Con la collana Romanzi a fumetti: Tex d’autore inaugurata dal volume disegnato da Paolo Eleuteri Serpieri e proseguita con quelli per opera di Mario Alberti e Angelo Stano, Sergio Bonelli Editore sembra suggerire, in maniera ancora più evidente, una nuova strategia editoriale: produrre fumetti che, per formato, linguaggio e stile possano competere con un’offerta internazionale, avvicinandosi in particolare ad alcune caratteristiche – se non alla formula in toto – del fumetto popolare francese. Una direzione da non sottovalutare. Tanto più quando a rappresentarla è il personaggio cardine della casa editrice, l’immarcescibile Tex.
Da eccezione (Texone) a regola industriale: Bonelli ‘48CC’?
Il punto è che questa nuova collana si distingue davvero non poco dal Tex Gigante (o Texone), per il quale l’obiettivo principale è quello di innestare nella tradizione texiana i contributi di disegnatori “eccentrici”, estranei per carattere stilistico e, spesso, materialmente provenienti da altre scuole nazionali. La sfida dei Texoni è in una precisa visione di cosa possa essere una (re)interpretazione del “bonellismo classico”: vedere come il disegnatore ‘ospite’ contribuisce con la propria sensibilità, la propria cultura, il proprio tratto specifico ad arricchire una tradizione consolidata. Le maggiori dimensioni del formato o l’ampliamento delle pagine rispetto all’albo classico, non modificano ed anzi esaltano per differenza gli elementi costitutivi di questa tradizione: la gabbia di sei vignette, il bianco e nero, la narrazione realistica e dilatata. La presenza di sceneggiatori consolidati e già sperimentati serve appunto a garantire, innanzitutto ai lettori, il legame con le buone vecchie “abitudini”.
Che si tratti di Magnus o Kubert o Buzzelli o Frisenda o Enrique Breccia, dunque, l’elemento che continua a caratterizzare la collana dei Texoni è il rispetto con cui ciascuno di questi autori si approccia alla regola bonelliana. In questo rito fumettistico l’autore è chiamato a rendere omaggio al personaggio, non viceversa. Come disse Magnus in una storica intervista a proposito del suo Texone:
Noi siamo troppo abituati a pensare agli autori che si inventano le loro storielle di 46 pagine. Ma di fronte a un personaggio e a una saga che ha impegnato tanti autori del calibro di Galep, Letteri, Nicolò, Ticci, Villa, puoi solo metterti al servizio dell’Eroe.
Nel caso dei Tex d’autore, invece, ci troviamo di fronte a un radicale cambio di prospettiva. Il nome della collana vorrebbe suggerirci una pur legittima enfasi, se non prevalenza, dell’Autore sul personaggio. In realtà, più che la prevalenza dell’autore – già in primo piano nei Texoni – ciò che emerge è piuttosto la prevalenza di una formula editoriale, quasi uno dei grandi ‘format’ consolidati del fumetto internazionale: il cartonato detto “alla francese”, di circa 50 pagine su carta patinata, interamente a colori. L’obiettivo è dunque, più che enfatizzare il peso degli autori, pare quello di piegare il prodotto – e il personaggio – a una forma, un aspetto e un design grafico consoni ad affrontare altri mercati. Quello franco-belga in primis, naturalmente; ma anche quei mercati stranieri che nella formula franco belga del “48CC” (ovvero “48 pages cartonné couleur”, la sigla coniata da Jean Cristophe Menu e diffusa nel gergo della bédé per indicare i classici album di 48 pagine cartonati a colori) riconoscono uno standard in qualche modo sovranazionale, conosciuto e stampato più o meno in tutti i paesi.
