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Tutto quello che avreste voluto sapere su Woody Allen e i fumetti

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La beffa più grande che Woody Allen abbia mai compiuto è stato convincere il mondo che lui esiste. Ossia che il personaggio Woody Allen, nevrotico intellettuale impacciato, fosse uguale all’uomo Woody Allen. In un’intervista alla radio pubblica statunitense disse: «La gente pensa di conoscermi basandosi sui miei film. E ci sono delle cose che si imparano su di me guardando i film, ma non molte. Non sono mai stato quello che la gente pensava fossi – un intellettuale, un topo da biblioteca. Mai stato un intellettuale. Sono il tizio che sta in maglietta sul divano a guardare la partita di baseball bevendo una birra».

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Invece del pel di carota timoroso che l’universo si stia espandendo, Allen era un adolescente nella norma, socievole, bravo nel baseball (tanto da accarezzare l’idea di una carriera come battitore) e annoiato dalla scuola – abbandonerà l’università per le troppe insufficienze, recuperando da autodidatta. «Se discuti con me e azzecchi sette degli argomenti su cui mi sono documentato, ricavi l’impressione che io sia una persona colta, ma ti può succedere di toccare un tema noto e smascherare una mia vistosa lacuna. La mia grammatica, per esempio è pessima. Mi mancano assolutamente le basi di grammatica, quelle che impari a scuola». Nel libro Conversazioni su di me e tutto il resto rivela che, quando scriveva i pezzi per il New Yorker o il New York Times gli editor gli rimandavano la bozza piena di revisioni perché il suo «non è inglese corretto». Soprattutto, fino ai diciott’anni Woody Allen è stato un grande appassionato di fumetti, l’unica lettura che gli risultava sopportabile. «Guarda, io leggo i fumetti, mai letto un libro in vita mia» rispose una volta a una ragazza che gli chiese se avesse letto i romanzi di Faulkner.

Tuttavia, pletora di caricature a parte, l’intersezione degli insiemi “Woody Allen” e “fumetti” è scarsamente popolata. Alla fine degli anni Sessanta, lo sceneggiatore E. Nelson Bridwell prima lo usa come ispirazione per il personaggio Merryman degli Inferior Five, un gruppo parodia dei Fantastici Quattro, e poi lo inserisce nel numero 71 di Showcase (1967), rivista contenitore della DC Comics. Allen compare nel ruolo di se stesso mentre ingaggia i Maniaks, una band fittizia modellata sui Monkees, per il suo musical sulla Guerra Civile, Confederate Yankees.

Passano qualche lustro e alcuni film memorabili: Allen diventa tutt’uno con l’immagine di New York e sarebbe moneta spendibile per un qualsiasi riferimento pop nei fumetti ambientati nella Grande Mela. D’altronde, David Letterman, il cast del Saturday Night Live e altre personalità molto più locali sono comparse plurime volte nei fumetti. Invece, la sua unica apparizione si limita a Sogni ad occhi aperti, su Amazing Spider-Man #246 (1983), in cui l’Osservatore ci mostra i sogni segreti di Peter Parker, la Gatta Nera, J. Jonah Jameson e Mary Jane Watson. Nelle fantasticherie di quest’ultima, Allen la chiama per recitare insieme a un cappelluto Warren Beatty (ma da come lo disegna John Romita Jr. potrebbe essere pure John Travolta).

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Woody Allen in “Amazing Spider-Man #246”

Le sue apparizioni si faranno più frequenti negli anni Novanta, quando viene travolto dallo scandalo della relazione con Soon-Yi, la figlia adottiva della compagnia Mia Farrow, e dalle seguenti accuse di molestie ai danni della figlia Dylan. La notizia è succosa tanto per le testate di gossip quanto per fumetti satirici come MAD, Weird, Whacked! The Adventures of Tonya Harding and Her Pals, The Big Book of Scandal e He Said/She Said.

