di Vanessa Maran
Un’estate senza mamma è il nuovo graphic novel del fumettista francese di origini italiane Grégory Panaccione, nonché il suo quarto fumetto muto, e rientra tra le novità di Renoir Comics presentate a Lucca Comics & Games 2019.
Pubblicato originariamente in Francia da Delcourt per la collana Shampooing curata da Lewis Trondheim, il fumetto racconta di una bambina francese che trascorre un’estate in Liguria insieme a persone che non conosce, notando fin da subito che la casa in cui viene ospitata è frequentata da strane creature… La piccola protagonista si ritroverà tra le mani un mistero da risolvere, tra pesci con le gambe e altri personaggi insoliti.
Abbiamo incontrato Panaccione per discutere con lui e farci raccontare questo suo nuovo lavoro.
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Come consideri Un’estate senza mamma rispetto ai tuoi libri precedenti?
Per me Un’estate senza mamma è una svolta nel mio lavoro personale e da autore completo perché, per la prima volta, ho provato a dare un po’ più di struttura alla storia. Se prendi Match, ad esempio, non c’è storia: è una partita di tennis. Avevo provato in Ame Perdue a creare una storia più strutturata, però secondo me sono rimasto molto vago su tante cose. In Un’estate senza mamma invece ho cercato di raccontare qualcosa di più costruito, con un inizio e una fine. Quando ho avuto le prime idee volevo addirittura fare una serie di storie: mi piaceva l’idea di creare una storia lunga sul modello di Conan il ragazzo del futuro di Miyazaki, però alla fine non ho avuto il coraggio.
Un’estate senza mamma è un fumetto muto, come altri tuoi graphic novel (Il mio amico Toby, Match). Come riesci a raccontare la storia e ad esprimere le emozioni e le intenzioni dei personaggi, senza l’uso di testo e di dialoghi?
Quando comincio a pensare ad un nuovo progetto non parto dalla storia, o meglio, inizio a creare la storia con i disegni, che è diverso dallo scrivere prima la sceneggiatura e poi vedere se funziona. Per me è abbastanza automatico mettere su carta le mie idee con cose visualizzabili, disegnandole direttamente. Poi cerco delle soluzioni alternative al testo. Ad esempio su Il mio amico Toby ho aggiunto nei balloon questi piccoli pittogrammi che avevo già fatto nella mia prima storia sulla rivista Animals, dove avevo inserito questi particolari perché mi facevano ridere. In Un’estate senza mamma ho messo qualcosa di simile quando non trovavo altre soluzioni. In questo fumetto sono solo i personaggi fantastici a parlare, e non dicono nemmeno cose interessanti, ma solo divertenti.
Di questo libro ho fatto una prima versione che era tutta con i dialoghi. Ho mandato questa versione all’editore, ma non gli piaceva, poi l’ho mostrata ad altri a cui non è piaciuta. Alla fine ho cambiato idea e ho rifatto tutto da capo, ma mi è servito per sperimentare i personaggi e per capire cosa volevo dire.
In Un’estate senza mamma hai inserito un fatto di cronaca. È stato quello a ispirare la storia, o la decisione di aggiungerlo è arrivata dopo?
All’inizio non pensavo di metterlo, ma vado spesso nella zona in cui è ambientato il fumetto e conoscevo da anni questo fatto di cronaca. Poi, mentre ancora facevo lo storyboard della prima versione, ho cominciato ad inserirlo e mi è sembrato logico rispetto a quello che volevo esprimere. L’ambientazione era già quella, con quella casa, quella spiaggia e quell’isola, che già avevo usato anni fa per il video di una canzone dello Zecchino d’Oro, Il ramarro con tre erre, dove c’è anche una bambina. Insomma, i primi spunti per questo libro li avevo trovati già da tempo.
Anche in Un’estate senza mamma ritroviamo dei personaggi presenti in altri tuoi fumetti, come Toby e il suo padrone. Come mai queste figure ricorrenti?