Non è un caso, dunque, che per illustrare questo quarto albo sia stato chiamato Giulio De Vita. Il quale, pur nascendo sulle pagine del bonellide Lazarus Ledd creato da Ade Capone – cui è dedicato l’albo – ha poi conosciuto il successo Oltralpe, con serie avventurose come Il Decalogo, Wisher o Thorgal. Il suo lavoro, semplice nella linea ma orientato a una equilibrata spettacolarità, rappresenta senza dubbio l’elemento più interessante dell’operazione. De Vita, con il supporto essenziale dei colori di Matteo Vattani, regala ottime inquadrature, un efficace dinamismo e grande cura dei dettagli e delle atmosfere. La storia del suo Tex ventenne nell’inverno gelido del Montana propone, entro un impianto per certi versi elementare, una varietà di scenari che esaltano la componente visiva. Insomma, un disegnatore al servizio di una formula, e una formula al servizio del giusto disegnatore.
La sceneggiatura di Gianfranco Manfredi vede Tex prestare aiuto al vecchio amico Birdy contro un mercante di pelli senza scrupoli. Non si tratta di una prova particolarmente ispirata di Manfredi, che limita il proprio contributo a una sequenza funzionale di ambienti e fatti piuttosto prevedibili. La narrazione inizialmente lenta ed evocativa con frequenti – talvolta ridondanti – balloon di pensiero, subisce una brusca accelerazione nella fase finale, con l’inevitabile condanna del villain di turno eseguita davvero molto in fretta. La sensazione è che il formato acceleri il ritmo del racconto e costringa la trama a una maggiore essenzialità rispetto alla consueta (lunga) andatura bonelliana, sacrificando però la componente più emotiva e, in parte, di atmosfera. Forse è questione di allenamento, o di nuove “abitudini”: il passo del racconto secondo la formula “48CC” ha le sue regole, e per gli autori italiani meno avvezzi a questa prassi produttiva ci vorrà un periodo di adattamento, comprensivo di “prove ed errori”.
Vero è che anche in altre storie più lunghe (per esempio alcune della pur ottima saga di Magico Vento) Manfredi – tessitore di numerosi e originali feuilleton storici – aveva dato prova di un certo disequilibrio nel racconto, indugiando inizialmente sulla costruzione della trama e dei personaggi, per risolvere nelle ultime pagine tutti i nodi in maniera, però, frettolosa. Qui la situazione è la stessa, gravata per di più dalle minori pagine a disposizione. Rimane degna di nota la caratterizzazione non scontata di Lily, la bella e tenace ragazza di Birdy che rimane al suo fianco tra le difficoltà, e a cui Manfredi regala la battuta più bella della storia: «Il segreto per una coppia che voglia durare è imparare a sparare contemporaneamente».
L’innovazione di prodotto nella Bonelli anni Duemiladieci
La componente grafica, connaturata al formato francese che l’ha resa possibile, resta perciò l’elemento di maggiore interesse di questo albo. E si inserisce in una tendenza più generale in atto presso Sergio Bonelli Editore: una innovazione che si concentra soprattutto sulla dimensione tecnica e di “confezione” dei prodotti. Tex d’autore, e questo volume in particolare, non è che un caso particolarmente evidente di una più ampia trasformazione, che passa (quantomeno) per quattro aspetti:
1) Colore e tecniche di stampa
Il colore, in casa Bonelli, c’è da tempo. Ma quel che è accaduto negli ultimissimi anni è qualcosa di molto diverso. Un vero e proprio cambio di passo. Oggi il colore non è più una risorsa “rara”, destinata – e centellinata – per specifiche occasioni storiche, celebrative o ‘eccezionali’ (nei numeri anniversario, negli speciali fuoriserie, in collane ad hoc come DD Color Fest…), bensì è una prassi, una regola, un ingrediente comune e quasi scontato. Lo è nelle collane di ristampe “di massa” progettate come collaterali per i lettori dei grandi quotidiani. Soprattutto, lo è in sempre più numerose serie regolari, a partire da Orfani e successivamente altrove, come in Morgan Lost, nella imminente Martin Mystère – Le nuove avventure a colori e nel prossimo Mercurio Loi.