L’ultima comparsa in ordine di tempo risale ai primi anni Duemila in Cerebus, la magnum opus di Dave Sim. Sempre più attanagliata dalla religione, in uno degli ultimi archi narrativi della serie, The Latter Days, Woody Allen – qui chiamato col suo vero cognome, Konigsberg – commenta con Cerebus la Torah. Sim lo inserisce come spalla per tentare una mediazione tra astrusi discorsi religioni e leggibilità del testo. «Era più di una convenienza strutturale» scrive Sim nelle note all’edizione in volume. «In molti modi, stavo echeggiando quello che molti consideravano una mossa suicida per la sua carriera. Un tizio che aveva avuto successo con le commedie strampalate di colpo si mette a fare drammi seriosi e decide di voler diventare un auteur. Dio sapeva anche questo?». Con Allen, Sim condivide la scelta di rendere i proprio lavori sempre meno comici col passare degli anni.

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Allen in “Cerebus”

Ecco quindi che i due argomenti – la peregrina carrellata sulle apparizioni di Allen nei fumetti e il contrasto realtà/percezione – si saldano con Inside Woody Allen, la striscia che raccontava la quotidianità del personaggio “Woody Allen” a cavallo degli anni Settanta e Ottanta.

Fu Stuart Hample a partorire l’idea. Nel 1975 Hample aveva abbandonato il lavoro come assistente di Al Capp, perché questi si era rivelato un tiranno dispotico, e aveva creato la striscia Rich and Famous che però non lo aveva reso né ricco né famoso. Era il suo lavoro come pubblicitario per una marca di sigarette a mantenere lui e la famiglia. «Creavo la striscia di notte» racconta Hample nell’introduzione al libro La vita secondo Woody Allen. «Se fossi stato costretto a continuare quello stupido lavoro ancora per molto tempo, avrei avuto un collasso nervoso e fatto una strage. Che fare? Il mio sogno: trovare un modo alternativo per sbarcare il lunario e dire addio per sempre al mondo della pubblicità. Mi venne in mente che il personaggio di Woody – uno che si sentiva solo nell’universo, era un disastro con le donne (di queste cose ero un esperto anch’io) e che farciva questi soggetti con le battute più divertenti dai tempi di Oscar Wilde – sarebbe potuto diventare un fumetto fantastico».

A pensarla adesso, pare un’idea scontata ai fini dell’autopromozione e della creazione di un brand. Fino ad allora l’unica altra celebrità a essere stata protagonista di una striscia a fumetti era stata Charlie Chaplin, che aveva concesso in licenza la propria immagine a quattro strip, la più famosa delle quali resta Charlie Chaplin’s Comic Capers, uscita nel 1915 sul Chicago Herald, per mano di Elzie Segar, il papà di Braccio di Ferro.

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Stuart Hample e Woody Allen alla fine degli anni Settanta

Hample propose l’idea direttamente ad Allen e al suo agente Jack Rollins, manager dei più importanti comici statunitensi, conosciuti quando Woody ancora si esibiva nei locali newyorchesi. Il comico si era poi dato al teatro e al cinema, scrivendo, dirigendo e interpretando commedie di successo.

Quando Hample gli presentò la striscia, Allen aveva appena terminato Amore e guerra, un film che mischiava umorismo filosofico con gag à la Bob Hope, ed era sulla soglia di un cambiamento cruciale nella sua filmografia. Di fronte alla proposta di Hample, acconsentì. Così, senza troppe sofisticazioni e probabilmente consigliato da Rollins, che adocchiava nella striscia un’opportunità di promozione ad ampio spettro. Non ebbe nulla da obiettare sui disegni, ma tentennò sulle battute preparatorie di Hample. «Forse» buttò lì, «potrei aiutarti». Il suo aiuto si concretizzò in due quaderni e una scatola con dentro mille cartellini pieni di battute che aveva compilato durante i suoi anni di show nei locali. Alcune erano poco più che spunti, come «Io legato alla stella di Davide – crocifissione scomoda», «Film underground: riprese della guerra in Vietnam. Proiettandole in senso inverso, per un’ora e mezzo sembra che stiamo vincendo». Diede il suo consenso ad adattare il contenuto dei quaderni per le strisce e razziare materiale proveniente dai suoi libri, film, testi teatrali e spettacoli di cabaret.

