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Nello studio di Federico Manzone

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Siamo entrati nello studio di Federico Manzone, giovane illustratore e fumettista piemontese che sta per esordire col suo primo graphic novel, intitolato L’ultimo paese, per Canicola Edizioni (in anteprima a Lucca Comics).

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A che progetti stai lavorando attualmente?

In questo momento sono alle prese con l’ultima tavola de L’ultimo paese. È il mio primo libro grosso a cui sto lavorando ormai da quasi tre anni. Uscirà per Canicola Edizioni e sono tutto orgoglioso e agitato. Si tratta di una storia ambientata in un paesino del Sud Italia verso la fine degli anni ’50, o giù di lì, durante la festa del paese, che è una festa arborea, uno dei Maggi del Pollino. Il protagonista è un pittore di ex voto a cui manca un braccio. Un miracolato destinato a disegnare i miracoli altrui. Insomma, sarà un insieme di vicende che racconteranno la storia di questo strano personaggio di scarto rispetto alla vita del paese. E ci sarà un bambino, un nonno e ovviamente la festa dell’abete. E anche degli ospiti, dei cameo, come nei film. Vi dirò poi. Sto anche lavorando all’allestimento della mostra de “L’ultimo paese” al festival BilBOlBul. Se tutto va secondo i piani sarà una bella festa. Poi andrò in Tunisia, per un piccolo reportage a fumetti insieme ad un fotografo di lì. Il progetto si chiama “Shores – Stories from across the Sea” ed è realizzato dall’Associazione Africa e Mediterraneo e l’associazione Fanni Raghman Anni, di Tunisi.

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Che strumenti e tecniche usi per disegnare?

Non l’ho ancora capito. Per L’ultimo paese ho usato solo matite B, 3B, 7B, e ho grattato una grafite da sfumare con le dita. Quindi matite e dita. Però per altri progetti ho provato la china coi pennelli grossi giapponesi che non so usare, ma mi diverte molto. Con la matita divento maniaco e lo sforzo è di non risultare rigido. La china, se sei dilettante come me, ancora di più ti permette di fare un bell’esercizio di libertà, sulla gestualità, sul caso, fidandosi anche di forme e segni che non riconosci. Poi il bianco/nero netto è violento, d’impatto. Le matite, come le ho usate finora, sono più morbide, più lente da leggere. Ora vorrei provare i colori acrilici, quelli si che sono un casino. Ogni tanto uso anche il computer, ma solo per colorare e per fare pulizia delle tavole o metterci i balloon che comunque faccio a mano, anche se scrivo maluccio. Il segno della tavoletta grafica lo trovo piatto e ho il sospetto che omologhi tutto. Perde la gestualità, l’errore, la sbavatura, il tremolio della mano, che sono la vera firma di un autore. È un peccato se tutti i segni escono identici. Rimane un po’ noioso. A meno che la priorità di un autore sia farsi riconoscere dal proprio stile, che è una scelta razionale, forse troppo ed è una cosa che non mi interessa molto. Penso che il disegno debba mettersi a disposizione della storia che viene disegnata, quindi la riconoscibilità dello stile rischia di essere un limite per la sperimentazione e la narrazione. E’ una sfida difficile col proprio narcisismo, un equilibrio strano. Prima la storia, poi il disegno e dietro, l’autore. Comunque, un po’ di narcisismo non fa male.

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Hai delle abitudini da rispettare prima di metterti al lavoro?

No. Però grazie a questo libro ho dovuto imparare un po’ di costanza e di auto-disciplina. Ho scoperto che non sono cose brutte. La lavorazione di questo libro è durata così tanto che penso di averlo realizzato su almeno 10 scrivanie diverse… Traslochi, viaggi, spostamenti vari. Alla fine è stato difficile trovare delle vere abitudini. Gli ultimi mesi a Bologna li ho passati in uno studiolo nel quartiere Bolognina, il Checkpoint Charly, insieme ad altri autori e artisti. Il viaggio in bus da casa allo studiolo è stata forse l’unica abitudine che ho rispettato prima di mettermi sul foglio. Lo spostamento da un luogo dove vivere ad un luogo dove disegnare è diventato un momento di alleggerimento, catartico, quasi sacro, che divideva con precisione simbolica la vita reale e terrena dalla vita fantastica, nel senso di dedicata alla fantasia, alla creatività. Sì, penso sia stato un mio rito. Poi sacro significa separato.

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Quali sono per te gli autori e le opere di riferimento?

Ammetto di non avere quella gran cultura di fumetto. Dovrei leggerne di più e senza pregiudizi, ma alla fin fine sono pigro e leggo poco e pochi fumetti. Mattotti sicuramente è un punto di riferimento forte, che torna come una stagione. Amo Stigmate e Chimera è una roba da “leggere” a ripetizione ogni 3 giorni, dopo i pasti. Gipi l’ho divorato, Fior è un ganzo, Corona, Bacilieri, Igort, Ricci, Tota… Son tutti maestri. Ne ho dimenticati sicuramente. Poi apprezzo un sacco gli autori Canicola, che son matti e fuori misura. E’ una casa editrice che ti spinge ad andare oltre e a non fare “occhiolini”. Poi le ragazze de La Trama, Delebile, Sciame… alla fine gli italiani sono gli autori che seguo di più. Ci sono dei miei colleghi coetanei, o pure più giovani, che sono stupendi. Ma la scoperta dell’anno per me è Poema Barocco di Renato Calligaro. Non so come ho fatto a non scoprirlo prima. Grazie, BBB.

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Nello studio tieni un oggetto a cui sei particolarmente affezionato?

Dopo 3 anni che uso gli stessi strumenti, direi che in questo momento lo sfumino di carta tutto rotto è il mio miglior amico. Ma è venuto il momento di separarci. Lo metterò in una teca.

Un altro oggetto che mi ha accompagnato negli ultimi anni è stato un libro. Un libricino tradotto da Erri De Luca, il Kohelet. E’ un libro sacro del IV o III secolo a.C. Detta così può suonare strano, ma è la lettura che ha dato il LA alla storia che ho scritto per Canicola. In questi anni ogni tanto ne rileggevo una parte, ed ogni volta era una scoperta. Kohelet significa “radunante”. Propone una visione della vita estremamente poetica ed allo stesso tempo pragmatica e materiale. È stato tacciato di pessimismo, ma non è per niente così. E’ una buona lettura da darsi come appuntamento fisso, per pulirsi lo sguardo e rigenerarsi un po’. Come Chimera, dopo i pasti.

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