Stagione di caccia è il nuovo graphic novel della coppia Emiliano Pagani e Bruno Cannucciari, che arriva dopo Kraken, uscito nel 2017 sempre per Tunué. Autori noti per il loro decennale lavoro nel fumetto comico e di satira – Pagani per le sue storie per il Vernacoliere, su tutte Don Zauker, Cannucciari per il suo lavoro su Lupo Alberto – i due hanno applicato a questo libro la stessa formula del precedente, realizzando una storia cupa e introspettiva, ma portandola in terreni più vicini, ovvero i luoghi rurali di un ipotetica Italia contemporanea.
È ancora la lotta tra umano e natura, come metafora della lotta interiore di ogni singolo individuo, a interessare ai due autori, che in Stagione di caccia hanno toccato un realismo di estrema efficacia narrativa. Di questo e di altri temi, ne abbiamo parlato proprio con Pagani e Cannucciari.
Come è nato Stagione di caccia?
Pagani: L’idea è nata da alcune suggestioni. Dopo gli abissi marini di Kraken ci piaceva avventurarci nei buio dei boschi, tra suoni di animali, umidità e nebbia. Non i boschi curati dei film o delle fiabe, i boschi veri, quelli impenetrabili, quelli fitti di arbusti, quelli dove, a meno che tu non sia un animale, non puoi pensare di vivere. Come l’abisso marino, anche il bosco è da sempre una metafora molto forte e, se vogliamo, abusata, dipende però da come se ne scrive e come lo si rappresenta.
Kraken è stato una bella prova per noi. Abbiamo provato a smarcarci dal nostro ruolo di autori satirico/umoristici per fare tutt’altro. L’esperimento ci è piaciuto, il fumetto ha riscosso un enorme successo, dandoci grandi soddisfazioni, era logico quindi che, al momento in cui avremmo avuto una storia valida, perché quello che più conta è la storia (e il tempo per realizzarla come si deve). non le scadenze editoriali per sfruttare la scia dei successi precedenti, saremmo tornati a collaborare.
Dopo Kraken, il mistero e la forza della natura restano centrali nel vostro sodalizio creativo. Come si è evoluta la vostra ricerca narrativa?
Pagani: Ci interessa molto il rapporto dell’uomo con la natura perché per molti versi è da lì che nasce il rapporto dell’uomo con i suoi simili. Ci piace (almeno ci è piaciuto farlo in queste due storie ma non è detto che sarà sempre così, anzi) vedere la natura come un qualcosa che sta al di sopra, che non partecipa alle vicende e ai piccoli e grandi drammi umani, qualcosa che in fondo se ne frega della nostra sopravvivenza così come della nostra estinzione.
È una visione quasi “leopardiana” se vogliamo, con tutti i dovuti distinguo, per carità. Spesso quando si parla di ecologia e difesa dell’ambiente (e in questi ultimi tempi se ne parla tantissimo perché il prodotto vende bene) si dice che stiamo distruggendo la natura. No, stiamo semplicemente distruggendo il nostro habitat, la natura andrà avanti, modificandosi, siamo noi che spariremo.
I cinghiali – protagonisti di questa storia tanto quanto gli umani – se vogliamo sono figure prorompenti, che oggi simboleggiano lo straripare della natura nelle città, con una difficile convivenza. Invadono la capitale ma anche i centri più piccoli. In Stagione di caccia sembrano simboleggiare anche altro, o meglio “l’altro”, lo straniero. Come avete scelto questo elemento?
Pagani: Perché è un animale bellissimo, perché è molto presente in tutto il territorio europeo, perché viene considerato un animale infestante a cui dare la caccia più per proteggere il territorio che per abitudini alimentari, perché si caccia a squadre, perché conosco molti cacciatori di cinghiali e molti dei discorsi che ho riportato nel fumetto li ho sentiti da loro, perché davvero si fanno arrivare dall’estero e si fanno riprodurre per la gioia dei cacciatori (e ristoratori) che ad un certo punto con la scusa che “sono troppi” danno il via a vere e proprie campagne di sterminio, perché fin dall’antichità era considerato simbolo di morte, poiché veniva cacciato a partire dal 23 settembre, giorno vicino alla fine dell’anno nel calendario greco, e personificazione dell’oscurità in lotta con la luce, a causa delle sue abitudini notturne e della colorazione scura del manto. Per tutte queste cose insieme, insomma.
Ci sono alcuni eventi reali in particolare che vi hanno ispirato, oltra al contesto generale in cui viviamo?
