La leggenda fondativa narra che la cosiddetta “banda dei sardi”, cioè i tre sceneggiatori Michele Medda, Antonio Serra e Bepi Vigna (che non ho mai incontrato, salvo incrociare uno dei tre nelle stanze di Radio Popolare a Milano) stessero lavorando da anni ad un fumetto di fantascienza. Dato che dal 1985 collaboravano con la Bonelli (Martin Mystère e Dylan Dog) proposero il loro progetto proprio a quella casa editrice e, dopo il disco verde del novembre 1989, sbarcarono in edicola con Nathan Never nel giugno 1991. Venticinque anni e un mese fa, più o meno.
Nathan Never, che si doveva chiamare Nathan Nemo, nasceva con l’ispirazione grafica e di atmosfera dal Rick Deckard di Blade Runner, figlio visivamente più di Ridley Scott che non di Philip K. Dick. Ed era accompagnato dalla signorina Legs Weaver, anche lei figlia di ispirazione cinematografica derivante dalla Sigourney Weaver di Alien, tanto per cambiare sempre di Ridley Scott.
Ho precisato prima di non aver conosciuto i tre sceneggiatori né alcun dirigente Bonelli né altri soggetti coinvolti nella produzione degli albi. Quindi niente storia orale o aneddotica personale. Non ho neanche un approccio storico per raccontare con interviste e carte alla mano il Nathan Never “documentabile”. Invece mi permetto un approccio squisitamente da lettore, dato che l’ho comprato a partire dal primo numero, pensando di aver trovato una serie a fumetti da portare avanti in parallelo alla mia amata serie di romanzi di fantascienza “Urania” pubblicata da Mondadori (non è stato così, ma come vedremo non è grave), e che negli anni non l’ho mai perso di vista anche se non l’ho frequentato mensilmente.
Accingendomi a scrivere questa rievocazione-introduzione dell’universo di Nathan Never (perché di questo bisogna parlare, pensando che il personaggio bonelliano ha dato il via a spin-off, serie parallele, albi speciali, serie semestrali e annuali) ho tirato fuori tre scatoloni pieni di vecchi numeri e ho cominciato a leggere quelli in uscita in questi mesi, a cominciare dalla miniserie Anno Zero in sei episodi attualmente in corso, che fa da nuovo reboot della serie. Non binge reading ma quasi, insomma.
Un rapido passo indietro. Quando è nato, nella seconda metà degli anni Ottanta, Nathan Never si è volontariamente portato dietro un insieme di influenze piuttosto variegate. Anziché rifarsi al fumetto supereroistico americano o alla tradizione francese (a partire da Valérian et Laureline, gli agenti spaziotemporali di Pierre Christin e Jean-Claude Mézières, dei quali uscirà il film live-action nell’estate del 2017), gli autori hanno guardato ad altre influenze, ad altri esempi.
Quelli del cinema di fantascienza americano di qualità degli anni Ottanta, cioè Alien e Blade Runner, o della letteratura cyberpunk di William Gibson e Bruce Sterling con anche qualche cosa del “preistorico” Isaac Asimov, ma anche l’invasione nipponica dei manga e degli anime di fantascienza, a partire da Gundam di Yoshiyuki Tomino e Patlabor del collettivo Headgear, e Ghost in the Shell e Appleseed di Masamune Shirow. E ovviamente, il piacere delle serie televisive “nuove”, dai reboot di Star Trek al primo Battlestar Galactica, cose che rappresentavano la frontiera colorata e un po’ kitsch della fantascienza popolare anni negli Ottanta e primi Novanta.
Ci sono poi tantissime citazioni puntuali, omaggi che compaiono in singoli albi, riferimenti circoscritti (dal Pianeta delle Scimmie a Saturn 3 con Kirk Douglas e Farrah Fawcett, per citare i primi due che mi vengono in mente) ma non sono determinanti per la forma complessiva di Nathan Never.
Una serialità strutturata e ri-strutturata
Se infatti si guarda alla struttura della serie regolare (cioè al netto di speciali e spin-off), il discorso si fa un po’ più complesso. Nathan Never procede infatti lungo assi di sviluppo molto strutturati: l’agente Alfa attraversa varie saghe, cioè serie di episodi collegati da una fortissima continuity, che poi sono intervallati da episodi-cuscinetto che fanno da riempitivo.
Sullo sfondo, personaggi e situazioni che definiscono il suo “mondo” (che fittiziamente appartiene allo stesso universo di Dylan Dog, Martin Mystère, Mister No e Zagor, per intendersi) e che lentamente evolvono. Dopo 100 numeri ecco un primo reboot, che per raggiungere un assestamento un po’ stabile richiede più di sessanta mesi (!).
