Il termine “GOAT” è l’acronimo di “greatest of all times”, il più forte di tutti i tempi, ed è usato nello sport per indicare un atleta che si distingue per le sue doti e per sua la capacità di vincere tutto quello che si può vincere nella propria disciplina. Per fare un esempio, il termine è stato usato per il calciatore Lionel Messi o per il cestista Lebron James. Per quanto riguarda il tennis, negli ultimi anni l’appellativo è stato più volte conteso da Roger Feder e Rafael Nadal, due dei più importanti interpreti di questo sport.
E GOAT è diventato anche il titolo del fumetto con cui Emanuele Rosso ha voluto raccontare il tennis, con un libro che mette al centro della narrazione la storia di Idris Arslanian, il più forte giocatore della storia, che però non è mai esistito.
In questa storia fittizia, Rosso mischia fatti reali e immaginari per raccontare le grande stagione del tennis degli ultimi anni, dominata dai cosiddetti “Fab Four”, ovvero Roger Federer, Rafael Nadal, Novak Djokovic e Andy Murray. E, come in un grande “what if”, si chiede: cosa succederebbe se all’improvviso un giocatore venuto dal nulla riuscisse a batterli tutti e quattro?
Dietro l’epica della storia, che narra l’ascesa di un underdog, il gioco del tennis viene sviscerato in tutte le sue forme, dagli allenamenti ai match, dai risvolti psicologici ai colpi sul campo, dal giornalismo sportivo ai top player che hanno segnato la storia dello sport, fino ai tornei minori e alle fatiche dei giocatori che gravitano oltre la centesima posizione in classifica.
GOAT è di certo una lettura appassionante per i fan del tennis, ma anche un’opera accessibile a tutti quelli che non lo masticano, capace di raccontare delusioni e gioie di uno sport tra i più famosi e seguiti al mondo. Da amante di questo sport, ho colto l’occasione di discutere con Emanuele Rosso per farmi raccontare com’è nata questa opera, approfittandone per parlare anche un po’ di tennis.
Per prepararmi all’intervista stavo tra le altre cose guardando su YouTube alcune vecchie partite commentate da Rino Tommasi e Gianni Clerici. Soprattutto visto che citi Clerici come tua ispirazione per il volume. Ti ricordi quelle telecronache?
Purtroppo no… Nel senso che al tennis giocato mi sono avvicinato più tardi, diciamo con l’ascesa di Federer, e ho iniziato a guardarlo estensivamente solo negli ultimi anni su Sky, quando ormai i due non commentavano più. Certo, ho recuperato un po’ delle loro telecronache in seguito, sia su YouTube sia in TV, specie quando davano delle repliche di alcune storiche finali di Wimbledon.
Io me le ricordo dalla fine degli anni Novanta. A volte era più bello ascoltare le loro divagazioni che guardare le partite. Comunque, ti ho fatto questa domanda prendendo come spunto il fatto che nel volume la storia è intervallata da una serie di articoli di giornale che riportano importanti partite giocate negli ultimi anni, di cui uno a firma di Clerici. Ovviamente quello di Clerici è un articolo inventato perché parla del personaggio del tuo libro. Però la scelta di usare gli articoli di giornale mi fa pensare che il tennis, così come lo sport in generale, non è solo quello che vediamo, ma anche quello che ci viene raccontato. Curiosità, gli altri articoli presenti nel volume sono veri o inventati?
Clerici lo leggo da sempre su Repubblica, e negli anni ho anche recuperato alcuni suoi libri (soprattutto quelli che raccolgono i vecchi articoli, come Wimbledon. Sessantacinque anni di storia del più importante torneo del mondo). In più recentemente un collega fumettista, Sergio Varbella, mi ha fatto un gran regalo, donandomi il suo manuale di tennis (suo nel senso che è lo stesso Clerici il tennis modello ritratto), Il tennis facile. Non potevo non omaggiarlo in qualche modo.
L’articolo di Clerici su Idris è l’unico inventato tra quelli presenti nel volume. Ho cercato di ricreare la prosa “clericiana”, così tipica e iconica. È stato un gioco e un atto di stima. Gli altri sono estratti di articoli veri, visto che raccontano la stagione del tennis al di là della parabola del mio protagonista, e servivano per puntellare la storia immettendoci realtà “documentata”. Per me, che ho una formazione letteraria, e che ho soprattutto un grande amore per la letteratura, la dimensione scritta del tennis è sempre stata importante, se non fondamentale.
