Le vignette di Altan sono come una scure, calano implacabili fino a terra senza farsi fermare da niente. Il suo autore, invece, ha una voce dimessa ed è noto per i modi serafici. Sergio Staino racconta di una volta in cui rispose al figlio, che voleva dei rubinetti in oro massiccio, con una lunga sequela di improperi; Altan, messo di fronte alla stessa situazione per scherzo, disse solo: «piccoli, spero».
Presente a Lucca Comics & Games per promuovere Uomini ma straordinari (Coconino Press), la riedizione delle dissacranti storie realizzate negli anni Settanta con protagonisti alcuni tra i santini della cultura italiana (Colombo, San Francesco, Casanova), Altan è stato cittadino del mondo, trascorrendo molti anni in Brasile, dove ha conosciuto la moglie Mara, e poi in varie città italiane.
Creatore di Trino, Ada, Cipputi, Kamillo Kromo e dell’arcinota Pimpa, ha vissuto molte vite e preso tante strade diverse: i fumetti, le vignette, il lavoro come scenografo, quello per l’infanzia, l’animazione, la passione per la bici – che lo portò nel 2001 ad attraversare i Balcani insieme al giornalista Paolo Rumiz ed Emilio Rigatti. Giocoforza, per questa intervista con Altan io ne ho scelta una e abbiamo discusso della creatività e fatica di fare quei fumetti che la distanza del tempo ha reso come i rubinetti di Staino, d’oro massiccio.
Ricorda quando ha iniziato a disegnare?
Disegnavo molto, fino da quando ero piccolo. Le prime cose che ho pubblicato erano sul giornale del liceo (classico, a Bologna), vignette e disegni. Quello l’ho sempre fatto e ho continuato a farlo anche dopo, finché è diventato il lavoro che sto facendo da quantacinque anni.
È una cosa che è arrivata naturalmente o l’ha cercata?
No, ho fatto poche scelte veramente decise nella mia vita. Disegnavo per gli amici e i compagni di scuola, facevo storielline senza alcun pensiero verso la pubblicazione. Non pensavo potesse diventare un lavoro. Poi, pian piano, qualcuno mi ha detto di far vedere i miei lavori a qualcun altro e le cose sono successe, ecco.
E non ha mai pensato che potesse svanire come professione?
No, perché appunto non la pensavo come professione. Dopo il liceo ho fatto architettura a Venezia, che non ho concluso, e lì ho cominciato a disegnare in maniera più metodica. Avevo visto i fumetti di Jules Feiffer che mi avevano molto colpito e mi ero detto «provo anch’io a fare una cosa del genere». Stavo ancora facendo la facoltà a Venezia ci fu una prima pubblicazione, le illustrazioni per Il libro degli snob del duca di Bedford, perché uno aveva visto quello che faceva e mi aveva messo in contatto con l’editore… Insomma, cose così. E da lì in poi ho cominciato a fare più lavori ed è diventata una vera professione.
Feiffer ha una linea ballerina, il suo invece è un segno solido, ancorato, rotondo.
Il disegno di Feiffer mi piaceva, mi piaceva molto di più il fatto che i suoi personaggi non parlassero granché fra di loro, ma parlassero soprattutto con chi li stava leggendo, che poi è quello che mi è rimasto addosso, la comunicazione verso il lettore.
Uno dei suoi segnali di stile più forte sono proprio queste scritte in calce in cui lei parla sopra la storia…
Sì, faccio un commento sopra le stesse cose che ho scritto.
Ed è una cosa molto peculiare, perché scavalca se stesso, in un certo senso.
Ho l’impressione che all’inizio fosse una maniera di dire «Non prendete sul serio quello che sto facendo». Perché il mio primo fumetto Colombo, non avevo nessuna preparazione tecnica. Ci ho provato e forse volevo mettere le mani avanti. Pian pianino questo commento è passato a essere un accompagnamento quasi musicale.
Infatti la lettura di quei fumetti procede molto ritmata. Leggere le vignette e poi i commenti diventa come giocare una partita a tennis. Come trovava i punti giusti in cui intervenire?
È come se io mi estraniassi dalla storia in quel momento. E se i personaggi in scena dicevano una cosa o facevano qualcosa che mi suggeriva un intervento io entravo nella narrazione. Anche i rumori e tutte queste cose che normalmente stanno dentro la vignetta, i «bang!», gli «swiiiss!», io li mettevo sotto perché era una maniera di prendere una certa distanza.
Ha sempre avuto quell’intento lì, quindi?
No, poi è diventato un gioco che mi piaceva fare e che facevo il più possibile.
Un altro tratto distintivo, in Colombo e Casanova per esempio, sono le bellissime panoramiche che sembrano muoversi lateralmente, sempre piene di cose. Il suo modo di disegnare si è stabilizzato fin da subito.
È uscito un po’ così. Non avendo frequentato una scuola, non avendo avuto particolari preparazioni al fumetto, improvvisavo le cose mentre le facevo. Non sento mai di aver fatto fatica a disegnare. Ho sempre fatto una matita molto sommaria quando lavoro, che mi serve solo per gli ingombri dei testi ma poi la gran parte del lavoro è fatta direttamente.
