Strano personaggio Kaare Andrews. Il suo nome salta letteralmente fuori dal nulla nel 2006. Gli bastano qualche piccola apparizione tra Marvel Mangaverse e Ultimate X-Men per farsi dare il pieno controllo su di una miniserie di Spider-Man. Un lusso concesso a pochissimi e che il Nostro pensa bene di sfruttare fino in fondo fondo. Per prima cosa sposta gli orologi dell’universo Marvel avanti di 35 anni e ambienta il tutto in una New York da regime dittatoriale. La Grande Mela viene dipinta come uno stato di polizia dove ordine e sicurezza vengono mantenuti a ogni costo.
In Spider-Man: Reign si cerca di parlare del presente, del post-11 settembre e della tolleranza zero di Giuliani, ma l’impegno dell’autore non ha la forza necessaria per risultare anche solo minimamente incisivo. L’ispirazione più evidente – seppur traslata di un paio di decenni, con tutte le variazioni paranoiche del caso – è palesemente quella de Il Ritorno del Cavaliere Oscuro. Come nel lavoro di Miller, anche in questo caso l’eroe fuori età massima decide di tornare a vestire il suo costume: un Peter Parker ormai sessantenne si misura con il tempo che passa.
Nonostante non si trattasse di nulla di epocale, Reign rimane tutt’oggi un’ottima storia, capace soprattutto di convincere un’ampia platea del talento grafico del giovane canadese. Quello che colpisce di più del lavoro dell’autore è infatti la sua tecnica come disegnatore. Fluida e indefinibile, capace di spaziare nel arco di un pugno di vignette dall’iper-realismo alla stilizzazione più estetizzante. Non per nulla Warren Ellis lo vuole con sé sulle pagine di Astonishing X-Men, dove ci regala una rilettura del look dei mutanti che avrebbe meritato più spazio.
L’immagine promozionale utilizzata per promuovere la serie, che raffigura i mutanti completamente in nero, Tempesta con il mohawk dell’epoca Claremont e una Emma Frost al limite del caricaturale, è fantastica. Una delle testate di punta della Marvel si metteva a giocare con l’underground, concedendosi toni grotteschi e un’indole aggressiva quasi punk. Peccato che all’interno degli albi si finì per accontentarsi di soluzioni più tradizionali.
A questo punto Andrews, ormai un nome piuttosto affermato nel mondo del fumetto, incomincia a flirtare con il cinema. Dirige prima lo straight-to-video Altitude, un bizzarro horror ad alta quota presentato al Torino Film Festival, poi un episodio dell’antologico The ABCs of Death.
La sua carriera procede poi con Patient Zero, terzo capitolo della saga di Cabin Fever: una poverata terrificante ambientata in Repubblica Dominicana – su Rottentomatoes ha un punteggio del 24%. Siamo più dalle parti di un certo periodo tropicale della serie z italiana (parlo dei vari Bruno Mattei e Claudio Fragasso) che del primo capitolo della serie originale. Ennesima conferma di come le doti da regista di Andrews non siano ancora mature se non, forse, per qualche rip-off di casa Asylum.
Nel frattempo l’autore non si deprime e, dopo aver curato cover e artwork musicali per chiunque glielo chieda, torna al fumetto. Prende in mano la gestione del rilancio di Iron Fist e decide di fare tutto da solo: scrive, disegna, inchiostra, colora. Risulta l’unico in tutta la Marvel attuale a riuscire in un’impresa simile. Il risultato è notevole. Sovraccarica il personaggio quanto meriterebbe, non lesina su nessun aspetto: dall’uso spropositato di Photoshop, alle chine pastosissime, fino alla sceneggiatura schizofrenica e alle copertine iconiche a ogni costo.
Se il resto delle serie autoriali Marvel puntano sulla classe, qui si gioca tutto sull’accumulo e sulla foga priva di freni inibitori. Alla faccia dei premi e del riconoscimento della critica più noiosa. Andrews potrà anche non piacere, ma l’energia che riversa in ogni progetto è palese e impossibile da non apprezzare. Di Living Weapon infatti ne parlano un po’ tutti e le recensioni positive cominciano finalmente a fioccare unanimi.
