Sembra che Garth Ennis sia ormai ossessionato dagli scenari post-apocalittici. Ma Rover Red Charlie – titolo Avatar Press tradotto in Italia da Panini Comics – si concentra sulla fine dei tempi da un punto di vista eccentrico: quello di tre cani. Tre animali domestici immersi in un’inspiegabile catastrofe, nel tentativo di orientarsi in un mondo nel quale la loro ragion d’essere sociale è ormai andata in frantumi.
Ennis – grazie al segno pulito e realista di Michael DiPascale – cerca di dare “voce” all’apocalisse attraverso un idioma canino, che ristruttura le relazioni di senso. Ecco allora che, pur conservando un’intelligibilità attraverso la prospettiva canina, la voce umana si disintegra e si fa poco più che balbettio e brusio, urla animalesche che si confondono con il rumore bianco.
Tutto esplode – o forse sarebbe meglio dire implode – nella sequenza iniziale: una fine del mondo con cui il migliore amico dell’uomo si trova a fare i conti. Charlie abbaia e si presenta: un cane guida dalla pettorina, il cui compito è aiutare gli uomini e che non comprende tutto quello che gli sta succedendo intorno. L’aggravio di dolore, male e sofferenza inutile che lo circonda esula dalla logica con cui è stato svezzato e addomesticato. La quotidianità fatta di gesti reiterati, ordini e situazioni è stata lacerata da un evento che ha ridimensionato il mondo, gettandolo in un caos che sollecita Charlie e i suoi due affezionati amici Rover e Red ad approntare nuovi strumenti e nuovi percorsi collaborativi.
Nella descrizione di un’estinzione parziale, che ridimensiona totalmente la portata ultimativa dell’apocalittica, Ennis sceglie un focus diverso, che diviene forza e limite dell’opera. Nell’introduzione – quasi un panegirico – Alan Moore scrive:
Il cuore del libro… è nell’abile rappresentazione e nella strenua immaginazione degli eroi, dei cattivi e del cast di supporto di non umani. Dai polli ai chihuahua, dai soffiosi a una incarnazione inquietantemente seducente di Lassie, la caratterizzazione è impeccabile: tutto, nel trattamento delle abilità intellettive o emotive è indubbiamente e immediatamente credibile. Parte di questa credibilità sembrerebbe derivare dall’abile modo in cui Ennis gestisce la relativa capacità di linguaggio del suo bestiario post-apocalittico.
Moore tesse le lodi dell’opera di Ennis – pur consapevole dei limiti insiti in un’operazione del genere – vedendone un esempio solitario in cui gli animali parlano un proprio idioma al di là di qualsiasi attribuzione umana.
Infatti, la letteratura non ha mai trattato gli animali nella loro specifica alterità, attribuendogli sempre motivi, ragioni e soprattutto parole umane troppo umane. È il caso di un romanzo come Io sono un gatto di Natsume Sōseki, dove il protagonista, un gatto randagio introdotto sin da cucciolo in una casa dove si respira arte e cultura, discute senza soluzione di continuità di arte, storia e medicina. La voce specifica è sopraffatta dalle intenzioni dell’autore, mascherato dietro lo sguardo disinteressato di un animale quasi domestico. Ennis è più attento a rendere le specifiche differenze di specie: i gatti hanno un linguaggio più ricco di quello dei cani. Lo sceneggiatore ricalca, però, un antagonismo (proto)-storico e forzatamente umano. Un po’ come il Burroughs di Il gatto in noi, che mette in bocca ai cani parole colme di acredine:
I cani nascono come sentinelle. In quanto cacciatori e guardie, la loro principale funzione nelle fattorie e nei villaggi è tutt’ora quella di dare l’allarme quando di avvicina qualcuno; per questo odiano i gatti. «Considera tutti i servizi che noi rendiamo, i gatti invece tutto quello che fanno è ciondolare e far le fusa. Cacciatori di topi, quelli? Gli ci vuole mezz’ora…per ammazzare un topo. Non sanno far altro che le fusa e distogliere le attenzione del Padrone dalla mia onesta faccia di mangiamerda. Ma la cosa peggiore è che non hanno il senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato».
Burroughs pone un discrimine interessante tra gatti e cani: la consapevolezza di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. In questo punto adamitico vi è l’incontro tra l’uomo e il cane e il vero cuore del lavoro di Ennis. Perché se i gatti non si preoccupano cinicamente e razionalmente dell’estinzione degli uomini, ma ne godono e ne attendono la fine, sfingei nel conservare la loro millenaria posizione nel mondo, i cani, invece, continuano a cercare di mettere a posto le cose, a capire, a rimandare e a non capacitarsi della verità: cercando di fare la cosa giusta, la cosa per cui sono stati allevati e addomesticati.
Più che un racconto post-apocalittico, allora Rover Red Charlie si rivela per quello che è: un road-trip-comic che parla di redenzione e liberazione, di apertura dell’animalità alla sua verità e alla sua specifica alterità al di là dell’orizzonte umano in cui da sempre l’animale si da come qualcosa di relativo alla nostra “cura” e al nostro sguardo.
Ennis ci prova. Si scontra con i limiti del linguaggio, non osa zittire la voce narrante a volte ipertrofica per un cane, non zittisce neanche la sua volontà di essere truculento e offensivo, non cede al silenzio così come al finale buonista. La questione morale è più forte di quella etnologica: alla fine resta una piacevole favola contemporanea e un tassello economico nella comprensione di quello che può essere l’animale al di là dell’uomo.
Rover Red Charlie
di Garth Ennis e Michael DiPasquale
Panini Comics, 2016
160 pagine a colori, € 15