Con il beneplacito di Allen iniziò la parte difficile: confezionare un bel pacchetto da presentare a un’agenzia che distribuisse la striscia sui giornali. Usando i frammenti del comico come trampolino, Hample cominciò a produrre le strisce. Per qualche settimana andò ogni sabato all’attico di Allen sulla Fifth Avenue. Egli giudicava il materiale, offriva consiglio su come sviluppare i personaggi e le battute e si assicurava che Hample mantenesse «uno standard alto, raccomandando sempre di non accontentarmi di altro che materiale di prima qualità».

Nella striscia, Woody era lo stesso dei suoi primi film, quella stessa figura che tutti credevano corrispondere alla realtà dei fatti: pieno di difetti, pauroso, insicuro, inadeguato, angosciato, pessimista, urbano, eccitato e rifiutato dalle donne. Colloquiava con la Morte, come in Amore e guerra e le sue ragazze vestivano come la Diane Keaton di Io e Annie. Inoltre, nei fumetti era in continuo contrasto coi suoi genitori, aveva un’agente, dei nipotini, una psicanalista passivo-aggressiva e affidava i suoi pensieri a un diario privato.

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Inserzione pubblicitaria del ‘Daily Mirror’

Con sei settimane di materiale sottobraccio – il campione minimo richiesto da qualunque agenzia per poter saggiare la bontà e verificare la costanza – Hample si propose alla King Features Syndicate, ricevendo risposta affermativa. Preceduta da una profusa campagna pubblicitaria, Inside Woody Allen debuttò il 4 ottobre 1976 su 460 testate. Per fare un confronto, Calvin and Hobbes arriverà ad appena 250 quotidiani nei suoi primi dodici mesi. L’esordio della striscia ebbe eco anche fuori dagli Stati Uniti, arrivando sulle pagine del più importante quotidiano brasiliano, il Folha de S. Paulo. Quando Hample lo annunciò ad Allen questi rispose: «Perché sono popolare solo in economie da piantagione?». In Italia, Linus lo pubblicò per un breve periodo tra il gennaio e il giugno 1977, per poi fare ritorno negli anni Novanta su Comix e nel 2010 con la raccolta La vita secondo Woody Allen.

Allen e Hample non erano i soli a scrivere la striscia. Per aiutarlo con la stesura delle battute il fumettista impiegò alcuni assistenti non accreditati, tra cui i figli Joe ed Henry, l’allora pubblicista di Allen Richard O’Brien (omonimo dell’attore di The Rocky Horror Picture Show) e un ventiseienne studente di filosofia. Lo studente rispondeva al nome di David Weinberger, futuro co-autore del Cluetrain Manifesto, dei testi Arcipelago web e La stanza intelligente e ricercatore alla Harvard Law School.

«All’epoca studiavo filosofia a Toronto e mi mantenevo come giardiniere nei mesi estivi» spiega Weinberger a Fumettologica. «La verità è che ero un grande fan di Woody Allen ma mi stancai presto del suo uso dei soliti tre o quattro formati per le sue battute nei pezzi che scriveva. Così scrissi un articolo parodia chiamato “50 battute di Woody Allen” fatto di battute che avevo scritto seguendo quei modelli. Lo spedii a varie testate e all’ultima che me lo rifiutò, il New York Times Magazine, dissero che era divertente ma che era fuori target per i proprio lettori. L’editor mi suggerì di mandarlo ai manager di Woody Allen. E così feci».

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Poco dopo ricevette la chiamata di Jack Rollins, il patrono di Allen. «Il mio tempismo fu eccellente. Io non lo sapevo, ma si stavano preparando a lanciare la striscia ed erano in cerca di collaboratori. Andai a New York, ricevetti i complimenti di Rollins e mi introdussero a Stuart». Hample finirà con l’utilizzare quasi tutte le cinquanta battute del pezzo-parodia di Weinberger e questi resterà sulla striscia fino alla sua conclusione, scrivendo circa il 40% del materiale pubblicato. «Sette battute ogni sera, per sette anni. Alla fine di ogni settimana sceglievo quelle che pensavo avessero una possibilità di venire approvate da Allen». I 25 dollari che riceveva per ogni battuta pubblicata fecero comodo a Weinberger mentre studiava ma anche quando diventò professore. «Mi offrirono altri ingaggi come autore comico ma preferii continuare la mia carriera accademica. Non è così scontato che abbia fatto la scelta giusta».