Credo sia una cosa inconscia, quando li disegno mi vengono facili (tranne quando devo disegnare il personaggio maschile in Chronosquad, dove è più magro). Penso sia una cosa naturale: quando ho trovato un personaggio che mi piace mi viene da rimetterlo in situazioni diverse. Non credo ci sia una logica voluta… È un po’ come quando un regista riprende spesso certi attori.
Per la parte più onirica e le creature che ne fanno parte, ti sei ispirato a qualcosa di particolare?
La storia che più mi ha ispirato è Il mio vicino Totoro di Miyazaki, che racconta di due bambine che arrivano in questa casa nuova e all’inizio tutto sembra realistico, poi però si aggiungono questi personaggi che appaiono quasi come fantasmi. Questo contrasto mi piaceva. Fin dall’inizio volevo che in Un’estate senza mamma ci fossero delle creature strane.
Un’estate senza mamma è il tuo secondo fumetto non a colori (il primo è Match). Come mai questa scelta?
Avevo voglia di usare il bianco e nero, ma soprattutto volevo fare dei disegni onirici, a doppia pagina, che non mi immaginavo a colori. Sono stato influenzato molto da Moebius in questa scelta, graficamente volevo ottenere qualcosa di simile a certe sue storie.
Quanto il tuo modo di fare fumetto è stato influenzato dall’esperienza come storyboarder? Ti ha aiutato?
Non sono molto bravo con i dialoghi, e poi quando devo creare una storia i disegni mi aiutano a stimolare l’immaginazione. Il fatto di non avere dialoghi mi aiuta a entrare in un mondo simile a un sogno. Poi certamente lo storyboard mi ha aiutato tantissimo, dopo 25 anni di esperienza ho imparato un sacco di cose. In quell’ambito le sceneggiature spesso erano brutte e dovevi comunque fare uno storyboard dinamico, quindi ho imparato a interpretare liberamente una sceneggiatura e a rendere dinamiche alcune sue parti quando era necessario.
Poi mi è servito tanto anche il montaggio. A volte curavo anche regie di serie animate e, quando arrivavano gli storyboard, era tutto un gioco di provare a cambiare l’ordine delle sequenze, tagliare dei pezzi o dei dialoghi… insomma, di trovare il modo di dinamizzare: quello mi è servito tantissimo. Anche il fatto di vedere e di fare un po’ di animazione ti aiuta molto a scomporre i movimenti dei personaggi, oltre che lavorare con stili molto diversi, dalle storie realistiche a quelle più cartoon.
C’è stato un momento, quando non eri ancora un fumettista, in cui hai visto gli storyboard di Miyazaki e a quel punto è cambiato qualcosa. Che cosa ti ha stupito?
Ho scoperto gli storyboard di Miyazaki negli anni Novanta. Era raro all’epoca trovarne e lo studio di animazione dove lavoravo ne aveva due perché aveva collaborato con il Giappone. In quegli anni trovavo sempre qualcosa di molto freddo e tecnico negli storyboard, come se l’anima dovesse arrivare dopo, ma guardando quelli di Miyazaki potevi già leggere la storia, entrarci dentro e provare un’emozione: i suoi avevano già l’anima. C’era già dentro tutto. Il disegno si focalizzava sulle emozioni dei personaggi e sul film che stava raccontando, non tanto sull’estetica del disegno, anche se era bello comunque. All’epoca, anche se facevo storyboard, non avevo più voglia di farne, ma vedere quelli di Miyazaki mi ha molto stimolato e mi ha fatto pensare: “Fare storyboard è un lavoro bello”.
In Un’estate senza mamma cosa hai voluto raccontare dell’infanzia?
Con questo libro ho voluto ricordare delle situazioni che avevo vissuto io quando venivo in Italia da piccolo. Sono francese di origini italiane e, da bambino, andavo a trovare i parenti in Italia durante l’estate. Non capivo niente di quello che dicevano, come accade alla protagonista di Un’estate senza mamma, e tutto era diverso. È strano, quando sei piccolo, trascorrere le vacanze con gente che non conosci: di solito inizia malissimo, ma poi diventa bellissimo.
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