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Deadly Class, recensione del fumetto di Rick Remender

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Non tutte le ciambelle escono col buco. Così può succedere che anche uno lanciatissimo come Rick Remender possa mancare il centro. O per lo meno dare questa impressione nell’arco dei primi numeri del suo nuovo fumetto Deadly Class (Image Comics).

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Il concept è piuttosto semplice. Si parla di un istituto scolastico molto esclusivo, in cui i rampolli della criminalità mondiale studiano per diventare dei sicari perfetti. Tanto per non farsi mancare nulla, il liceo è gestito da uno strano vecchietto orientale. All’interno delle aule tutto viaggia sui consolidati binari dei cliché alla Glee. Almeno fino all’arrivo del protagonista, un vagabondo di origini sudamericane privo – a differenza dei suoi compagni – di un pedigree che possa giustificare la sua presenza tra i banchi. Naturalmente il preside vede in lui cose che gli altri non vedono, legate soprattutto alla bizzarra morte dei suoi genitori.

Harry Potter incontra Wanted, passando per Morning Glories? Può darsi, ma il riferimento più valido rimane il piccolo capolavoro videoludico Bully. Anche in quel caso seguivamo le imprese di un outsider inserito a forza in un territorio che non gli appartiene, costringendolo a una singolare lotta per la sopravvivenza da cortile della scuola. La grossa differenza sta nella sagacia con cui viene affrontato l’argomento. Il videogame della Rockstar brillava proprio in virtù della sua capacità di giocare con i cliché e con la crudeltà con cui li interpretava, restituendoci un ritratto amaro, velenoso e vagamente ritardato della società.

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In Deadly Class invece abbiamo la gang di giapponesi, quella di ispanici, i tamarri del Jersey, i fattoni nei bagni, i figli di papà con il maglioncino allacciato al collo,… Troppo da sopportare per una serie del 2014, anche se ambientata in quella decade così sottilmente de-umanizzante che furono gli ‘80. Non fraintendete: a tutti piacciono le storie ad ambientazione adolescenziale farcite di stereotipi. Dagli school rumble nipponici ai teen drama statunitensi. Però qui mi pare si stia facendo il minimo sindacale. Se volete vedere come la figura del succitato rampollo dell’alta borghesia con cashmere d’ordinanza possa essere trattato in maniera inedita senza cambiare una virgola al cliché che lo dipinge, recuperate la geniale – davvero – puntata “The Sweaters” del cartone animato The Amazing World of Gunball. Decisamente un’altra storia, nonostante si tratti di un prodotto per bambini.

L’unico picco d’interesse della serie, considerando anche che le tavole di Wesley Craig sono buone ma non strappano certo applausi, viene ancora una volta dal passato punk rock dello scrittore. Senza anticipare nulla diciamo che l’obbiettivo della vendetta del protagonista è lo stesso di una nota band punk-metal degli anni Ottanta, di base a Venice Beach. O di un tizio ossessionato da Jodie Foster, se cercate qualcosa di meno teorico e di più pratico. Un’idea minuscola ma che potrebbe dare un tono tutto nuovo alla serie, strappandola dal pantano di angst adolescenziale a cui sembra destinata, per scaraventarla nel tono naif più fragoroso e cialtrone. Quella particolare categoria estetica capace di ammantare la provocazione idiota di un’aura da umorismo ricercato ed eversivo. Un po’ quel che è successo con gli ultimi film di John Waters, tanto per rimanere in ambito punk. A quel punto, anche la suddivisione in gang con etichette da stereotipo razziale acquisterebbe un senso.

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