Bisogna festeggiare. Trent’anni sono un traguardo importante, anche per le serie televisive animate. L’11 ottobre 1986 non dirà molto ai più, ma è stata una data storica (indirettamente) per almeno un’intera generazione di bambini. Sul canale giapponese TV Asahi veniva trasmessa per la prima volta una serie televisiva destinata ad avere un successo tale da sfondare i confini nazionali e divenire riferimento obbligato per molti bambini, tra cui il sottoscritto. Si tratta di Saint Seiya, il cui titolo italiano, come molti sapranno, è I Cavalieri dello Zodiaco. In Italia è arrivato qualche tempo dopo, il 26 marzo 1990 su Odeon TV per poi passare, dopo i primi 52 episodi, su Italia 7, ma il successo è stato clamoroso su entrambi i fronti. In Giappone l’entusiasmo per i cinque cavalieri il cui compito è di proteggere la dea Atena è stato tale da portare i preventivati 52 episodi a 114 in una struttura specifica e precisa che si può suddividere in diversi blocchi denominati Saghe: Saga del Santuario (ep. 1-74), Saga di Asgard (ep. 74-99) e Saga di Nettuno (ep. 100-114).
Coloro che non hanno vissuto questo periodo così fervido della televisione italiana per bambini/ragazzi devono capire che all’epoca non c’era possibilità di organizzazione. I diritti erano gestiti un po’ così, come veniva, il che permetteva l’avvenire di cose oggi impensabili. Tipo? Be’, per esempio, nel bel mezzo dello storico scontro tra Pegasus e Ioria, assistere alla fine della puntata per poi il giorno dopo ricominciare dall’inizio (la prima puntata!). Cose che nella stragrande maggioranza dei casi generano conseguenze ineluttabili nella psiche del bimbo (parlo chiaramente di me).
Tratto dal manga di Masami Kurumada di pochi mesi precedente, I Cavalieri dello Zodiaco ha definitivamente sdoganato il concetto di animazione giapponese come opera con un ruolo anche economico e di esportazione, grazie alla sua veloce trasformazione in fenomeno di merchandising notevole. Ehi, mi dico, perché non senti quel geniaccio di Paolo Cattaneo, autore di L’estate scorsa (Canicola Edizioni) e vedi se ha qualche dichiarazione da fare a riguardo? Non solo Paolo si è divertito a rispondermi, ma ci ha anche fatto un piccolo (grande) regalo disegnato che potete ammirare più in basso:
Di Saint Seiya conosco il nome in giapponese e poco altro. Mi ricordo che da bambino i miei vicini di casa erano tipo tossicodipendenti e quando iniziavano I Cavalieri dello Zodiaco si mollavano tutte le figate che si stavano facendo e ci si precipitava lestissimi davanti al tubo catodico. Loro si precipitavano, io mi deprimevo o tornavo a casa. Guardavo una puntata ogni 15 e non ci capivo mai una mazza (non potevo manco chiedere delucidazioni perché quei tossici erano totalizzati nella sacra visione).
Mi ricordo Pegasus che pigliava sempre schiaffi e se ne stava per terra, tutto macilento, a pensare a come prenderne degli altri. Poi c’era Andromeda, che era chiaramente una femmina perché era rosa ma invece era un maschio ma piaceva alle femmine.
Crystal e Sirio che erano i super-preferiti dei fratellini tossicomani. E Phoenix, che forse piaceva a me, ma manco tanto. Anche a scuola erano tutti in fissa e c’avevano i pupazzetti con i pezzi di armatura che si mettevano e toglievano. Mi ricordo grandi ricreazioni piene di bambini che cercavano pezzi di Armature D’Oro sotto i banchi, poveretti, brutta bestia la dipendenza.
La qualità è un crescendo senza sosta, merito naturalmente del character design, lavoro combinato di rara potenza grafica da parte di Shingo Araki e Michi Himeno. Ma non solo: le epiche musiche curate Seiji Yokoyama (colui che aveva curato le colonne sonore di Capitan Harlock e, ancora prima, Le avventure dell’ape Magà) trovano la sintesi perfetta nelle animazioni e nella regia, capaci di mescolare accelerazioni ardite a momenti sospesi di delicata poesia. In Italia il valore aggiunto è sicuramente stato il doppiaggio, il cui direttore Enrico Carabelli ha contribuito in maniera massiccia inserendo termini ispirati direttamente a un certo tipo di letteratura per sottolineare la dimensione cavalleresca del titolo. Un Ivo de Palma in stato di grazia ha doppiato Pegasus, e sono convinto che abbia segnato (positivamente) la sua carriera.
