di Sergio Brancato*
Che cos’è il Mito? E perché attribuiamo una qualità “mitica” ai personaggi più significativi nelle narrazioni e nella vita quotidiana della società, siano essi reali oppure frutto dei processi di elaborazione collettiva dell’immaginario? Sono due domande che appaiono centrali nell’economia del nostro discorso. Per trovare loro una risposta plausibile occorre, innanzi tutto, chiarire su cosa ci si stia realmente interrogando, a partire dal lessico adottato. Cominciamo proprio dal significato che attribuiamo al Mito.
Il termine che usiamo deriva dal greco mỳthos, che significa parola o racconto. E già qui cogliamo un aspetto fondamentale del Mito: ad esso, infatti, possiamo ricondurre la nascita della “parola” quale elemento di base della comunicazione orale e dei suoi “racconti”, dunque dello scambio organizzato di informazioni su cui si regolano i rapporti sociali e progredisce l’evoluzione della specie. Senza tirarla troppo per le lunghe, il Mito non è semplicemente un genere di racconto ma – per contro – il momento in cui si origina il racconto stesso, cioè quella pratica di scambio ininterrotto degli atti comunicativi tra individui su cui si fonda il processo di civilizzazione.
Come si nota, in questa prospettiva il Mito non è certamente un accessorio surrettizio o un semplice passatempo delle genti antiche. Potremmo dire, al contrario, che senza racconti non potremmo definirci “esseri umani”. E poiché noi siamo le storie che raccontiamo, in accordo con il medesimo assunto si può affermare che le nostre storie “ci” raccontano. Nel senso che parlano di noi, restituendoci la nostra immagine come uno specchio immateriale ma fedele, in grado di scavare a fondo nella sostanza intima della nostra umanità.
Ma non è tutto: sin dall’antichità più remota, il Mito è la narrazione che trasmette, di generazione in generazione, le gesta degli dei e degli eroi, ovvero delle figure “esemplari” che diffondono nello spazio e tramandano nel tempo un sistema culturale. Dunque il Mito è quel fondamentale dispositivo sociale che permette alle comunità di tenersi in equilibrio tra passato e futuro, fondando la stessa “stabilità” di ciò che chiamiamo presente attraverso l’istituzione di regole e norme che – lette in filigrana – ci fanno capire come sia tessuta quella rete di rapporti interpersonali che chiamiamo società.
A questo punto il lettore si chiederà perché, nell’ambito della riflessione su un personaggio del fumetto, ci si stia soffermando sulla natura del Mito. La risposta è perché quest’ultimo non riguarda soltanto il mondo antico e invece ci coinvolge profondamente, specie quando riflettiamo su un autentico fenomeno dell’immaginario quale è Tex. Il Mito giunge fino a noi dalla preistoria, ma rinnovandosi e attualizzandosi, così da incarnarsi in forme e narrazioni inedite che – tuttavia – rispondono alle medesime esigenze della tradizione: garantire continuità alla nostra esperienza, favorendo in tal modo la produzione della nostra identità storica.
Tutt’altra cosa che un relitto antropologico del passato, senza la persistenza funzionale dei miti non potremmo spiegarci determinati aspetti della modernità. È quanto coglie con straordinaria lucidità un intellettuale come Roland Barthes nel suo libro intitolato Miti d’oggi, in cui si interroga su una lunga serie di figure e di oggetti (dal cervello di Einstein al viso della Garbo, dalla Citroën DS all’abbinamento gastronomico – tanto caro a Tex – tra bistecca e patatine fritte) per rispondere alla domanda: all’apice della sua relazione ideologica con la tecnologia, l’uomo moderno ha ancora bisogno del Mito?
La risposta, se si vuole, l’abbiamo tra le mani proprio quando sfogliamo un qualsiasi albo di Tex. Nato nel 1948 dalla fervida fantasia di Gian Luigi Bonelli per i disegni di Aurelio Galeppini, il personaggio gianico di Tex Willer (dotato, al pari dei supereroi americani, di una doppia identità che gli fa condividere schizofrenicamente nel medesimo corpo la duplice natura del capo navajo Aquila della Notte e di un ranger del Nevada) dovrebbe apparirci – dopo un’attività di oltre settant’anni di servizio nei processi dell’immaginario – ormai anacronistico e poco efficace, al più destinato a un consumo di nicchia e alla rivisitazione nostalgica da parte di comunità più o meno ristrette formate da vecchi appassionati. Come è accaduto a tanti altri personaggi dei comics prima di lui.
