Nel 1997 Roberto Benigni venne consacrato come attore di valore internazionale grazie a La vita è bella, film che fece man bassa di premi: tre Oscar su nove candidature, il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes, 9 David di Donatello, 5 Nastri d’argento, il Premio César per il miglior film straniero, 5 Globi d’Oro, 2 European Film Awards e un premio medaglia a Gerusalemme. Ad oggi è uno dei film italiani più popolari al mondo.
Benigni era un attore comico che con quel film si è trasformato in una star internazionale, andando oltre il genere che è letteralmente esploso al cinema fondamentalmente grazie al lavoro di attori come Eddie Murphy negli Usa e appunto Benigni e pochi altri in Europa. Pensavo a questo mentre calava il sipario e scorrevano i titoli di coda sul nuovo film dell’attore comico e regista neozelandese Taika Waititi, JoJo Rabbit.
Un film intenso, drammatico ma con inaspettate e continue, surreali venature comiche, ambientato nella Germania della Seconda Guerra mondiale, che segue le vicende del piccolo Johannes “Jojo” Betzler, dieci anni, convinto giovane nazista il cui ardore politico e il cui viaggio esistenziale si sovrapporrà alla parabola discendente del regime di Adolf Hitler. Un regime che adora talmente tanto da avere come migliore amico immaginario proprio un parodistico Adolf Hitler, interpretato dallo stesso Waititi.
Il film è un pugno nello stomaco, surreale e aggraziato ma doloroso e intenso. Lo si apprezza e al tempo stesso ti lascia scosso e sconvolto. Girato in una ambientazione a metà tra il teatrale e il film Marvel (Waititi è stato regista di Thor: Ragnarok oltre che della commedia horror What We Do in the Shadows (2014) e sta girando un altro Marvel intitolato Thor: Love and Thunder sempre con l’attore australiano Chris Hemsworth) JoJo Rabbit è un film strano, fuori dalle righe, visivamente potente.
È interpretato dal giovanissimo e intenso Roman Griffin Davis (classe 2007, attore franco-britannico), dalla bella Thomasin McKenzie (classe 2000, attrice neozelandese, che è stata protagonista di Leave No Trace/Senza lasciare traccia) e soprattutto da una spettacolare Scarlett Johansson (l’attrice classe 1984 e personaggio pivot nell’Universo cinematico Marvel, è la più pagata al mondo dal 2018), sospesa magicamente tra fantasy, dramma e farsa.
Proprio il tono farsesco, sottolineato dalle musiche (a partire da quelle in lingua del periodo berlinese di David Bowie) e dai lenti e sognanti movimenti di camera, parodia serissima delle scene enfaticamente drammatiche dei film Marvel – soprattutto di Capitan America e in parte minore di Thor – è la base per leggere il film, che è stato tratto dal romanzo Il cielo in gabbia di Christine Leunens.
La fantasia e la maturazione sentimentale, il romanzo di formazione di un normalissimo bambino tedesco, sognatore e sensibile ma nient’affatto magico, è l’ingrediente che serve a mettere in scena l’atrocità del regime nazista, la sua capacità di disintegrare i valori umani (che pure resistono, seppure condannati), l’antisemitismo che porta alla Shoah, all’Olocausto, con la “riccioli biondi” interpretata con delicata sensibilità da Thomasin McKenzie.
Il film è doloroso e dimostra quanto sia impossibile e sognante la realtà, e quanto impossibile viverci, ma fa anche capire che il comico, la farsa, il surreale sono lenti molto più acute e sensibili degli ordinari strumenti di analisi della realtà. Viviamo tempi molto difficili e un comico neozelandese è capace di raccontarcelo con una potenza tenue che tiene l’orrore (quasi) sempre fuori scena.
Vent’anni fa, in un clima sostanzialmente diverso, Roberto Benigni trovò la strada per far sognare tutti illuminando con gli occhi di un bambino l’umano e l’amore nella tana più profonda e orribile del male e della sofferenza. Waititi sceglie una strada farsesca e lascia che sia il bambino a trovare il modo per crescere attraverso il male e il dolore che lo circondano. Si chiama vita e si può raccontare anche così.
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