Ma perché I Cavalieri dello Zodiaco è così importante? Qual è il suo ruolo nella storia dell’animazione giapponese? La sua fortuna è stata quella di ottenere suggestioni fortemente intrise della cultura giapponese in un contesto chiaramente occidentale, con riferimenti più o meno espliciti all’universo omosessuale. Sì, avete capito bene. In proposito, lo sceneggiatore Luca Vanzella (Beta), da noi contattato per avere la sua opinione, ci ha risposto così:
Ci sono diversi aspetti dei Cavalieri dello Zodiaco che sono rimasti impressi nei loro spettatori italiani: l’incredibile drammaticità sopra le righe, la totale assenza di ogni tipo di ironia, lo straniante uso dei miti greci, l’adattamento spericolato con citazioni di Dante, Foscolo e Leopardi.
Quello che mi rimane impresso ancora adesso più di tutti è la ‘gayezza’ che permea tutta la serie. L’omosessualità non diventa mai un tema esplicito ma ci va vicino più e più volte (e non servirebbe neanche scomodare Andromeda che “scalda col suo cosmo” un Crystal ibernato).
Per rendersene conto con un colpo d’occhio si può confrontare i Cavalieri con un’altra serie a tema di arti marziali e costellazioni, Ken il Guerriero: in Ken i protagonisti sono macho culturisti con il mullet, le relazioni oscillano tra il virile cameratismo e la silenziosa stima e la (quasi) unica donna presente è una fidanzata da rubarsi a vicenda (povera Julia). I Cavalieri dello Zodiaco sono invece membri di boy band (se non direttamente effeminati), urlano ai quattro venti la loro intensissima amicizia e la donna sui cui ruota la storia è una dea (un’icona, se vogliamo) lontana da mire romantiche.
I Cavalieri dello Zodiaco sono la prova che il maschilismo non è l’unica strada per l’azione e l’avventura: milioni di ragazzi si sono appassionati a Pegasus e compagni per il loro eroismo e spirito di sacrificio, nonostante la scarsa eterosessualità presente nel loro cosmo.
I riferimenti distorti alla cultura greca sono certamente divertenti, soprattutto se declinati in una chiave combattiva, ma è qualcos’altro a rimanere impresso, qualcosa che ha a che fare con buona parte degli anime del dopoguerra: il senso di sacrificio per un motivo più grande, un’abnegazione che diventa assoluta nel suo aderire a un ideale. Mi fermo. Sento Marco Pellitteri, uno dei massimi esperti nel settore dedicato allo studio e all’analisi dell’animazione giapponese che, a giugno 2017, uscirà per Nicola Pesce Editore con la quarta edizione ampliata e riveduta di un grande classico: Mazinga Nostalgia. Gli chiedo perché, secondo lui, I Cavalieri dello zodiaco hanno avuto un ruolo così fondamentale nella storia degli anime. Mi risponde prontamente, rimproverandomi ironicamente per aver usato Facebook:
Non saprei dire se I Cavalieri dello Zodiaco sia stato fondamentale per l’animazione giapponese in generale o in Giappone: importanti forse, ma non al livello di serie come Mazinga Z o Lupin III o Gundam o Neon Genesis Evangelion o anche altre mai arrivate in Italia (come Sazae san). So però che è stato fondamentale per una generazione di ragazzini venuti subito dopo la Goldrake-generation, cioè telespettatori (e penso anche molte telespettatrici) nati a metà e alla fine degli anni Ottanta, i quali inquadrano i Cavalieri un po’ come le persone nate negli anni Settanta vedono Goldrake. In tal senso, i Cavalieri sono “il loro Goldrake”, la pietra miliare, il loro peso massimo, quando si parla di disegni animati giapponesi alla televisione. Intendiamoci, molti ragazzini della vecchia guardia si appassionarono alle gesta di Pegasus (Seiya) e dei suoi compagni di battaglie, ma erano già grandicelli, nei tardi anni Ottanta e primi anni Novanta. Il fascino di questa serie è comunque innegabile.