E invece non è così: ancor oggi Tex è uno dei dispositivi seriali più consumati e di maggior successo nel nostro paese, uno dei pochi fumetti a possedere ancora un carattere quantitativo e qualitativo definibile “di massa”. La sua lunghissima narrazione seriale continua a dipanarsi mese dopo mese, coinvolgendo un pubblico che si rinnova, di generazione in generazione, passando di padre in figlio come una tradizione culturale in grado di reperire sempre i termini della propria attualità storica.
Come fa Tex a resistere ai processi di rapida obsolescenza che coinvolgono la parte maggioritaria dei processi dell’affabulazione collettiva? Proprio perché la sua modernità industriale è fondata sull’efficacia originaria del mito, sulla capacità di raccontare storie dall’architettura insieme elementare e complessa, racconti che permettono al suo pubblico di identificarsi in esso nella dimensione del proprio presente. Il sociologo Alberto Abruzzese sostiene, a tal riguardo, che Tex:
«…di per se stesso non è nostalgico. È un eroe strutturato sul presente e non sul passato. Sino a quando sopravvivrà la cultura che lo ha generato egli continuerà ad affermarsi come dispositivo “di sicurezza”, valore positivo per eccellenza. Servito dal suo gruppo e dai suoi antagonisti, Tex continua a essere “agguerrito”, cioè adattabile all’immagine di conflitto che ancora ci guida.» (Alberto Abruzzese, Né con lo Stato né con gli Apaches. La “linea” Tex Willer, in AA.VV., Eroi del nostro tempo, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 104-105)
Tex è dunque costruito con le sostanze basiche del mito, fino a divenire mito esso stesso. Ma si tratta comunque di un mito d’oggi, per dirla alla Barthes, e per questo ancora più vicino a noi e alla nostra necessità di reperire i significati della partecipazione alla vita sociale dentro “trame” in grado di illustrare – a voler leggere l’alfabeto del rimosso – quanto si muove sotto la pelle della società, nel cuore dei conflitti di culture che la animano. In breve, a volerlo leggere Tex racconta qualcosa di più che le proprie “semplici” avventure.
Se questa ipotesi ci appare plausibile, Tex Willer (con il suo gruppo “familiare” composto da personaggi in grado di assumere in sé ruoli e funzioni dell’organizzazione sociale) è forse l’esempio più chiaro di quanto il mito serva alla vita quotidiana, soprattutto nell’orizzonte culturale della società di massa. Questo eroe nasce nell’Italia del dopoguerra, in apparenza dando corpo alle istanze di “evasione” dei propri consumatori da una realtà difficile quale quella della ricostruzione di un paese devastato dalla dittatura e dalla guerra. Lo spazio e il tempo che individua sono quelli del western, il genere narrativo che fonda l’epica della moderna nazione americana, dunque collocandosi in un passato ancora assai recente animato dal conflitto fra tradizione e innovazione, tra neolitico e mondo industriale. Del resto, come si accennava in precedenza, l’identità di Tex è consapevolmente sospesa tra antico e moderno: cos’è il dualismo Tex/Aquila della Notte se non la compresenza, in qualche misura perfino la “pacificazione”, tra l’America precolombiana e il colonialismo europeo?