È decisamente uno degli sport che meglio si presta a essere trasposto su carta, a compensare con le parole tutto quello che non possiamo sapere, come i pensieri dei tennisti. E che soprattutto ha un sacco di tempi morti, tra attese al servizio, cambi campo, tempi tra un set e l’altro, entrata sul terreno da gioco… Tutti tempi in cui ci immaginiamo che i giocatori siano preda di chissà che ragionamenti ed emozioni (probabilmente niente, sono tutte elucubrazioni dei tifosi).
A proposito di raccontare, una delle cose che trovo più riuscite nel libro è quella di riuscire a narrare i top player e contemporaneamente anche tutto quello che non arriva al pubblico, cose come i tornei minori, gli allenamenti e la fatica per arrivare a dei risultati. Nel senso, credo che a un pubblico poco pratico del tennis sia più difficile raccontare tutto quello che c’è dietro, rispetto alle imprese di grandi nomi come Federer o Nadal. Insomma, non è facile parlare di future e challengers.
Volevo fare una storia a prova di “appassionato terminale”, ma contemporaneamente accessibile anche a chi non ne sa molto. Un obiettivo per nulla facile. Alcune cose ho dovuto ometterle, ad esempio il meccanismo del punteggio nel tennis, per non diventare didascalico, ma per il resto penso di avercela fatta (e le cose che non esplicito sono facilmente recuperabili con una googlata, e comunque non credo che la lettura sia inficiata dal non conoscere esattamente come funzionano i game e i set).
Penso che il meccanismo del punteggio del tennis sia in assoluto la cosa più difficile da far capire a uno che non ha mai visto una partita. Anche se sulla carta si spiega facilmente.
Il punto è proprio che al grande pubblico arrivano quasi solo le imprese di Federer, Nadal, Djokovic e via dicendo… Io sono sempre stato affascinato dai giocatori di seconda fascia. Quelli noti solo agli impallinati. Quelli che lottano per farsi strada nei tornei, per guadagnarsi da vivere, che non hanno chissà quali sponsor. Basti pensare che solo i primi 150 giocatori al mondo si guadagnano bene da vivere, da lì in giù si va al massimo in pari o ci si rimette, considerando che ogni tennista deve pagarsi viaggi, alloggi, allenatori, fisioterapisti… E guadagna unicamente da premi partita e sponsor. E poi il fascino dell’underdog è immortale. Da una parte vuoi vedere vincere i campioni, dall’altro sogni l’upset clamoroso. Siamo tutti bisognosi di nuove storie, di nuovi eroi, costantemente.
Sono d’accordo, la carriera professionistica nel tennis è una cosa complicata. E qui arriviamo a Idris, il personaggio del tuo fumetto, che introduci molto bene spiegando che la sua carriera “è come quella di altri centinaia di tennisti”.
Verissimo, infatti Idris è un underdog dei migliori. Di quelli che partecipano ad un torneo per una wild card e arrivano in finale, inspiegabilmente… e poi vincono!
È chiaro che la vicenda in sé è un po’ estrema, cioè è molto raro che qualcosa che del genere accada. Improbabile ma non impossibile.
Ti sei ispirato a qualche giocatore in particolare per la backstory di Idris?
Ci sono tanti giocatori che hanno contribuito a creare Idris: tutti i “pazzi creativi” del circuito, diciamo… Ad esempio Ernests Gulbis (che fa un’apparizione nel fumetto), o Benoit Paire, per dire. Insomma i talentuosi che non riescono mai a dare continuità al proprio gioco. A livello di movenze, invece, il principale riferimento (inevitabile, avendo a che fare con un mancino che gioca il rovescio a una mano) è stato il giovanissimo canadese Denis Shapovalov. Certo poteva essere anche McEnroe, ma avevo bisogno piuttosto di un giocatore contemporaneo.
L’idea della storia invece da dove è nata?
Non so bene da dove sia nata, mi girava in testa da un po’… Ci ho pensato spesso ma non riesco a ritrovare la scintilla originale… Continuavo a fantasticare sull’idea di un tennista sconosciuto che, giocando un solo piccolo torneo all’anno, riesce a battere i più forti giocatori al mondo.
Ho pensato un po’ anche all’italiano Gianluigi Quinzi, che qualche anno fa, il 2013 se non sbaglio, aveva vinto il torneo junior di Wimbledon. Per un po’ in Italia ha avuto tutti gli occhi puntati addosso, ma passato tra i professionisti non ce l’ha mai fatta a sfondare, e tutt’ora non è mai entrato neppure tra i primi 100 tennisti al mondo. E posso solo immaginare la sua frustrazione, ancora di più ora che si è visto sorpassare a destra da un super giovanissimo come Jannik Sinner.