Siccome pare che nel mercato statunitense non esista certificazione migliore del proprio status di autore affermato se non una serie creator-owned per la Image, arriviamo quindi a Renato Jones: The One %. In una delle scene più importanti de Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno di Cristopher Nolan assistevamo a uno scontro tra Batman e gli scagnozzi di Bane nel distretto dell’alta finanza di Gotham City. L’obbiettivo dei terroristi era quello di mettere alla gogna tutta la classe dirigente della città, in una sorta di moderna reinterpretazione della Rivoluzione Francese. Manco a dirlo, Bruce Wayne, da buon reazionario quale è sempre stato, ce la metteva tutta per menarli a sangue e riportare l’ordine prestabilito. Questa cosa deve aver colpito parecchio Andrews, tanto che sviluppa il suo primo fumetto originale attorno alla versione speculare di quegli eventi.
Il suo giustiziere mascherato è un ricchissimo ereditiere, i cui parenti sono stati uccisi dalla sua stessa famiglia in un vortice di cattiveria e grosse somme da ereditare. Altro che Thomas Wayne il geniale chirurgo e la sua dinastia di filantropi. Nella sua doppia vita segreta veste una maschera e un completo elegante – guadagnandosi il titolo di uno dei personaggi graficamente più riusciti del mercato recente – e si tiene occupato puntando all’eliminazione fisica di quel 1 % della popolazione mondiale detentore della gran parte delle risorse economiche.
Senza bisogno di dirlo i ricchi vengono dipinti come mostri abituati a vivere al di sopra di ogni legge, in preda ai loro istinti più bassi e senza alcuna forma di considerazione per chiunque non abbia un conto bancario molto più che cospicuo (“Non sono neppure umani” ci apostrofa uno dei personaggi nel primo numero). Il tutto in un tripudio di citazioni Milleriane, corpi scolpiti da palestre e centri estetici, ultraviolenza e messaggi politici – “Make America hate again!” – così didascalici da far impallidire l’Oliver Stone dei tempi d’oro. Immaginate un supereroe camp scritto da Bret Easton Ellis e non sarete troppo lontani dalle pagine di Renato Jones.
I primi quattro numeri di questa nuova serie Image appaiono così espliciti e liberi da ogni vincolo di autocontrollo che è davvero difficile non divertirsi leggendoli. Siamo sospesi tra l’imbarazzo che si prova riprendendo contatto, a vent’anni dall’ultima volta, con l’antagonismo d’accatto dei Rage Against the Machine e quello liberatorio di Desperate Living di John Waters. L’idea alla base della serie appare come un’idiozia ingiustificabile tanto quanto la sua realizzazione risulta impeccabile nel suo infantilismo. Basti sapere che lo scagnozzo al soldo della lobby dei super-ricchi è un tizio vestito di nero, con tanto di mantello e sfrenata passione per i cornicioni nelle notti temporalesche, incapace di esprimersi se non attraverso one-liner perentorie. Potrebbe perfino sembrare un super-eroe, peccato per la propensione a risolvere le questioni con l’utilizzo di una motosega.
Si alternano parti molto verbose a splash-page del tutto gratuite, mentre i volti e anatomie si fanno sempre più grotteschi: dal punto di vista narrativo una simile andatura è perfetta e sposa appieno lo spirito fuori controllo della sceneggiatura. Ogni tavola trabocca invenzioni visive. Andrews si diverte un mondo, non fa neppure finta di moderarsi, ed è impossibile non accorgersene. Tutto è troppo, perfino le diciture di copertina dove si indica la serie come “Created, written, drawn, colored and owned by Kaare Kyle Andrews”. Si finisce presto per non riuscire a capire se si tratti di un buon fumetto o dello sfogo adolescenziale di un autore con troppa energia da spendere. Nel dubbio tanto vale leggerselo e divertirsi.