Ma l’autore unico di Inside Woody Allen resterà sempre Hample. Tranne per il primo anno, quando le strisce erano firmate da un tale Joe Marthen, nome di penna dietro cui si nascondeva lo stesso Hample. Questo perché Rich and Famous, l’altra striscia creata da Hample, era gestita dalla Field Enterprises, agenzia con cui l’autore aveva un contratto in esclusiva. Fino all’espirazione del contratto avrebbero quindi potuto impedirgli di disegnare, costringendolo a fare uso del nome Joe Marthen – una crasi dei nomi dei tre figli, Joe, Martha ed Henry.

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Una delle strisce firmate da Joe Marthen

Nonostante un iniziale riscontro positivo, la striscia era in perenne mutamento, e Hample si incontrava spesso con Allen, editor de facto, per discutere dei contenuti. «Se davvero vuoi coinvolgere i lettori ha bisogno di più stanza, più trama» consiglia Woody. Il problema ora è che Hample stava seguendo pedissequamente il modello, senza staccarsi una spanna da terra e proponendo l’Allen dei vecchi film, mentre il Nostro si era spostato in avanti, complice la realizzazione di Io e Annie, una pellicola che si differenziava per invenzioni stilistiche e il desiderio di mettere la storia, non le gag, in primo piano. Senza volerlo, nei suoi suggerimenti al fumettista incapsulava quello che è il senso ultimo di Io e Annie: «Le battute sono come le decorazioni su un albero di Natale ma devi partire da un buon albero. Il mio personaggio adesso esiste troppo in funzione della battutina finale. Invece, idee come Schmoo, di Al Capp, o anche la relazione tra Li’l Abner e Daisy Mae, sono cose che coinvolgono. Bisognare creare un modo e popolarlo di personaggi reali e originali. Magari un singolo tema per cinque giorno tipo Pogo e la campagna presidenziale».

Allen lo inonda di suggerimenti, gli dice di essere più specifico, di parlare della sua vita così come viene percepita pubblicamente, di non renderlo masochista, «non lo sono nella vita reale. Tentare e fallire fa ridere. Il masochismo no», di usare riferimenti astrusi – «sono più da me. Mai sottovalutare il pubblico, nonostante Nixon». A volte sarebbe stato rinfrescante perfino non vedere Woody nella scena, dando spazio al cast di contorno, come la fidanzata crudele che esclama: «Eccomi qua alle tre del pomeriggio e non ho ancora ferito nessuno». Queste mosse avrebbero portato alla creazione di un linguaggio personale, di voci dei personaggi diversi e battute non commerciali, che avrebbero fatto «la differenza tra una reazione come “devi leggere questa striscia, ne vale la pena” e una come “è carina, ma è una striscia come tante”».

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Ma all’altro orecchio di Hample c’è la King Features, pronta a sussurrargli le peggiori laidezze, dopo che alcuni giornali avevano abbandonato Inside Woody Allen. Doveva andarci piano con i riferimenti a Dio, per non offendere i lettori del Midwest, e possibilmente cambiare il nome del personaggio Morte in Fato. Una cosa a cui Allen era contrario. «Devi correre dei rischi, sarà più vivo se usi Morte. E comunque, non vuoi che sia solo un altro fumetto di successo, giusto?» chiese durante una sessione di scrittura che venne registrata su nastro. «Cercare di mantenere i giornali che non vogliono la striscia così com’è ci frenerebbe; la mia tendenza sarebbe quella di utilizzare i nostri punti forti – intelligenza ed eccentricità. Sapremo di avere un seguito magari piccolo, ma molto valido. Ma dobbiamo tentare. D’altro canto, cosa potrebbe succederci? Chiuderanno la striscia, e allora?»