Un secondo lavoro di ristrutturazione inizia nel 2011 con la ‘Guerra dei Mondi’, saga che inizia nel 2011 e porta la saga, a metà 2012, ad avere un nuovo stile narrativo più “amaro” e cinematografico, con un flashback importante in corrispondenza del numero 250 della serie, che rivisita ancora una volta l’inizio ormai mitologico della saga: le conseguenze drammatiche della morte di Laura, la moglie di Nathan, che viene uccisa dal “mostro”, e del rapimento della figlia Ann, l’esilio volontario di Nathan Never in un tempio Shaolin, la psicologia degli altri comprimari; l’alienazione e solitudine simmetrica ma completamente diversa dell’eroina action e lesbica Legs e del genio informatico Sigmund Baginov, per esempio.
Non finisce qui: le linee temporali e gli universi paralleli, in cui vivono gli stessi personaggi ma con ruoli e sviluppi differenti da quelli della trama “principale”, sono pane quotidiano sia per singoli albi che per la costruzione di saghe divergenti. Un esempio. La saga di ”Nemo”, che viene portata avanti nei primi otto albi Giganti di Nathan Never (sulla falsariga degli ormai classici ‘Texoni’) è costruita attorno alla figura di Ann Never, adulta e non più catatonica per l’omicidio-rapimento che ha segnato la sua infanzia, e il clone di Nathan Never che qui si chiama, con una strizzata d’occhio ai fan più colti della saga, “Nemo”. Si combattono i Tecnodroidi, in un mondo che è in parte il futuro di Terminator, e i richiami ad altri archi temporali e saghe di Nathan Never sono moltissimi, assieme alle citazioni e al bisogno di inventare sempre nuove situazioni.
Come vedete, ho appena toccato la superficie e già occorrerebbe creare una piccola enciclopedia di personaggi, archi narrativi, storie, reboot, saghe. Tutto questo senza misurare in dettaglio l’impatto che i diversi sceneggiatori che si sono succeduti hanno avuto nel dare forma (alcuni molto, altri quasi zero) all’epopea. C’è sempre lo zampino dei tre co-creatori, per carità – in primis Antonio Serra, a lungo coordinatore editoriale –, ma Nathan Never non è più solo creatura loro.
Arriviamo così alla miniserie di sei episodi che fa da ripartenza a tutta l’architettura della serie. Sei episodi in cui torniamo all’inizio, all’agente Alfa che ha ancora i capelli neri, una moglie e una figlia, lavora per la polizia e non brilla certo per doti di trasparenza e onestà (non faccio volutamente alcuno spoiler perché i volumi si possono tranquillamente reperire in edicola o fumetteria). Anzi, da un certo punto di vista ci mette molto del suo per complicarsi la vita e complicarla alle persone attorno a lui.
Nathan Never: Anno zero, di cui finora sono usciti due episodi, è decisamente vicina alla storia originaria e soprattutto alle atmosfere di quel Blade Runner grazie al quale Sergio Bonelli era stato convinto a lanciare “l’avventura del futuro, il futuro dell’avventura!”, come da locandina del primo albo nel 1991.
Il giudizio sul reboot del fumetto non può prescindere dunque da un giudizio complessivo su Nathan Never e quindi dalla comprensione della sua forma base. L’anima, lo spirito vitale dell’universo Nathan Never qual è? Qui mi sono incastrato e ci ho dovuto pensare un po’.
Nathan Never per me è sempre stato un fiume in piena. Una narrazione ricchissima, molto pop, legata in maniera tattica agli stili e alle stagioni della fantascienza, con l’indubbio merito di aver ampliato il bacino di utenza fantascientifico che in Italia è sempre stato legato alla narrativa e, quindi, a un pubblico piuttosto limitato. Ci sono tantissime citazioni, ci sono archi narrativi e saghe che si intrecciano e sovrappongono, divergono, alterano il tessuto stesso dello spazio-tempo.
C’è idealismo, ottimismo, un tot di piaggeria e un costante citazionismo verso il cinema e l’animazione americana e giapponese. E c’è il mestiere e il talento degli sceneggiatori in forza a Bonelli, un editore che a partire da Martin Mystère (1982) e Dylan Dog (1986) ha investito sempre di più sul fumetto popolare di qualità (“popolare d’autore”, secondo un’etichetta in voga dai tempi di Ken Parker), costruito in maniera professionale e autoriale.
Alla fine ho deciso di provare ad avanzare una teoria. Nel lungo, lunghissimo percorso della serie ci sta anche questo momento di ridefinizione di tutto l’universo. Infatti, anche con la forza di questo reboot Nathan Never cerca di ridefinire le coordinate stesse del suo mito fondante e quindi della sua traiettoria, sfrondando il suo stesso canone probabilmente anche per sbrogliare un po’ di intrecci e contraddizioni che potrebbero essere capite solo da lettori oramai almeno quaranta-cinquantenni. E qual è allora la natura complessiva di questo corpus di opere, anzi di questa opera a forma di galassia, diffusa in centinaia di narrazioni-stella?