Nel raccontare la vita di Idris c’è un flashback in cui si vede lui da bambino venire allenato da una madre molto esigente. Il che, oltre che essere una cosa successa a molti atleti, mi ha riportato alla mente Open, l’autobiografia di Agassi, in cui racconta il suo rapporto con un padre molto severo. Oltretutto citi il libro tra le tue influenze. (E ovviamente è un libro stupendo di cui potremmo parlare per ore, immagino).
Open di Agassi è chiaramente una colonna portante per un racconto come il mio. Creare quella sorta di dinamica genitore/figlio era necessario per una storia di sport del genere, soprattutto perché per tutto il fumetto ci si interroga sulla reale vocazione di Idris verso il tennis, e in fondo di cosa pensi veramente Idris non sappiamo quasi nulla.
Ecco, una cosa molto importante era mantenere una sorta di censura sul pensiero dei tennisti, per vari motivi: il primo è che non essendo io un giocatore non so se e cosa possa pensare un tennista mentre gioca o mentre si allena. Il secondo è che mostrare i pensieri avrebbe in qualche modo svilito la magia, il fascino del gioco. Io non vorrei mai sapere cosa pensano veramente Federer o Nadal mentre giocano. Mi bastano le loro facce in campo, mi basta immaginare il loro tormento interiore. Temo che i loro pensieri non sarebbero mai all’altezza delle mie aspettative.
Il secondo punto è davvero interessante. In effetti mi è capitato spesso di chiedermi cosa pensasse un giocatore dopo un punto sbagliato, mentre spacca una racchetta, se stesse mollando mentalmente, o se dopo un gran punto avrebbe risalito la china e magari vinto una partita che si era messa male. D’altronde il tennis è un gioco soprattutto di testa.
Certo, me lo chiedo sempre anch’io. Il punto è che se un tennista, o più in generale uno sportivo, pensasse come un fan, o uno spettatore, non vincerebbe mai una partita. Io credo che uno dei talenti degli sportivi sia proprio quello di non pensare. Di affidarsi unicamente all’intelligenza del corpo. Non a caso si parla di “braccino del tennista”. Cioè quando trema su un punto importante.
Il famoso “braccino”, certo.
Ecco, in quel caso il tennista pensa come noi.
Parlando di fumetti. Il tuo è uno dei pochi fumetti sul tennis in circolazione. A livello europeo li conto davvero sulle dita delle mani. In Giappone invece ho scoperto che c’è una produzione molto più ampia, fatta soprattutto di titoli minori e sconosciuti in Italia. Ci hai pensato quando lo realizzavi?
Sì, avevo anche fatto una piccola mappatura: a me risultano Happy di Naoki Urasawa, Match di Gregory Panaccione e Max Winson di Jeremy Moreau. O almeno tra i recenti. Comunque non sono andato a riguardarmeli, per evitare qualsiasi influenza.
Esatto, sono gli stessi a cui ho pensato anche io, oltre Il principe del tennis e Jenny la tennista che sono due manga noti in Italia.
Credo che, almeno in Europa, dove c’è meno l’idea di fumetto specifico che guarda a ogni esigenza e fascia di mercato, dipenda molto dalle passioni degli autori. E in generale mi pare che gli autori di fumetto siano poco interessati a raccontare lo sport, a parte magari il calcio.
Forse anche perché tra le altre cose non è per niente facile realizzare un fumetto sportivo, almeno credo, te lo sai sicuramente meglio di me…
Questo potrebbe spiegare almeno in parte la poca presenza di fumetti di genere sportivo. Chiaramente la difficoltà principale è trasferire il dinamismo in un medium statico, sulla carta. Di sicuro ci sono sport più adatti al fumetto e altri meno. Il tennis credo che si presti abbastanza, se non altro perché a livello di inquadrature permette di lavorare molto su campo e controcampo, e sulla tavola si possono dispiegare in maniera abbastanza chiara le geometrie di uno scambio.
Resta il fatto che per fare un fumetto su uno sport bisogna conoscerne davvero bene le dinamiche di gioco, dal macro al micro. Non sai quante paranoie mi sia fatto sulla correttezza delle impugnature mentre disegnavo gli scambi.
Hai dedicato molte pagine alle partite giocate e ai colpi. In particolare nell’ultima parte, dove compare Federer, ho trovato molto interessante quando hai disegnato i colpi nel loro svolgersi, al “rallenty” diciamo. Quali sono state le difficoltà maggiori nel realizzare tutti gli scambi che hai raccontato e invece cosa hai trovato più semplice?