Il mistero della lunga (e in principio anche imprevista) vita immaginaria di Tex si riconduce, dunque, alla sua configurazione mitologica. Pensiamoci bene: Tex appare subito in evidenza nella prima vignetta de Il totem misterioso, dentro uno di quegli albetti in formato striscia che sopperivano alla carenza di carta nel dopoguerra. Eppure, sebbene costretto in uno spazio semiotico in apparenza limitato, Tex si dispiega e squaderna subito in una dimensione molto più allargata dell’immaginario, sollecitando la complicità del lettore-spettatore a riconoscere la partitura cinematografica soggiacente la forma del fumetto, ma anche la complessa architettura letteraria che ne orchestra la trama. Come in tutta la vasta produzione di Gian Luigi Bonelli, c’è parecchio Dumas in Tex e, di conseguenza, ritroviamo nelle seducenti figurine del fumetto anche il riverbero del mito che ha nutrito la letteratura di massa dell’Ottocento, di cui l’autore de Il conte di Montecristo costituisce un nobilissimo esempio.
Fin dal suo esordio, la cifra espressiva di Tex si addensa e rende palese nei grandi temi dell’immaginazione collettiva: l’intrigo, il sopruso, la seduzione, la minaccia, la vendetta, il superomismo, la ritualità del sangue nei codici della violenza. Ma anche il rapporto con l’altro da sé che ridefinisce e completa la propria identità (è il caso del suo “fatale” incontro con Lilith), la dialettica dell’amicizia, il sentimento dell’ordine e del dovere in contrapposizione alla natura caotica del mondo. Iscritto sin dall’inizio nel perimetro del conflitto tra individuo e comunità, Tex si conferma quale formidabile dispositivo di produzione del senso moderno della società, di cui incamera contraddizioni e limiti, ma anche aspirazioni e inquietudini.
Alcuni cicli narrativi della serie di Tex restituiscono al meglio questi meccanismi basilari del personaggio. Non è un caso se le avventure che vedono coinvolti, a puro titolo d’esempio, antagonisti quali Mefisto o Yama siano quelle che maggiormente coinvolgono il pubblico in una partecipazione patica al testo, fissandosi come autentici archetipi seriali. Spesso, questi cicli dotati di maggiore “iconicità” risultano basati sullo scontro tra l’eroe e grand villain dotati di caratteri estremi, posti al limite – verrebbe da dire alla “frontiera” – con le convenzioni narratologiche e iconologiche del western. Ma questa conflittualità strutturale fra Tex e l’ortodossia del genere di riferimento non è nuova e non ha mai costituito un problema, sia per i suoi artefici che per i suoi consumatori.
Al contrario, l’apertura del western verso altri generi con cui ibridarsi propongono Tex come qualcosa di diverso dall’ennesimo interprete dell’epica della Frontiera, individuandolo per contro quale “macchina desiderante” preposta alla riscrittura di ogni topos dell’immaginario novecentesco. L’attitudine a ibridarsi con narrazioni “altre” rispetto alle canoniche mitografie del West lo porta a muoversi trasversalmente rispetto al sistema dei generi di massa, anticipando così le strategie di media quali la televisione nella ridefinizione della cultura pop di fine secolo.
Altri cicli, come quello conosciuto con il titolo generale La cella della morte e iniziato con il capitolo intitolato Il grande intrigo, contenuto nei numeri dal 141 al 145 del 1972, pur non presentando straordinarie anomalie o forzature in termini di pertinenza ai codici del western, costituiscono momenti rilevanti nel processo di costruzione collettiva del personaggio e dei suoi modelli narrativi seriali. Questo ciclo in particolare, della durata di oltre cinquecento pagine, è uno dei più lunghi e complessi nel quadro della grande narrazione di Tex, nonché tra i più nevralgici nella ridefinizione del suo immaginario.
Il pubblico dei lettori tende oggi a ricordarlo come uno dei più riusciti e, in qualche modo, tra i più prossimi a un’idea di “classicità” del personaggio. Come sottolinea anche Luca Barbieri nell’ampia e articolata introduzione a una delle numerose riedizioni in volume del ciclo (quella pubblicata da Sergio Bonelli Editore nel 2019), al suo centro ritroviamo il grande tema dumasiano della detenzione conseguente un’ingiusta condanna, con la conseguente vendetta contro gli autori della macchinazione che ha colpito l’eroe.
