se ho parlato così poco di Brian Stelfreeze, disegnatore che segue Coates nella costruzione di un immaginario afrocentrico – la cura maniacale in ogni abito o capo di vestiario – innestato nella dimensione tecnologica di Wakanda, e che in generale assiste i testi con scelte minimaliste tanto nel segno quanto nella costruzione della tavola. La voce grossa la fa piuttosto Laura Martin, che usa una palette di colori totalmente fuori schema rispetto alla tradizionale rappresentazione dell’Africa, pittando le tavole di viola psichedelici e verdi velenosi. Fatto sta che il carico da undici lo mette soprattutto Coates, portando nel fumetto elementi nuovi e cari alla propria concezione di racconto.

Il risultato sembra più classico e impostato di quanto non ci si aspettasse, e forse non salterà agli occhi come fanno Visione o una di quelle serie laterali che puntano sullo iato da un’idea laterale e un’esecuzione quadrata, ma la distanza che Pantera Nera mette con le altre testate per ricchezza di approfondimento è innegabile.

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