Non mi posso lamentare di Paolo Cattaneo è un libro commovente e spudorato, persino straziante. È il racconto degli ultimi giorni di vita di Danilo, un giovane uomo malato terminale. Danilo ha un figlio in arrivo, che non potrà conoscere – forse non è nemmeno figlio suo – ma che per lui rappresenta l’ultimo legame con una vita che lo sta abbandonando lentamente. Il protagonista decide di spendere i suoi ultimi giorni per scrivergli dei messaggi, in un quaderno pieno di ricordi, consigli e riflessioni. tanto paterne quanto amichevoli.
Dopo aver raccontato l’adolescenza in diversi racconti e nei volumi L’estate scorsa e Manuelone, con Non mi posso lamentare (pubblicato da Rizzoli Lizard a fine 2019) Cattaneo amplia il suo sguardo raccontando l’età adulta. Ma non cambia il punto di vista, che erano e rimangono individui estremamente fragili, apatici, sconfitti dalla società e, per certi versi, dal destino. La sua attenzione per i dettagli più spiacevoli delle loro vite ordinarie non si è ridotta. Quello che è cambiato, sono le tecniche e l’approccio generale al racconto, come l’autore ci ha raccontato in questa intervista.
«Non mi posso lamentare» è una di quelle frasi che si dicono tra un saluto e l’altro, è un convenevole, una frase vuota. Le domande semplici, tipo «come stai?», possono avere un qualcosa di inquietante. Perché ti mettono di fronte alla necessità di mentire o di usare una estrema sintesi. Ma soprattutto, mostrano quanto all’interlocutore importi poco di te.
Le lamentele sono veramente una rottura, salvo rarissime eccezioni. Forse allora è meglio una semplificazione ritualizzata. Almeno così, sbrigati i convenevoli, si può parlare d’altro. Oppure, se si vuole seriamente chiedere a qualcuno «come stai?», allora bisogna fare la voce seria e lo sguardo confortante e aggiungere: «Veramente: (pausa lunga) come stai?».
Non mi posso lamentare, il titolo che abbiamo scelto insieme ai ragazzi di Rizzoli Lizard, può risultare stridente con la trama del libro: si parla di un ragazzo che sta per crepare. Ci sarebbe da lamentarsi eccome. E invece Danilo sceglie un’altra strada, quella del racconto, che esula dalle polemiche e dalle menate, e diventa la testimonianza unica di un’esistenza, coi suoi dolori e le sue meraviglie normali, vista con gli occhi tranquilli di uno che prova ad accontentarsi di un biglietto allo stadio invece che dell’abbonamento.
Come è nata l’idea di raccontare gli ultimi giorni di un malato terminale?
Avevo in mente una storia di uno che passeggiava e scopriva dei posti okay, l’avevo mezza scritta e poi subito smarrita, credevo per sempre. Me la ricordavo come una versione marcia e vera de L’uomo che cammina di Jiro Taniguchi, con meno poesia e più cacche di cane.
Quando l’ho ritrovata, l’ho espansa parecchio. E ho costruito un personaggio che avesse un motivo per raccontarsi, per svelarsi al lettore. Allo stesso tempo il tema del termine della vita fa parte dell’esperienza di tutte le persone, e ho cercato di inserirla con delicatezza, in modo che non diventasse troppo centrale (e pesante) nella narrazione. Spero di esserci riuscito.
Non credo che Non mi posso lamentare sia un libro mega-mega-triste, non in modo traumatico, almeno. Ci sono molti momenti leggeri, si ride anche un po’, e poi Danilo è proprio un bravo Cristo. Non ci si lega a lui per compassione, ci si affeziona indipendentemente dalla sua sorte, perché è un tipo che si vorrebbe conoscere, e la storia serve a questo: a farvelo conoscere, a diventare suoi amici.
Perché hai scelto la forma del racconto in prima persona, praticamente un diario?
Forse avevo la necessità di cambiare punto di vista, provare una scrittura nuova rispetto ai miei lavori precedenti – incentrati invece sui dialoghi – e tentare un racconto focalizzato sul pensiero, sul colloquio interiore, più che sul botta e risposta tra i personaggi. Anche qui ci sono momenti di chiacchiere – che mi piace ancora inventare – ma quasi tutto il tempo siamo dentro la testa di Danilo, entrando veramente in contatto con il suo modo di pensare e di vedere il mondo. È un filtro che anche lui, attraverso il suo “diario” tenta (in buona fede) di trasmettere anche a chi leggerà il suo specificissimo testamento immaginario. Una specie di dottrina positiva stramba, da predicatore autodidatta.
È stato complicato cedere più spazio al testo e lasciarne meno al disegno e alla sequenzialità? Come sei arrivato a questa scelta?
Era un tipo di esperimento che volevo fare da tempo, per cambiare anche, e provare a scrivere una storia più verbosa. In più mi stimolava la possibilità di raccontare nelle didascalie faccende non necessariamente legate alle immagini con le quali condividono la pagina. In Non mi posso lamentare i piani del racconto scritto e del racconto per immagini non sono sempre allineati, questo mi ha dato una libertà inedita nella progettazione delle pagine, ed è stato proprio entusiasmante.
Sei passato dalla matita in chiaroscuro al digitale a colori. Un cambiamento radicale.
Cambiare editore (e di conseguenza pubblico) per me significa anche cambiare approccio. Cercarne uno più affine agli intenti di chi ti pubblica mi pare una bella sfida, oltre che una cosa sensata da fare. Avevo anche una fortissima curiosità di applicare il mio modo di fare marcio e randagio al digitale, che di solito invece è tutto perfettino e gradevole. Ho immaginato di usare il digitale come quando disegnavo su Paint col mouse in Windows 95. Sapevo che ci sarebbero stati degli scettici: L’Ordine Segreto dei Sacri Difensori del Verissimo Disegno Analogico Tradizionale.