Pagani: No, eventi in particolare no. Diciamo che Stagione di caccia è nato dalla necessità di mettere in evidenza alcune contraddizioni e portare alla luce i drammi che esse spesso nascondono. La storia inizia mostrando chiaramente i buoni (le tre donne, ecologiste, progressiste e a favore dell’accoglienza nei confronti degli immigrati) e i cattivi (i cacciatori, violenti, razzisti e maschilisti), poi vedremo che le cose non sono così.
Non ci sarà nessun ribaltamento di ruoli ma tutti si troveranno in un caos dove la natura del certo e dell’incerto, della vittima e del carnefice è molto più inafferrabile di quel che potrebbe sembrare in questi tempi fatti di odio e di prese di posizione e soprusi verso chi non ha mezzi per difendersi ed è quindi considerato “sacrificabile”, in nome di un bene, di un ideale o di un problema “superiore”.
La scelta di ambientare il racconto in Italia sembra molto mirata. Che intenti ci sono dietro? C’è anche un’urgenza di esprimersi in tempi così sofferti dal punto di vista sociale e politico?
Pagani: In verità non abbiamo pensato di ambientarla in Italia e in effetti, a parte i nomi dei protagonisti, non c’è nessun altro indizio che faccia pensare che ci troviamo in Italia. Si parla di un paesino di cacciatori sperduto tra le colline nebbiose, circondato da un bosco. Potrebbe essere Francia, Slovenia, Ungheria, Germania, Galizia… Abbiamo usato i nomi italiani proprio per non dargli una caratterizzazione geografica precisa. Siamo italiani, usiamo nomi italiani, tutto qui. Per Kraken abbiamo usato nomi francesi perché, al contrario, era importante ambientarlo nel nord della Francia.
Per quanto riguarda le tematiche affrontate, pensiamo (e temiamo) che siano abbastanza comuni, in tutta Europa. Certo, noi ci distinguiamo sempre in peggio, almeno nel grottesco, ma questo è un altro discorso.
Le donne sono protagoniste della storia. I cacciatori sono tradizionalmente uomini, mentre la vostra storia è in mano alle donne. Come mai questa scelta?
Pagani: Per evidenziare in maniera più netta i due schieramenti, prima di sconvolgere e mischiare il tutto. Donne, progressiste, ecologiste, colte, sensibili, circondate da gatti contro uomini, reazionari, razzisti, ignoranti, maschilisti, circondati da cani.
La storia all’inizio potrebbe sembrare questa, e un lettore medio abituato a una certa narrazione consolatoria di una certa area progressista si riconosce subito leggendo ciò che vuole sentirsi raccontare: noi siamo belli e buoni, gli altri sono brutti e cattivi. È a quel punto che gli assestiamo un paio di schiaffi in faccia, come a chi deve riprendersi da una sbronza o da un sonno troppo lungo.
Kraken raccontava la figura di un uomo che faceva i conti con se stesso, in Stagione di caccia c’è forse la necessità di ampliare lo sguardo su una comunità intera, con minor individualismo e più presa di coscienza. È così?
Pagani: Sì, è così. In verità la comunità del piccolo villaggio di pescatori era molto presente anche in Kraken, però è vero, il personaggio principale era Serge. In Stagione di caccia non c’è un vero e proprio protagonista, diciamo che ci sono almeno quattro personaggi che si dividono la scena, ognuno con un proprio vissuto e con una propria visione delle cose al punto che ognuno potrebbe meritarsi una storia a sé. Ma abbiamo preferito far confluire il tutto in una trama unica per aumentare le sfumature.
Qui il disegno è più dettagliato e realistico, con i toni di grigio che danno uno spessore molto fisico alle figure. Come mai questa scelta più vicina al reale?
Cannucciari: I toni di grigio sono una scelta di sintesi e di aderenza alla storia. Il colore ha in sé qualcosa di pacificante, tanto più in un bosco autunnale, noi invece volevamo che il lettore non avesse “scampo” dalla storia. Il colore avrebbe costituito una distrazione, una nota poetica.
Anche il disegno più realistico è frutto degli stessi ragionamenti: con uno stile più grottesco si correva il rischio di cristallizzare i personaggi nel loro ruolo (il cacciatore cattivo, la vecchia bisbetica eccetera) o di dare al tutto un’aria da favola nera o da operetta morale. Personaggi veri, dunque. Né belli né brutti, senza particolari piacioni o accattivanti, infagottati in abiti da campagna. Personaggi con i quali non scatti una simpatia estetica ma solo, eventualmente, un’empatia umana.
Ci sono luoghi o persone in particolare su cui hai modellato le tue caratterizzazioni?