Mai come in questa storia, il sentimento-guida del racconto è la ricerca della vendetta di Tex contro i suoi ignoti persecutori, i diabolici criminali che hanno organizzato la trappola – letteralmente rocambolesca – in cui è caduto. Imprigionato alla tavola 24 (img 1), il ranger evade solo a tavola 363 (img. 2), trascorrendo il tempo tra la cella dell’ufficio dello sceriffo di Gallup e il terribile carcere di Vicksburg, dove subisce – e qui scorgiamo la forte influenza del western crepuscolare di Sergio Leone e Sam Peckinpah – indicibili vessazioni e torture che lo portano a un passo dal cedimento fisico (ma mai mettono in crisi la sua fibra morale, letteralmente inscalfibile).
Il suo obiettivo è quello di uscire per vendicare il proprio onore oltraggiato e salvare la riserva dei Navajos dalle mire dei cattivi capitalisti che, sostenuti da politici corrotti e da bande di autentici criminali, tentando di mettere le mani sulle ricchezze minerarie dei nativi americani. Cosa che, come il suo ruolo eroico e le strategie della serialità inevitabilmente gli impongono, riuscirà a fare.
Come si può vedere, l’intreccio di fondo della saga è lineare e non presenta eccessive variazioni su un tema già ampiamente frequentato dalle narrazioni dell’industria culturale (basti pensare alla fondamentale pellicola Io sono un evaso, diretta da Mervyn LeRoy e interpretata da Paul Muni nel 1932). A cosa va allora ricondotta la sua persistente fortuna tra gli appassionati di Tex? Due sono gli aspetti da sottolineare. Il primo è la prova d’autore di Bonelli e del disegnatore Erio Nicolò nella costruzione del testo. Il secondo è invece proprio l’elementarità del canovaccio. Attenzione, però, poiché qui l’uso del termine “elementare” non coincide né con “semplice”, né – tanto meno – con “banale”. Riportandoci, piuttosto, a quanto si sosteneva in precedenza sull’efficienza delle strutture narrative del Mito.
Ma partiamo dagli autori. Sebbene inseriti entrambi in un ciclo produttivo in apparenza industriale o super-artigianale come quello di una casa editrice già avviata a conquistare una stabile egemonia nel mercato nazionale dei comics, in realtà il contributo di Bonelli e Nicolò appare qui dotato di alcuni elementi in dissonanza rispetto agli standard consueti della serie. In primis, la scelta di diramare il plot su un arco tensivo così dilatato dimostra, da parte di Bonelli, l’intento di esplorare più a fondo i margini della serialità su cui si è evoluto il proprio personaggio. La complessità del testo si fa quasi romanzesca, aprendosi a svolte e diramazioni tipiche del racconto popolare proteso verso lo sviluppo televisivo: Tex si aggiorna e ha dunque bisogno di maggior respiro per articolare le proprie trame.
Supportato dal disegno di Nicolò, sempre funzionale alla narrazione e – al contempo – evocativo nei riguardi della memoria del lettore, Bonelli si conferma autentico mitografo del nostro immaginario allestendo una “catena” di eventi tra loro perfettamente orchestrati, volta a implementare di volta in volta la suspense nella progressione verso lo scioglimento finale della trama. Va inoltre ricordato che proprio in questa storia si possono notare per la prima volta molti interventi di Francesco Gamba (soprattutto sul numero 144), che, non accreditato, collaborerà spesso con Nicolò, talvolta inchiostrando le matite del collega o completando da solo intere tavole a cui Nicolò aggiunge le teste dei personaggi.
Ritorna utile, a questo punto della nostra riflessione, riagganciarci al discorso iniziale sulla natura del mito in relazione alla cultura di massa: ne La cella della morte Tex viene raccontato in perfetta assonanza con il proprio codice consueto – quello del grande risolutore di conflitti, tipico del superomismo morale ottocentesco alla Eugene Sue – eppure riesce nello stesso tempo a offrirsi in una forma rinnovata, sottilmente protesa verso la rinegoziazione con il pubblico dei suoi codici seriali.