Ma mi sono divertito a provare a convincere pure loro, e alcuni sono tornati a farmi vedere la loro tesserina appena plastificata del Nuovo Ordine del Ci Va Bene Anche il Digitale. Ne ho goduto sotto i baffi.
Quali vantaggi ti ha dato il digitale, rispetto a come eri abituato a lavorare?
Tutti quelli che ci si può immaginare: disegnare al bar, in spiaggia, al matrimonio della sorella della mia tipa su un’isola irlandese, sul traghetto, alla grigliata dei compagni delle medie.
Poi: avere a portata sempre tutto il lavoro e farlo vedere da ubriaco a un signore belga conosciuto da 5 minuti, poter cambiare e spostare i pezzi del disegno come dei lego magici, cambiare colori in un secondo. Essere un po’ più libero dalla gabbia del fumetto.
E gli svantaggi?
L’unica menata è che vogliono tutti che gli fai un attimino provare ad usarlo. Perché sembra ancora un miracolo magico del futuro, come lo skate volante di Marty McFly.
– Ma c’ha anche i livelli?
– Sì.
– E quindi te lo porti sempre dietro?
– Sì.
– E com’è la sensazione di disegnare sul vetro invece che sulla carta?
– Tipo disegnare sul vetro invece che sulla carta, però è vetro magico.
– Ma quanto costa?
– 1000 euro.
E poi usare il digitale – anche solo una volta – ti condanna eternamente alle fiamme del Girone degli Imbroglioni Bastardi, senza possibilità alcuna di poter tornare lassù nel Paradiso degli Onesti Disegnatori Tradizionali.
Chiunque abbia disegnato più di 5 minuti lo sa: gli imbrogli nel disegno sono legali, vale tutto, come nell’MMA, ma nel disegno valgono pure i morsi nei maroni e le dita negli occhi, non esiste nessuna etica, per fortuna.
Nei tuoi lavori precedenti la mania per il dettaglio ti distingueva. Ora resta una fedeltà verso il reale, ma sembri esserti in un certo senso liberato da una ossessione. È così?
Non lo so, ma forse sono in terapia. Però credo che anche in Non mi posso lamentare ci sia una bella dose di attenzione al dettaglio, sicuramente le parole hanno raccontato un sacco di cose senza obbligarmi a disegnarle, alleggerendo un bel po’ il carico.
Rimane il fatto che mi piace specificare che una cosa è proprio quella cosa e non un’altra simile. Un personaggio per me dà un calcio a un pacchetto di Camel Light, mai a una pacchetto di sigarette generico. L’ossessione fa parte del mio modo di guardare il mondo e di viverlo, ci sto dentro solamente così, in fissa con le cose.
Ci sono opere che hanno influenzato questo lavoro, oltre a L’uomo che cammina?
Risposta 1: No. Lo giuro. Cioè L’uomo che cammina è assolutamente legato alle primissime fasi, poi Danilo se n’è andato per i fatti suoi. Mi piace immaginare che se l’uomo di L’uomo che cammina attraversasse la strada a Danilo, il mio Danilo lo prenderebbe sotto con la Panda 4×4. Per sbaglio ovviamente, eh. Comunque inchioderebbe, solo un colpetto – sbum! – e via un voletto in terra di quelli da ridere di nascosto. Il tizio di Taniguchi si sbuccerebbe solo un pochino le mani.
Risposta 2: Sì, tutte. Lo giuro.
Ci sono dentro anche situazioni personali?
Inevitabilmente.
In Non mi posso lamentare la dimensione fantasy e del gioco di ruolo rappresenta il sogno e poi l’aldilà. Perché?
È da un po’ che mi piace inserire l’elemento fantastico nelle storie che immagino. Riguardo al fantasy non è una roba che leggo o fruisco con speciale goduria, anzi, lo trovo una stramenata di nomi del cazzo.
Ma comunque da bambino sono rimasto flashato dai librogame di Lupo Solitario e dopo dai videogame, e poi nel fantasy ci sono le botte e le cose magiche inventate, quindi ne riconosco il potenziale sballo. Quando nessuno mi vede scrivo delle cose di “fanta-sci-fi-sy”, per divertirmi e allenare la scrittura, credo.
Nel caso di Danilo però ho scelto di usare il fantasy come dimensione alternativa concreta, delegata al sogno (o all’incubo). Anche nelle ultime pagine, quello che può sembrare l’aldilà probabilmente è solo una visione onirica. In questo “altro mondo” che lui ha ben chiaro e codificato dall’immaginario metal, dai film de Il Signore degli Anelli e dai videogame, Danilo vaga con i suoi compagni in cerca di avventura, progredisce e accumula esperienza, proprio come in un gioco di ruolo. E poi è super divertente disegnare spade, armature e mostri.
È più facile o più difficile gestire una storia della quale il finale è la premessa stessa? Il fatto che Danilo dovrà morire è subito chiaro.
Dipende. Avevo le idee chiare sin da subito su come dovevano andare le cose, quindi la stesura è stata molto rapida, molto di più rispetto a L’estate scorsa, almeno. Le didascalie mi hanno aiutato tanto, ma ho dovuto aggiungere circa cinquanta pagine per diluire bene i tempi e dare respiro a chi lo legge.
Il fatto di chiarire le cose fin dalla prima pagina mi ha messo nella condizione di non dover gestire segreti e svelamenti durante la storia e mi ha permesso di concentrarmi sul personaggio, sui suoi ragionamenti e sulla sua crescita.
C’è qualcosa di cui senti di doverti lamentare?
Le lamentele sono veramente una rottura.
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