Il successo italiano inoltre si deve a due fattori che hanno alimentato la popolarità degli anime fin da Heidi: l’adattamento e la scelta delle voci, e le sigle italiane. Il livello dei doppiatori italiani – non dico nulla di nuovo – fin dagli anni Trenta per il cinema, dagli anni Cinquanta anche per gli adattamenti televisivi di serie straniere, e tutto sommato ancora adesso, ha varie marce in più rispetto alle tradizioni di un po’ tutti gli altri paesi del mondo, Giappone incluso. La scelta dei timbri vocali dei personaggi giapponesi – in originale molto più immaturi e invece nell’adattamento italiano usualmente più profondi e adulti – ha creato un plusvalore semantico e simbolico molto significativo, grazie al quale i piccoli spettatori italiani hanno potuto godere di un apparente corto-circuito sinestesico: aspetto fisico adolescenziale, voce matura, un po’ com’era accaduto anche per la voce di Actarus anni prima e le voci dei personaggi di Holly e Benji: il grosso degli spettatori italiani non lo sa, ma i timbri degli attori giapponesi che erano stati abbinati a questi personaggi erano molto più alti e sottili.
Inoltre, nei Cavalieri, un enorme fattore di successo – che non credo sia dispiaciuto tanto ai docenti scolastici di lettere italiane e latine – è stata la ricostruzione localizzata di gran parte del fraseggio, reso aulico, altisonante, culturalmente più ‘consono’ (per noi figli delle culture greca e latina) all’ambientazione postmodernista che miscela i miti antichi, rispetto ai dialoghi originali giapponesi, di gran lunga più secchi e diretti, e dal linguaggio più semplice.
Il successo italiano del manga in tal senso è un caso tipico di ‘risalita delle rapide mediali’ da parte del pubblico, come scrissi in Mazinga Nostalgia nel 1999: il manga è per molti aspetti – specialmente grafici – assai inferiore alla serie animata, ma è stato un successo grazie al traino della serie animata e proprio per rendere possibile ai fan di risalire alla sorgente di quell’immaginario, come salmoni mediatici. Il tratto spigliato e dinamico, ma grezzo, di Masami Kurumada non può reggere il confronto con l’inarrivabile eleganza dei disegni di Shingo Araki, così come la sostanziale mutezza del manga non può essere paragonata alla ricchezza delle voci e dei dialoghi, davvero coinvolgenti anche a livello recitativo, del doppiaggio italiano. Però il pubblico inevitabilmente acquistò il manga trascinato dal successo dell’anime, e quindi in questi casi è stato facile per i giovani lettori proiettare sul silenzio della carta stampata le sonorità già sperimentate, godute e memorizzate della serie televisiva.
Questa capacità di mescolare dimensione epica e cultura bassa, sacro e profano, ha emozionato una schiera di spettatori che, volenti o nolenti, al di là di tutte le analisi che si vogliono fare, sono rimasti segnati da un titolo che ha fatto la storia. Una consacrazione della classica scazzottata che, improvvisamente, diventa teatro di sentimenti, emozioni, dolori e perdite. La vita, insomma. Perché, alla fine, nella sua reiterazione, I Cavalieri dello Zodiaco mette in scena proprio questo: una serie di scontri a non finire. Ma in mezzo… in mezzo c’è un universo. Così come era nei deserti postapocalittici di Ken il Guerriero, nell’infinito campo di calcio di Holly & Benji, nel rettangolo di gioco di Mila e Shiro: tra le righe dell’apparentemente banale “scontro” si sviluppano le redini di un discorso che condensa vette di valori e ideologie da frantumare il cuore. Alt. Fammi scrivere a Werther Dell’Edera, disegnatore – tra le varie cose – di Sergio Bonelli Editore, che non ha mai nascosto il suo amore per anime e manga. Gli chiedo se in qualche modo è rimasto segnato dall’oggetto di questo articolo, ed ecco che cosa mi risponde:
I Cavalieri dello Zodiaco hanno mostrato a un ragazzino quale ero il sottile piacere del dramma e della sofferenza, un autocompiacimento mascherato da una gran dose di stile e cazzotti. Li ho sempre adorati.