Cannucciari: Sono andato a fotografare i boschi dell’alto Lazio, perché lì sapevo di trovare selve spontanee e non ambienti “pettinati”. Il paese è un mix di quattro o cinque luoghi diversi ma omogenei per stile architettonico e particolari di vita (ragnatele di cavi elettrici su mura medievali, condizionatori tra loggette in ferro battuto e muschi tra le pietre eccetera). Quanto ai personaggi, il cacciatore Bruno è modellato sulle fattezze di un Philip Noiret anziano, capo branco autorevole per altezza e corporatura ancor prima che per indiscusso talento venatorio.
Nella primissima visualizzazione di Giulia, l’anziana, mi era venuta fuori una sorta di Patty Smith, ma aveva un che di ieratico, di sciamanico, dei tratti eccessivi. Così come per la prima versione di Tiziana, la ragazza: aveva il lobo forato, capelli rasati da un lato e ciuffi disordinati dall’altro, un’aria da Tank Girl, da underground urbano, totalmente fuori contesto.
I rimandi che questi due modelli suggerivano avrebbero portato i personaggi altrove, fagocitandoli. Questo per dire che quando diamo un volto a un personaggio è facile, anche inconsciamente, restare vittima del proprio immaginario e replicare standard. Alla fine Tiziana ha avuto il volto di una mia amica che mi sembrava esteticamente perfetta per la parte e che ha accettato, rigorosamente dopo aver letto la sceneggiatura, proprio perché diametralmente opposta al personaggio.
I personaggi di Stagione di caccia parlano spesso in maniera stereotipata, e da questo sembra non salvarsi nessuno. Come avete gestito questo aspetto?
Pagani: La prendo larga, perdonami. In una scena dell’ultimo film di Nanni Moretti vediamo la regista (impegnata intellettuale di sinistra) interpretata da Margherita Buy che, dovendo girare la scena di un’assemblea tra i lavoratori di una fabbrica, si lamenta con l’assistente che gli ha fornito le comparse, dicendo più o meno (le parole esatte non le ricordo, ma il senso è questo): «Che sono queste pettinature, queste facce, queste sopracciglia disegnate? Io voglio gente vera, gente della strada, non attori da fotoromanzo!». E l’assistente, impassibile, replica: «È questa la gente della strada, la gente vera. Esca e si faccia un giro, ogni tanto».
Chiamo in causa anche Woody Allen quando diceva che il cinema imita la vita e la vita imita la brutta televisione. A me capita molto (troppo) spesso di sentire gente che si esprime unicamente ripetendo slogan che sente in tv o legge sui social: il Governo non eletto dai cittadini, l’Europa delle banche, l’invasione degli immigrati, parlateci di Bibbiano eccetera…
Purtroppo su qualsiasi tematica il confronto non è più possibile e si tende ad arroccarsi dietro una mentalità da tifosi, per identificazioni e contrapposizioni viscerali, tralasciando di entrare veramente nel merito delle questioni e, molto spesso, dimenticandosi completamente di chi, di questo modo di ragionare (e di agire) paga le conseguenze. Ogni curva grida i proprio slogan insieme a quanto gli faccia schifo la curva opposta, senza curarsi poi di quello che succede in campo o, nel nostro caso, nella vita reale.
In un mondo dove ogni immagine, ogni posa e/o espressione viene elaborata dal nostro inconscio (prima ancora che dai vari filtri) in base al successo che potrebbe avere su Instagram, scrivere e rappresentare la realtà ci porta necessariamente a fare i conti con questo: niente è più vicino alla verità di ciò che artefatto.
Questo non vale sempre ma vale quando si creano personaggi come quelli del nostro racconto. Quando si scrivono i personaggi di una storia a parlare devono essere loro e non devono farlo con la voce dell’autore.
In molti casi, se leggessimo ad alta voce i dialoghi dei vari personaggi di alcune storie a fumetti, sentiremmo sempre la stessa voce: quella dell’autore che parla a sé stesso o ai propri amici o, peggio ancora, alla critica. Ecco, quando questo accade crolla tutto.
Si tratta, a mio modo di vedere, di un meccanismo dal quale sarebbe opportuno liberarsi per riprendere il contatto con la realtà e non finire come la sinistra italiana, con tutto l’ambiente culturale che la circonda e la alimenta, impantanata in una palude di autoreferenzialità dal quale è poi molto difficile uscire.
Il finale rimane in un certo senso aperto. Avete una soluzione a cui volete arrivi il lettore o voi stessi lo vedete in modo del tutto interpretabile?
Pagani: Sì, noi l’abbiamo, però se la dicessimo qui rovineremmo il gusto della lettura. Ognuno lo interpreti come vuole poi, nel caso, ne parliamo dopo. La cosa importante è che si capisca che da quel punto in poi le cose non saranno mai più le stesse per nessuno dei protagonisti e che l’innocenza è stata persa per sempre.
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