2) Gabbia e design grafico
L’eccezione non è ancora regola, ma di certo è sempre meno eccezione. In questo senso la sempre più frequente rottura della classica gabbia regolare di sei vignette a tavola, un tempo trasgressione sporadica, e praticata più sistematicamente da Nathan Never in poi, oggi è diventata prassi. Anche qui l’innovazione è stata spinta in primis sulle pagine di Orfani, ma anche in molti Dylan Dog più recenti. Un aspetto sui cui l’editor e autore Roberto Recchioni ha insistito con particolare coerenza e fantasia. Accanto a questa maggiore flessibilità nel codice grafico principale del fumetto Bonelli, un’altra componente grafica ha visto aumentare la gamma di soluzioni possibili: le copertine. Non solo con la politica delle variant cover, ma con soluzioni di stampa più varie e spettacolari (in Dylan Dog, le cover all-white o glow-in-the-dark) e con l’impostazione multi-pannello in Morgan Lost.
3) Struttura seriale
C’era una volta la serialità ‘infinita’. Poi arrivarono le miniserie. E, spingendosi ancora oltre, la scansione narrativa delle serie Bonelli più recenti si è articolata in cicli di episodi, o ‘stagioni’ – come nel caso di Orfani – cercando di applicare una logica ormai consolidata nella produzione della grande serialità televisiva (e fumettistica) americana.
4) Modelli produttivi
Proprio di recente, Fumettologica ha sottolineato come la principale novità del reboot / non-reboot di Martin Mystère sia non tanto (o non solo) nei contenuti, quanto nel modello produttivo. Un lavoro di squadra, modellato sul principio collaborativo della writing room americana (sempre televisivo), che suona come una inattesa, persino sorprendente volontà di recuperare terreno sul fronte organizzativo, in un’epoca in cui ormai nemmeno le maggiori serie americane o francesi sono lasciate alle mani di un solo sceneggiatore deus ex machina.
Insomma, su questi quattro aspetti si potrà naturalmente discutere, ma quel che è certo è che la veneranda SBE vi ha investito energie con convinzione, facendone alcuni degli esempi più eclatanti della trasformazione in atto nella casa editrice. Una mutazione che, allo stato attuale, appare perciò innanzitutto ‘tecnica’, ovvero fatta di specifiche soluzioni, codici e metodi di lavoro.
Bisogna peraltro riconoscere che questo cambiamento, pur con qualche difficoltà, pare ricevere buoni riscontri dal pubblico. Non è un caso, infatti, che l’unico titolo seriale recente ad avere mantenuto un approccio più tradizionale proprio su questi fronti – nella progettazione grafica e nella confezione, ma anche nella formula seriale e nell’approccio alla scrittura – è quell’Adam Wild che sta per giungere a una prematura conclusione a causa delle vendite insoddisfacenti. In realtà, l’insuccesso di Adam Wild, così come quello di Saguaro, per quanto serie ricche di spunti e temi interessanti (un’analisi di Saguaro la trovate qua), hanno più probabilmente a che vedere con i limiti di un certo immaginario western o esotico, oggi meno attraente per il lettore ‘medio’ Bonelli. Ma se a questi limiti si aggiunge anche la rinuncia alle innovazioni che abbiamo visto, le difficoltà delle due serie si spiegano ancora più chiaramente.
Sia quel che sia per le serie stoppate, quelle in corso ci offrono una prospettiva sul “bonellismo” che molti non avrebbero nemmeno immaginato pochi anni fa. Sembra quasi che, rispettoso per troppi anni di una rigida ortodossia, di formule e format intoccabili, il fumetto popolare italiano rappresentato da SBE senta oggi l’esigenza di smarcarsi in parte dal suo passato. E per farlo provi a esplorare una via tecnica che ha a che vedere anche con un ricambio generazionale e professionale, fatto di nuove sensibilità, modalità di lavoro, attenzione per aspetti un tempo ritenuti secondari.
Un rischio, tuttavia, c’è. Ovvero che a questa spinta non ne corrisponda una altrettanto forte sul resto, e in particolare sul fronte più propriamente – ‘tecnicamente’ – narrativo. Un po’ come è accaduto – paragonando mele con pere, solo per rendere l’idea – nel cinema mainstream ai tempi dell’avvento della computer graphic o con il 3D, soprattutto nelle fasi iniziali. Se la componente estetica/formale/tecnica viene assunta a guidare il progetto, è possibile che la progettazione delle storie consumi meno attenzione, finendo per mettere in campo elementi standardizzati, familiari e rassicuranti.