All’interno della propria stabilità “mitica”, Tex si riforma incessantemente. È quanto possiamo leggere oggi in una saga quale La cella della morte, non a caso assurta al rango di “classico” del fumetto. Certo, esiste la complessità di una narrazione che illustra le pulsioni profonde di una società – quella italiana dei primi anni Settanta – lacerata dai conflitti ideologici ereditati dalla prima metà del secolo XX. Una società che vive, proprio in quell’epoca, sulla faglia di un cambiamento violento della propria organizzazione politica: Bonelli e Nicolò rendono il loro fumetto lo specchio del clima di quegli anni, in cui il mood della corruzione politica assume caratteri quasi cronachistici e davvero anomali in una grande narrazione di massa.
Tuttavia sarebbe banale ridurre l’analisi de La cella della morte ai contenuti più espliciti ed eclatanti del testo: più che a una situazione contingente, in questa saga reperiamo il conflitto inesausto le istanze dell’uomo-massa e le strategie della società burocratizzata, un conflitto in costante quanto ambiguo equilibrio tra l’aspirazione alla giustizia sociale e la logica statalista della forza. Si tratta di un grande nodo teorico sempre presente in Tex, eppure mai sciolto da nessuno dei suoi storyteller. Conteso tra autoritarismo e liberalismo, il personaggio di Bonelli appare irriducibile a entrambi i filoni del pensiero politico moderno, proponendosi come sua contraddizione funzionale. Ma la stessa modernità, com’è noto, si fonda sull’intreccio sistematico delle proprie contraddizioni.
E contraddittorio potrebbe apparire, sul piano della costruzione della forma espressiva di questo fumetto, anche lo stile di Erio Nicolò, che – come è nella vocazione di questo importante autore grafico – riprende la tradizione figurativa antecedente la riproducibilità tecnica per tradurla in un’estetica seriale dal grande fascino. Mai sopra le righe, sempre proteso verso l’idea “discreta” di un’immagine che non si spettacolarizza mai fino a sovrastare le funzioni della scrittura, Nicolò è stato protagonista esemplare di un modello di fumetto insieme popolare e moderno, dunque autenticamente “di massa”, specie nella misura in cui definisce i termini di uno standard qualitativo sempre elevato.
Anche nelle figurazioni de La cella della morte ritroviamo quella classicità desunta da un’idea di gusto cui ha certamente concorso la sua attività di restauratore nel dopoguerra delle tavole del Flash Gordon di Alex Raymond per Nerbini e quella di disegnatore nei primi anni Cinquanta per la serie di Chiomadoro. Attraverso il “magistero a distanza” di un maestro come Raymond, probabilmente, affina la sua attitudine al recupero del disegno manierista, l’attenzione plastica all’equilibrio tra “figura” e “movimento”. Di quella cultura del fumetto gli resta anche il gusto per la metafora (esemplare, a tavola 5, la vignetta in cui un ragno che tesse la tela racconta la natura del complotto in atto contro Tex), (img 03) sempre finalizzata al dialogo con il lettore.
Pur operando nei territori della riproducibilità tecnica dell’illustrazione, nella grande padronanza del segno Erio Nicolò formalizza un’estetica che fonde tra loro l’iconicità del grande cinema di John Ford e di Howard Hawks, la tradizione del fumetto naturalistico più sofisticato, le derive della storia dell’arte nelle comunicazioni di massa. Da questo lavoro di missaggio sulle arti visive, all’interno di una ricerca formale rigorosa, nasce l’importante contributo di Nicolò al linguaggio dei comics. Un contributo che trova ne La cella della morte forse il suo punto più elevato e uno dei motivi per cui Tex si conferma snodo fondamentale nella mitopoiesi della cultura di massa.
*Questo articolo è tratto dal volume L’arte di Erio Nicolò, pubblicato da Allagalla in occasione dei 100 anni dalla nascita dell’autore, che comprende saggi di Antonio Faeti, Roberto Guarino, Matteo Pollone, Gianni Milone, Roy Felmang, Ferruccio Giromini, Graziano Frediani, Luca Boschi, Arcangelo Stigliani, Giuseppe Pollicelli, Gianni Brunoro, Sergio Brancato, Giulio Cesare Cuccolini, Stefano Priarone, Antonio Mondillo, Claudio Dell’Orso, Claudio Nizzi, Sergio Bonelli, oltre a un’esaustiva bibliografia dei lavori.
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