Sì, in realtà l’idea di realizzare alcune sequenze al “rallenty” o “alla De Luca” mi era venuta vedendo alcune gif e video su YouTube mentre mi documentavo. Ho subito associato quei video al fumetto, e pensato di creare qualcosa di simile.
La difficoltà maggiore è stata quella di dare una parvenza di realismo, specie perché uno scambio di gioco non è fatto solo dei momenti in cui si colpisce la palla, ma anche di quelli in cui la palla rimbalza, e in cui il tennista avversario si muove per preparasi all’impatto.
Se uno rilegge le sequenze di gioco con quest’occhio noterà che c’è sempre un ritmo delle vignette che alterna il momento dell’impatto a quello del rimbalzo, in una sequenza cadenzata. È una cosa di cui sono molto fiero, perché mi sembra che riesca a rendere su carta il tennis. La parte più facile e divertente invece è senz’altro stata quella di disegnare i colpi iconici dei vari giocatori: il rovescio di Federer, la risposta di Djokovic, il dritto uncinato di Nadal…
Dell’uso del colore, che è una parte fondamentale del tuo lavoro, cosa mi dici?
Inizialmente pensavo di fare tutto il fumetto con due colori, il rosa e l’azzurro. La scelta non era casuale, ma dettata dal fatto che spesso questi sono i colori dei campi indoor (quando non è il rosa e l’azzurro, è il grigio e l’azzurro, o il verde e l’azzurro…). Poi però, pensando a come distinguere i flashback dalla storyline delle partite, ho deciso di aggiungere un terzo colore, il giallo. A quel punto tutto ha acquisito naturalmente senso: avrei potuto avere tre linee narrative, ognuna con una coppia di colori (e relativo colore composto dalla sovrapposizione). Rosa e azzurro per il presente delle partite, rosa e giallo per i flashback, giallo e azzurro per tutti i commenti degli altri giocatori e degli addetti ai lavori. Nell’ultima sequenza i colori si riuniscono, per dare l’idea che tutto converga verso il finale.
E per quanto riguarda il disegno? Come hai lavorato?
Avevo chiaro che bisognasse sviluppare una qualche tecnica per rendere l’energia dei colpi e gli spostamenti, ma fare linee cinetiche tipo manga non faceva per me. In questo devo ringraziare molto l’illustratrice Elisa Talentino, che mi ha fatto per tutto il corso del fumetto da “editor pittorico-visuale”. L’idea è che il gesto della pennellata sporca, data con un pennello sfibrato, che lascia dei segni irregolari, può rendere il movimento tanto quanto delle linee cinetiche, e allo stesso tempo dare il colore alla vignetta. In pratica si è trattato di riempire un sacco di fogli di pennellate zozze realizzate con della grafite acquerellabile, scansionarle, selezionarle con l’intervallo colori e colorarle: così si sarebbe avuto allo stesso tempo il colore piatto e la texture della pennellata a segnare i movimenti.
Spiegami come hai scelto di inserire nel racconto due cose che esistono nella realtà e che sono centrali nella tua narrazione : il torneo di Marsiglia, dove si svolgono le partire, e Laurence Tieleman, l’allenatore di Idris.
La scelta del torneo di Marsiglia è stata dettata da due fattori: il primo è che a Marsiglia ci sono stato un paio di volte, quindi almeno un minimo avevo un’idea della città; il secondo, più tecnico, è che per la storia avevo bisogno di un torneo 250 (cioè la categoria più bassa di tornei ATP) e che quindi potesse essere partecipato, tramite wildcard, anche da un giocatore senza o con poca classifica, e che al contempo potesse avere tra i partecipanti anche i top player. Marsiglia capita in un periodo dell’anno (metà febbraio) senza eventi importanti, in cui i giocatori sono tornati in Europa dopo i tornei australiani, e abbondantemente prima dei tornei di marzo negli USA. Negli anni in effetti tutti i giocatori da me citati hanno realmente giocato a Marsiglia, che resta uno dei 250 più prestigiosi del circuito.
Per quanto riguarda Laurence Tieleman, invece, sono partito con un’idea: cerchiamo i giocatori, non famosi, che hanno un record positivo contro Federer. Li ho spulciati uno per uno, cercando di farmi ispirare dal nome e dalla carriera. Non volevo un giocatore troppo famoso o vincente. Volevo insomma come allenatore uno di quei giocatori di seconda fascia che tanto mi stanno a cuore. Lo stesso Tieleman non ha mai vinto un torneo ATP. Il fatto poi che sia italiano mi ha fatto pensare che fosse l’uomo giusto per la mia storia (che altrimenti sarebbe totalmente esterofila).
