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Gli Avengers di John Byrne

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Le narrazioni seriali che hanno come protagonista una squadra di eroi sono sempre difficili da gestire. Se ti focalizzi su un personaggio in particolare perdi il senso della coralità che è l’elemento cruciale. Se ti concentri troppo sulle schermaglie da soap opera le vicende si annacquano, perdono di incisività e viene meno una bussola per capire quale trama seguire.

Proprio per questo, non capita spesso di sentire nominare dei fumetti degli Avengers tra i propri preferiti o più memorabili, anche a causa dell’assenza di nomi forti che coltivassero la serie e i suoi equilibri con i giusti tempi (Chris Claremont sugli X-Men, Jonathan Hickman sui Fantastici Quattro). Non è un caso che le storie dei Vendicatori più famose siano state firmate da autori che le hanno realizzate per un periodo medio-lungo. Roger Stern, o Brian Bendis su New Avengers, per esempio.

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L’altro, di esempio, è John Byrne, ‘one man show’ tornato in Marvel a metà degli anni Ottanta, dopo il semi-fiasco del rilancio di Superman, e messo a capo del gruppo di serie legate ai Vendicatori, Avengers e West Coast Avengers. Quest’ultima era la testata satellite dedicata ai Vendicatori della Costa Ovest, che all’epoca includeva Visione, Scarlet, Wonder Man, Tigra, Occhio di Falco, Hank Pym e Wasp.

Byrne, che pure non può dirsi un fine scultore delle psicologie dei personaggi come altri suoi colleghi, contribuì a cesellare il personaggio di Wanda dandole spessore e complessità, in una saga che ebbe effetti a lunga portata come Alla ricerca di Visione, in cui l’eroe del titolo viene rapito e ricostruito da zero, perdendo tutti i ricordi e soprattutto il suo lato umano, divenendo così un freddo androide (con un nuovo aspetto bianco spettrale). Lungo tutta la gestione l’autore lavorò su Wanda, privandola della stabilità mentale e sviluppando i rapporti con il marito, il collega Wonder Man, i figli e il padre Magneto.

La vena farsesca di Byrne lo portò poi a creare un terzo gruppo di Avengers, i Vendicatori dei Grandi Laghi – team composto da Mister Immortal, Diah Vola, Uomo Porta, Big Bertha e Sfogliaman (già i nomi dovrebbero farvi capire la cifra umoristica delle vicende che li vedono coinvolti).

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Le storie degli Avengers di Byrne hanno una caratteristica: hanno saputo essere del loro tempo. Che non significa quindi che non vadano bene oggi, ma di certo andavano benissimo all’epoca. Byrne frullò con gusto trovate personali ed elementi del pop anni Ottanta – lo strillone di Alien («Nello spazio nessuno può sentirvi urlare»), Terminator, il Tonight Show con Johnny Carson – rispettando i codici di quegli anni. Solo che invece che nei riferimenti culturali è nei codici che i segni del tempo lasciano le crepe più vistose. Da lettore, è difficile entrare in quel mondo, in quel linguaggio, in certi casi diversissimo da ciò che è oggi un fumetto di supereroi.

Uno dei nostri androidi è scomparso! inizia così: «Si sveglia da un sonno agitato, un sonno che ha portato poco riposo. Guarda la stanza illuminata dalla luce del sole che filtra dalle persiane, e cerca di farsi tornare in mente ricordi appena accennati di forme vaghe e di voci sussurrate, ansiose. Lei è Wanda, conosciuta come Scarlet. Mentre la nebbia del sonno l’abbandona, nei suoi pensieri si fa largo un nome…». È un incipit verboso e iperdescrittivo che non avrebbe patria in un qualsiasi fumetto d’oggi.

Non solo, l’altro grande vizio era la tendenza a scrivere con un occhio di riguardo ai papabili nuovi lettori e, quindi, al grido di «Ogni fumetto è il primo fumetto di qualcuno» si riempievano le didascalie di spiegoni e le pagine di flashback riassuntivi. Ecco che i personaggi si trovano talvolta a rimuginare sul proprio passato a favore di neofiti, o il narratore si sentiva in dovere di accompagnare l’immagine di Scarlet con il commento: «Si veste in fretta indossando istintivamente lo sgargiante costume dal cui colore ha preso il nom de guerre. Come sempre, si muove con cura per non scatenare involontariamente quel potere mutante di alterazione delle probabilità che la rende una strega».

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Insomma, in quanto a scrittura siamo su un altro pianeta, nel bene e nel male (perché a volte la prosa meditabonda e sofferta di Byrne funziona nel comunicare ciò che i disegni non riescono a dire, come fa il passaggio che apre Uno dei nostri androidi è scomparso!). Però, acclimatandosi a quel tipo di racconto, dopo un po’ ci sia abitua – in questo la lettura sequenziale del volume aiuta – e si riesce a farsi strada tra le didascalie per ammirare la mano di Byrne come disegnatore, quella sì invecchiata bene.

Sempre bello da guardare, specie quando lo inchiostra Terry Austin, Byrne predilige le entrate a effetto – quasi tutti gli albi si aprono con un primo piano o una figura intera – e una scansione chiarissima degli eventi, riempiendo gli albi di immagini folgoranti, quasi visionarie (la casa che fluttua nello spazio che apre L’ultima goccia, Visione smembrato, l’universo che sparisce lasciando una pagina bianca in E poi venne un ragno). C’è invece molto meno gusto nel guardare i disegni di autori di seconda fascia come quelli di Paul Ryan, lo sparring partner di Byrne, e degli altri nomi coinvolti.

Marvel Omnibus – Avengers di John Byrne
di John Byrne e altri
traduzione di Paolo A. Livorati, Andrea Plazzi e altri
Panini Comics, dicembre 2019
Cartonato con sovraccoperta, 968 pp., colore
85,00 €

Leggi anche: 10 grandi fumetti degli Avengers, secondo noi

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