HomeRecensioniNovità"Horses", la my generation di Nicolò Pellizzon

“Horses”, la my generation di Nicolò Pellizzon

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Nel 1975 usciva Horses, primo disco del Patti Smith Group. La produzione era affidata all’ex-Velvet Underground John Cale, mentre la copertina era dell’amato Robert Mapplethorpe. Per l’occasione Patricia Lee si procurò una camicia bianca: lo aveva promesso allo stesso Robert. Ne comprò una pila dall’Esercito della Salvezza in Bowery Street. Tra queste ne scelse una impreziosita da un monogramma; le ricordava quella indossata da Jean Genet in una foto di Brassaï.

La mattina dello scatto Patricia si era svegliata come sempre un po’ in ritardo, dopo una frettolosa colazione a base di pane con alici scottate e menta, e si era preparata per l’occasione: pantalone e giacca nera, ballerine, una spilla a forma di cavallo e un cravattino nero. Dopo un po’ di prove, nel pomeriggio Robert aveva il suo scatto. Uno scatto di metafisica androginia, pronto a divenire icona.

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Questo è quanto riportato da Patti Smith in Just Kidsmemoir e sentito omaggio a Mapplethorpe. L’aneddoto è rivestito di quella patina di sensazionalismo e pacatezza proprio della prosa della cantautrice, sospesa tra un senso di incredulità e di malcelata vanagloria. Basterebbe leggere qualche pagina dell’eccellente Please Kill Me di McNeil e McCain per ridimensionare il personaggio ‘costruito’ da Patricia Lee.

Nicolò Pellizzon – che ricordiamo per Lezioni di Anatomia a Gli Amari Consigli (rispettivamente per Grzzzetic e per Bao Publishing) – torna per Canicola Edizioni con un omaggio indiretto all’opera della Smith e di Mapplethorpe. Nella recente intervista al nostro Valerio Stivè, l’autore rivela le contingenze che hanno portato alla genesi del fumetto. Nel 2014, in quel di Bologna, si sarebbe tenuto un concerto per celebrare l’anniversario dell’album della Smith. Pellizzon, contattato da Canicola, avrebbe dovuto curare l’albo in previsione di una partecipazione della stessa cantautrice.

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Tuttavia, Horses è un’opera che vive di vita propria. La Smith e la sua mitologia sono solo lo spunto iniziale. Pellizzon narra infatti una storia personale, esplorando dinamiche già toccate in passato. Lo fa utilizzando un’immaginario tuttavia popolato da stereotipi e personaggi che, a causa della brevità dell’opera, appaiono ricalcare facili cliché. In questo, l’autore – nonostante un invidiabile talento grafico, e una indubbia eleganza nella gestione della tavola – mette sulla pagina uno stile fumettistico che, almeno in questo progetto, finisce per offrire un racconto estetizzante. 

Quella di Pellizzon è una poetica che, pure puntando alla fascinazione delle atmosfere e delle caratterizzazioni decorative, in questo libro sembra ingripparsi fra realismo magico e mash up di facili cliché. La suggestione è sempre il cuore del suo approccio, ma finisce spesso con l’avvitarsi su se stessa, senza condurre ad una narrazione di più ampio respiro, in grado di evadere la maniera e la vicenda narrativa oleografica. Pellizzon predilige la vignetta para-sociologica, il racconto estemporaneo basato sulla quotidianità e sulla normalità, e a questi inocula saggiamente elementi di disturbo, ma che non traghettano il lettore al di là della cronaca: anche le allusioni simboliche volano, in realtà, non molto in alto. Se nelle opere precedenti l’apparato iconografico e simbolico aveva un ruolo – narrativo – fondamentale, qua la fuga nell’immaginario simbolico sembra quasi forzato.

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Patricia e Johnny si incontrano nelle strade di un’anonima New York mentre scappano entrambi da qualcosa: la prima da fantomatici assistenti sociali, che sembrano usciti fuori dal peggiore degli incubi, e il secondo da un debito contratto con alcuni loschi figuri. Il resto della vicenda è un susseguirsi di rocambolesche fughe e dialoghi forzati. La trama è davvero esile, e pertanto Pellizzon usa al meglio i suoi talenti per imbandire una tavola altrimenti parca. Con scaltrezza lavora sulla affettata androginia dei personaggi; sceglie una palette cromatica d’impatto – pink is the new black – che sazia l’occhio; inserisce elementi di esoterismo e occulto. Tutti questi ingredienti lo aiutano ad uscire dall’impasse e a costruire pagine di indubbio fascino, dove il magico e il destinale, sebbene ininfluenti e volitivi, assumono un peso specifico. Eppure il perturbante resta un semplice inganno, un trompe-l’œil emotivo.

Ma non è solo nel disegno che risiedono la forza e, diciamolo, l’intelligenza dell’opera di Pellizzon. Il contributo più stimolante arriva, infatti, dall’intuizione di fare di Horses un simbolo del carattere individuale, della peculiare maniera in cui tessiamo la quotidianità con l’ordito del destino assecondando così la necessità al nostro esserci. E proprio nel finale l’autore cerca di trasvalutare i luoghi comuni che ha dispiegato, lasciando intendere la finalità del suo lavoro.

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Horses è, quindi, un’opera di passaggio per Pellizzon. C’è il respiro allegorico, c’è il talento visivo, ci sono le associazioni di simboli e ‘climi grafici’ che lo hanno reso un fumettista nei confronti del quale le aspettative erano e restano piuttosto elevate. Tuttavia la sequela di cliché, e la fatica di superare la svagatezza narrativa che ne risulta, rende Horses poco utile a farci capire se la sua arte ha intenzione di muoversi verso altri lidi e di spiccare, finalmente, il salto che potrebbe renderlo un autore rilevante.

Horses
di Nicolò Pellizzon
Canicola Edizioni, 2016
80 pagine, 16,00 €

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