La diffusione della logica del “remake” nel fumetto Bonelli recente ne è un probabile sintomo: l’attenzione del pubblico, in numerosi e significativi casi, è ricercata a partire dai nuovi linguaggi – nuove firme, nuovi codici, nuovi design. Pensiamo a Martin Mystère – Le nuove avventure a colori o a Dylan Dog: Mater Dolorosa. Qui la “freschezza creativa” non viene tanto dalla storia in sé, quanto dalle nuove opportunità offerte dalla modalità e dalla “tecnologia” per fruirla. Per esempio vivendo un’esperienza più immersiva, dai colori più ricercati, dal disegno più libero e contemporaneo: la trama di Mater Dolorosa espande, rielabora, rilancia e arricchisce qualcosa che già le preesisteva, ovvero un manciata di episodi di Dylan Dog (il numero 100, Mater Morbi e altri). Analogamente, Martin Mystère – Le nuove avventure a colori non “ribalta” ma piuttosto “aggiorna” il personaggio e il suo universo; Nathan Never: Anno Zero lo “rilegge”; e così via.
Ripensando a questo recente Tex, torna alla mente un film per certi versi simile nelle ambientazioni e nelle aspirazioni, come The Revenant di Alejandro González Iñárritu (USA,1 2015). L’interesse e l’originalità del film stavano nel vedere come una classica storia western, piuttosto inverosimile, potesse essere1 “rinfrescata” da una fotografia potente e iperrealistica, una regia virtuosa e una prova d’attore tutta fisica. Non tanto per proporre un nuovo grado di verosimiglianza degli avvenimenti, ma piuttosto per alzare il livello della resa tecnica in funzione narrativa. Il plot, l’immaginario western, il profilo e il comportamento dei personaggi non sono il cuore dell’operazione; la storia non è che un appoggio, un “pretesto” per concentrare l’attenzione su altri aspetti.
Se, specialmente negli Stati Uniti, serie come The Walking Dead, Saga o Paper Girls (ma ci sono casi eclatanti anche in Italia: pensiamo a Zerocalcare) puntano a tenere bassa la spettacolarità visiva, con un disegno al servizio delle idee narrative e della comunicazione, offrendo così più “creazione di immaginari” che “colpi ad effetto”, nel fumetto popolare italiano rappresentato dalla SBE pare talvolta che l’obiettivo sia l’opposto. Un fumetto storicamente concentrato più sulla produzione di immaginari, oggi “tira fuori i muscoli” per mostrare cosa è in grado di fare sul piano tecnico, formale e organizzativo, riproponendo sé stesso ma in una nuova chiave spettacolare. Il proprio valore immaginifico e di invenzione passa meno per la routine seriale, e più per momenti “speciali” destinati a ri-scrivere la propria storia non nella sostanza simbolica ma in alcuni specifici e limitati aspetti, attraverso l’esibizione della propria evoluzione tecnica.
Il Tex ventenne “alla francese”, dunque, va forse valutato in termini nuovi: è il segnale di un rovesciamento della strategia editoriale che SBE ha sempre ribadito anche coinvolgendo (persino sui Texoni) firme di primo piano come Magnus o Kubert. Il rispetto del canone texiano viene qui ufficialmente messo in secondo piano rispetto alla formula editoriale, alla componente spettacolare, a un approccio grafico che pare più uno strumento consapevole che un obiettivo in sé. È questo l’elemento innovativo, storicamente rilevante, di questa collana: il segnale di una riforma in atto che sancisce, innanzitutto, una evoluzione tecnica dell’ortodossia bonelliana. E forse la fine del “bonellismo”, all’insegna di una diversificazione – con pregi e difetti – che potrebbe portare il modello Bonelli a una nuova identità, certamente meno definita, sicuramente più plurale.