Manca ancora qualcosa, lo sento. Ho capito, chiamo Cristina Bignante, preparatissima collaboratrice di Fumettologica, una che riesce sempre a stupirmi con quel titolo inatteso, quel suggerimento imprevisto. La sua risposta è decisamente più articolata, motivo per cui decido di cedere il passo e lasciarle il dovuto spazio.
Scoprire Saint Seiya nel 2016, di Cristina Bignante
A proposito di inatteso e imprevisto: tra le tante voci di questo doveroso omaggio ai Cavalieri, credo di essere l’unica che A) è una femminuccia e B) per ragioni anagrafiche, non ha visto il cartone animato in età scolare. Eppure, anch’io sono qui per parlare di come sono cresciuta con Saint Seiya. Non direttamente, bensì attraverso il suo impatto sulle produzioni anime successive e in particolare, pensate un po’, sugli shoujo.
Ma andiamo con ordine. Di Saint Seiya, fino a pochissimo tempo fa, avevo solo una vaga conoscenza aneddotica e ancor più vaghe reminiscenze di qualche episodio beccato per caso su Junior TV. Ricordavo la cecità di Sirio e l’ardente desiderio di sposarlo, la bellezza inconcepibile di Andromeda (com’era possibile che fosse uno stupido maschio?!) e Pegasus che cadeva nei burroni. Un sacco di burroni. Soprattutto, però, ricordavo che il mio stomaco si torceva tutto mentre lo guardavo. Era tutto così drammatico, così intenso! Che all’origine del mio amore per gli anime strappacuore, mi chiedevo, ci fosse anche lo zampino dei Cavalieri? Alla fine mi sono detta: sai che c’è? L’estate è fatta per i recuperoni, spariamoci questi 114 episodi.
Che estate, gente. E che esperienza illuminante. La maratona non solo ha confermato i miei sospetti (e fatto rinascere, più ardente che mai, il desiderio di sposare Sirio), ma è stata anche un vero e proprio viaggio alla scoperta delle origini di un certo immaginario shoujo che ha segnato la mia infanzia e adolescenza. Infatti non è un mistero che Saint Seiya, sebbene sia uno shonen, abbia sempre avuto un vastissimo seguito femminile. Del resto, Araki & Himeno sono la stessa squadra che ci ha regalato Lady Oscar, e in tempi più recenti il manga spin-off Saint Seiya – The Lost Canvas è stato affidato a una mangaka donna, Shiori Teshirogi.
Sono tantissime le opere per ragazze che, senza Saint Seiya, probabilmente non sarebbero mai esistite. Sailor Moon, per dirne una. Più proseguivo con la visione e più mi rendevo conto che, cavolo, Sailor Moon è I Cavalieri dello Zodiaco con le donne! La struttura narrativa, gli ideali di fondo, perfino intere scene sono riprese fedelmente – e così è grazie a Pegasus e gli altri se, per la prima volta nella storia degli anime, abbiamo potuto vedere un gruppo di ragazze battersi strenuamente in difesa della giustizia e dell’amore. Grazie, Cavalieri!
E grazie per le CLAMP, che probabilmente senza di voi non sarebbero mai esistite! Il celeberrimo collettivo di autrici infatti è nato proprio realizzando fumetti amatoriali con protagonisti i nostri e in seguito tutta la loro produzione ne è stata fortemente influenzata nell’estetica, nella tipizzazione dei personaggi e dei rapporti tra essi. Le CLAMP hanno a loro volta influenzato lo shounen ai e… e insomma, ragazzi, non so bene come dirvelo, ma è merito di Phoenix e Andromeda se negli yaoi il ragazzo efebico con gli occhioni da Bambi finisce sempre con l’omaccione rude scolpito nel marmo.
Al di là di queste derive di genere, comunque, si può dire che Saint Seiya abbia proposto una varietà di personaggi maschili con caratteri e dinamiche relazionali che, da quel momento in poi, rincontreremo spesso e volentieri in moltissime opere successive – anche quelle per ragazze. Mica poco, no?