Allora, avrebbe voluto dirgli Hample, se chiudono Inside Woody Allen sparirà la mia principale fonte di sostentamento e l’unica che mi impedisca di tornare al lavoro di pubblicitario. Non potendo dare retta unicamente al suo integralismo come faceva Allen, Hample era in posizione subordinata e dovette tentare di mediare tra le due istanze. Da una parte la pretesa di qualità del comico, dall’altra i diktat della King Features, che continuava a chiedergli modifiche per aumentare le vendite. Tempo dopo, i due non si troveranno d’accordo nemmeno su chi dovesse scrive l’introduzione alla raccolta delle strisce. Fu il figlio di Hample, Henry, all’epoca «giovane idealista un po’ hippie», come si definisce lui, a suggerire il nome di Buckminster Fuller, che consegnerà un lungo fumetto astratto su Woody Allen.

Allen pensava a Inside Woody Allen come si pensa a Pogo, «l’unica striscia veramente grande. Non ha mai avuto paura di essere diversa, non-commerciale, anche perché alla fine è così che si arriva tra le più commerciali». Ed Hample subì la pressione di rimanere fedele alla visione. Il regista glielo conferma in un loro incontro: «Noto che spesso il contenuto della striscia cade sotto al mio livello tipico di humor. E lo so perché il distributore non si lamenta del contenuto. Se i giornali non posso pubblicare queste strisce, allora non hanno capito il mio umorismo».

D’altro canto, a discapito delle speranze di Hample e Allen, l’obiettivo di Inside Woody Allen non è mai stato quello di diventare una bella striscia a fumetti. Jack Rollins voleva allargare il pubblico del suo cliente oltre le aree metropolitane della east coast e si era convinto che disseminare l’immagine di Allen nei giornali avrebbe aiutato a sbigliettare. Non gli importava di altro, a ragion veduta dato che, quando l’attrice esordiente Mary Beth Hurt telefonò a sua madre nell’Iowa per dirle che stava lavorando a un film con Allen, Interiors, quella la spiazzò rispondendo: «Lo conosco. È nelle pagine umoristiche».

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Per la ragione inversa Rollins bloccò l’offerta della CBS di realizzare un cartone in prima serata con Woody protagonista, anni prima de I Simpson. Sapendo che uno show settimanale di Woody in tv avrebbe dovuto usare la sua voce e personalità in un medium che è cugino di primo grado del cinema, Rollins decise di minimizzare piuttosto che massimizzare l’immagine di Woody, per non sprecare il suo potere al botteghino».

In compenso, una versione animata dei fumetti di Hample finì in Io e Annie. E qualcuno notò come il fumetto uscisse sconfitto dal confronto con il cartone – pure rudimentale. Hample infatti si perdeva per strada tutta la prossemica del comico, i suoi disegni mancavano di recitazione, erano statici e inespressivi. Woody Allen funzionava bene quando era davanti a un microfono o dietro una macchina da scrivere, quando cioè la sua immagine risaltava o veniva annullata. Ma in un fumetto, in questo strano ibrido che forse era sbagliato dal principio per le qualità di Allen, qualcosa si era inceppato.

Inside Woody Allen andò avanti fino al 1984. Avevano perso troppi giornali – alcuni smisero di pubblicare la striscia perché parlava troppo del dolore – e in fin dei conti il cuore del regista era da un’altra parte. In quegli anni erano usciti film distantissimi dalla sua zona di sicurezza come Interiors e Stardust Memories, un dramma bergmaniano il primo, un esercizio stilistico ispirato a 8 e ½ di Fellini il secondo, fatti anche per smarcarsi dal territorio (e dal personaggio) comico in cui l’avevano confinato pubblico e critica.

«Se non altro la striscia contribuì a cementare la sua immagine in America. In un’era precedente alle videocassette la possibilità di rivedere i lavori di Allen era limitata» asserisce William Miller, fondatore di Woody Allen Pages. In questo senso Inside Woody Allen è un esperimento destinato a non ripetersi perché ci sono modi diversi, ora, di veicolare la propria immagine. «Non è che in giro c’è una striscia su Martin Scorsese o che qualcuno si sia messo a fare una striscia su Amy Schumer» dice Miller. «I film di Allen spesso parlano di come l’arte, i film e il meravigliarsi possa distrarci dalla durezza della vita. Che questa strana striscia sia esistita è in sé una piccola meraviglia».

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