Ri-raccontare la fantascienza tutta
Nathan Never sta dimostrando a mio avviso di essere fatto della stessa sostanza di cui è fatto Perry Rhodan, la super-saga tedesca dell’astronauta americano che, durante una spedizione sulla Luna, incontra gli alieni che lo rapiscono e inizia così una epopea infinita – e non ancora finita oggi, dopo quasi 55 anni.
La redazione Bonelli ha conteggiato 573 storie pubblicate di Nathan Never (134 sono in ‘quota Legs’), fra serie regolare, speciali, fuoriserie e cross-over (ci hanno inoltre comunicato a quante tavole corrispondono: circa 70.800; una sessantina di campi da calcio tappezzati di pagine stampate…). A Perry Rhodan invece si attribuiscono, come scrivevo su questo sito alcuni mesi fa, più o meno 2.850 volumi, con due miliardi di copie vendute complessivamente.
Soprattutto, Perry Rhodan ha dimostrato di essere, grazie a saghe e cicli che sono durati anche per centinaia di romanzi, il principale veicolo di narrazioni ibride, meticce, multiformi. Una serialità fatta di tante serialità composite. Nathan Never ne è un più che degno e italico epigono: meticcio, ibrido, multiforme, multipiano.
All’inizio di questo articolo facevo riferimento a Urania, la collana di romanzi di fantascienza di tantissimi autori diversi apparsa nelle edicole del nostro Paese a partire dal 1952. Torna utile adesso per focalizzare uno snodo a mio avviso importante. Mentre Urania ha cercato di catturare tutta la fantascienza mondiale nei suoi volumi, Perry Rhodan e Nathan Never hanno invece cercato di ri-raccontare la sci-fi con lo stesso cast di personaggi fissi e invece con una messa in scena costantemente variata e diversa.
Da questo punto di vista questi albi di fantascienza sì che sono veri “oggetti narrativi non identificati”, altro che New Italian Epic. Ad esempio, Nathan Never ha dato un punto di vista e fatto parlare qualunque manufatto: si è infatti ascoltato (e visto) il punto di vista di scatole di latta, console, armadi, fibre di vetro, pietre lunari, entità (quasi) aliene ed entità pienamente artificiali, e chi più ne ha più ne metta. Mi spiace per Wu Ming e gli altri soggetti narranti non identificati, ma il fiume all’apparenza convenzionale di Nathan Never è sorprendente, e si salda con un filone potente di cui, come si diceva, il capostipite è Perry Rhodan.
Nasconde un intero universo nelle sue acque torbide e dense di mulinelli sabbiosi fatti di atomi e di bit, di cowboy dello spazio e di cowboy del cyberspazio. Citazioni o conformismi, invenzioni o banalità che però aprono il senso a domande più articolate, profonde e talvolta persino non scontate, soprattutto per quella parte di pubblico che di scienza e tecnologia mastica poco, non legge TheVerge e si limita a Wired (forse). Nathan Never è insomma un contenitore inclusivo tutte le storie di fantascienza, perché le vuole ricomprendere tutte (o quasi tutte) e non può fare altro se vuole andare sempre avanti, in edicola mese dopo mese.
Anche la principale debolezza di Nathan Never, che poi è il personaggio, in realtà è necessaria. L’uomo Nathan è poco più di una scusa, una maschera, un Sisifo, un marchingegno narrativo per giustificare un escapismo ricco, saporito, genuinamente spiazzante nella sua capacità di reinventarsi e nel suo bisogno patologico di appropriarsi di qualsiasi altra forma di narrazione del fantastico (e non solo).
Se il fumetto ha il potere di offrire uno “stupore a buon mercato”, quando sposa il doppio (triplo) registro della narrazione sofisticata con quello dei ritmi del multimedia e degli spazi visivi del cinema, Nathan Never eccelle in questo lavoro. Lo fa in modo ridondante, feuillettonesco, soapoperistico, telenoveloso, spaghettiwesteriano, poliziottesco, commediaallitalianamente. Dopotutto, è un fumetto popolare da edicola che, per continuare ad aumentare questa gigantesca materia oscura narrativa che satura universi e linee temporali, deve anche invogliare ad acquistarlo lì, tra un giornale, un rotocalco e le figurine (e La Settimana Enigmistica, nostra regina delle edicole), mese dopo mese.
Questo vuol dire che leggerò gli altri quattro volumi della miniserie di rilancio di Nathan Never? Certo. E che continuerò a comprare i numeri successivi? No. Ero e resto un lettore: per gustare Perry Rhodan non mi serve leggerne 2850 episodi. Mi basta solo sapere che in edicola, quando ne avrò voglia come oggi, continuerò a trovare occasioni per farmi fare compagnia da Nathan Never.
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*Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio.
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