E ora domandone: Federer o Nadal?
Sono sempre stato Federeriano, forse anche per merito o colpa di David Foster Wallace, ma negli anni ho imparato ad apprezzare Nadal sempre di più, per il suo agonismo cannibale, la sua saggezza tattica e la capacità di evolvere il proprio gioco in funzione dell’età che avanza.
E di Murray e Djokovic che mi dici?
Djokovic, che pure è un giocatore mostruoso, anche solo per essere riuscito a farsi strada nel dualismo Federer/Nadal, imponendosi come terzo incomodo e anzi scalzandoli nei risultati, mi affascina soprattutto per una questione psicologica: a me pare evidente da una parte il suo desiderio di essere amato e riconosciuto come gli altri due, e dall’altra la consapevolezza che per quanto vinca non ce la farà mai a conquistare altrettanto il cuore dei tifosi.
Murray invece è da sempre il più umano dei quattro, e forse per questo anche il più interessante da ascoltare nelle interviste, e fuori dal campo. Forse non è un caso che questa umanità lo ha reso il meno vincente del quartetto.
Andando un pelo indietro, mi piacerebbe sapere la tua su Sampras e Agassi, visto che quest’ultimo compare nel libro (io ti dico Sampras, che quando ero più piccolo era il mio mito del tennis).
Anche io da piccolo ero affascinato dalle imprese di Sampras, di cui spesso mi parlava mio papà, perché, come poi Federer, aveva le stimmate del mito a carriera ancora in corso. Il suo servizio leggendario è una di quelle cose che intrigava anche chi di tennis non era strettamente appassionato.
Devo dire però, nelle mie ricerche recenti su YouTube, amando molto di più i giocatori di attacco, di essere rimasto stregato da poche cose come dalle volée di Edberg. L’eleganza e la precisione sono superiori anche a quelle di Federer (ma certo erano altri tempi, con un’altra velocità e potenza di gioco).
Tra i miei giocatori preferiti di sempre c’è Pat Rafter, non so se te lo ricordi, ma fece due o tre anni al massimo. Me lo ricordo quando dava spettacolo giocando sulla terra rossa un serve and volley estremo contro dei terraioli fatti e finiti. Arrivò perfino a essere numero uno, anche se per una sola settimana. Peccato che si sia ritirato molto giovane, a soli 28 anni.
Anche lui l’ho recuperato solo su YouTube, ma sì, un po’ l’ho visto.
Come hai lavorato alla costruzione della storia, che è intervallata da alcuni flashback e dalle interviste ad altri giocatori?
Può sembrare strano, visto che la trama non è lineare ma alterna appunto tre filoni narrativi, ma la storia si è scritta quasi da sola. Sapevo da subito che dovevo partire in medias res (per dare l’idea di quanto fosse incredibile e speciale l’idea che regge tutto il fumetto). Anzi, avevo proprio chiara la prima sequenza molto prima di avvicinarmi a uno storyboard, e poi il resto si è giustapposto naturalmente, sia nei flashback che negli interludi.
Ho dovuto chiarirmi da subito quante edizioni del torneo mostrare poi, una volta risolto questo punto è stata tutta una questione di alternare in maniera equilibrata le sequenze. Tanto che una volta scritto un soggetto esteso non ho quasi più spostato niente. La parte più difficile è stata quella dei flashback che mostrano gli allenamenti: si trattava di trovare ogni volta un escamotage per mostrare esercizi diversi, che si abbinassero però ai concetti “filosofici” che volevo raccontare sullo sport, senza risultare noiosi o ridondanti.
Pensi che in futuro tornerai ancora a raccontare una storia sul tennis?
A meno che non provenga da qualcuno una commissione “irrinunciabile”, credo di no. Più vado avanti più mi rendo conto che i fumetti sono per me anche un modo per liberarmi di un’ossessione, o per chiudere dei capitoli esistenziali: era stato così per Limoni, lo è anche ora per GOAT. Questo non vuol dire che smetterò di seguire il tennis, sia chiaro, però il tempo e l’attenzione che gli ho dedicato negli ultimi anni già so che sarà irripetibile, e GOAT rappresenta una sorta di sigillo in ceralacca su questo faldone.
Leggi anche: Sunday Page: Emanuele Rosso su Batman: Anno Uno
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