Probabilmente l’unica differenza che vedo tra le primissime cose e quelle successive è che all’inizio siccome mi faceva strano che mi pagassero per quei lavori mi sembrava doveroso riempire le tavole con quelle panoramiche piene di roba. Credo che con una pagina di Colombo se ne potrebbero fare sei o sette, oggi. Però all’epoca mi sentivo in obbligo, visto che mi davano dei soldi, a offrire qualcosa in cambio, che li valesse. Poi ho cominciato a diradare, anche se non più di tanto. Perché le storie restano fitte di flashback, per cui c’era bisogno di quadretti per far capire l’ambientazione. Inoltre, la misura del capitolo di Linus e Alterlinus era fissa, otto-dieci pagine al mese. E io volevo chiudere il capitolo, mi piaceva che ogni episodio arrivasse a un punto fisso, perciò riempivo le pagine di queste vedute.
Uomini ma straordinari raccoglie proprio quelle storie, in un formato più grande.
Il nuovo supporto consente una lettura delle mie storie che sono sempre state difficilmente leggibili nei precedenti formati, perché, appunto, riempivo molto.
Come ha cercato quegli uomini?
Quello era un periodo in cui la dissacrazione e l’andare contro tutto era il pane quotidiano, per cui andare contro dei personaggi che venivano considerati degli intoccabili, perché fanno parte della nostra Storia, come Colombo e San Francesco, era uno stimolo abbastanza forte. In più, mi era capitato di leggere, a proposito di Colombo, una pagina del suo diario – che poi ho inserito nel fumetto – in cui si raccontava che i primi tre-quattro giorno del viaggio i marinai andavano a chiedere quanta strada avessero fatto e lui, se ne avevano fatta cento, diceva venti perché aveva paura che questi vigliaccamente volessero tornare a casa. Questo fu il primo spunto. Ho preso tutti i luoghi comune della Storia, cercando di ribaltarli e aggiungerci cose. In più, in Colombo c’era la visione dell’Altro, di quelli che venivano invasi dai navigatori, che offrivano dunque un altro punto di vista.
E San Francesco?
Su di lui lessi un bel po’ di roba. Anche le biografie più agiografiche lasciavano intravedere degli spiragli interessanti. Il richiamo di Dio proprio la prima sera con i Lanzichenecchi mi fece sospettare che ci fosse qualcosa non andava. Chissà che cose terribili gli devono aver raccontato. Poi ci sono episodi come il dissidio col padre che si prestava a una lettura sessantottina.
Non è mai stato uno che parlava direttamente dei soggetti che trattava. Anche nelle vignette, a parte Craxi o Berlusconi.
Quelli ingombrantissimi, diciamo.
Esatto. Lei rivolgeva lo sguardo verso chi queste persone le aveva elette, qui invece è andato nel personale, diciamo.
L’intenzione politica esplicita non c’era. Erano tempi in cui qualsiasi cosa uno dicesse si caricava comunque di una qualche valenza politica, ma non mi interessava in quel momento usare quelle storie in quel senso lì. Forse c’è qualche commento che ora non ho ben presente, ma in quel periodo ho cominciato a fare le vignette e la politica venne dirottata lì.
E lei personalmente che idea si faceva di questi uomini, nel momento in cui li raccontava?
Erano delle maschere da ribaltare e con cui ribaltare una certa visione, nitida, da libro di storia. Tecnicamente sono parodie, non intese per far ridere però, ma per proporre un punto di vista diverso su storie che ci vengono raccontate fin da piccoli. Ci raccontano che l’incontro di Colombo con la regina Isabella avviene in un palazzo di marmo pulitissimo, mentre nel fumetto c’è la sporcizia che poi è la stessa che c’era in quei secoli. Giocavo con questi ribaltamenti di visione.
Le ha rilette? O verso quei lavori tiene una certa distanza?
No, mi capita, magari non tutte dall’inizio alla fine. Di solito ho anche qualche piccola sorpresa perché erano lavori che facevo con un altro tipo di energia e coinvolgimento. Adesso un po’ mi sorprendono.
Le sorprende la qualità o la quantità del lavoro?
In qualche scenetta, anche la qualità, sì.
Ritiene che fosse la sua produzione migliore?
Io ho fatto otto, nove, storie lunghe. Poi non ce l’ho fatta più, perché era troppo faticoso. Per cui è un capitolo che considero chiuso, ho continuato con le vignette e tutto il lavoro della Pimpa, che sono anche quelli fumetti – quindi continuo a farli anche adesso, però è un’altra cosa. È una parte che io amo abbastanza di tutto il lavoro che ho fatto, ma sta là.
Lo sente distante perché non ha più l’energia oppure l’inventiva… No, non l’inventiva, però…
No, no, dì pure anche l’inventiva, perché l’inventiva vuol dire sforzo. Quando disegnavo quei fumetti e avevo un capitolo da chiudere, per quindici giorni al mese mi immergevo lì dentro e mi svegliavo alla mattina trovando delle soluzioni alla storia che la sera prima non avevo avuto. In questo senso era un coinvolgimento molto forte. Oltre alle energie c’è bisogno anche del tempo.
Lei è appassionato di bici. Ha fatto libro con Paolo Rumiz, Tre uomini in bicicletta, in cui raccontava le traversate in bici. Non era estraneo allo sforzo.
Sono sforzi completamente diversi. Il fumetto non è questione di forza, è questione di testa. La bicicletta ti obbliga allo sforzo fisico ma ti lascia la testa libera, completamente vuota. È proprio il contrario. Era un lavoro che facevo restando sveglio fino alle quattro-cinque del mattino, seduto in un posto, fermo, con la testa che pedalava.
Rumiz la descrive come una persona silenziosa che però in bici lasciava trasparire un certo lavoro mentale. Scrisse: «Parla poco, è un ruminante del pedale. Ma le idee per i suoi disegni gli vengono a bordo di questo fantastico miscelatore di pensieri che è la doppia ruota che va».
Sì, ma Paolo Rumiz è uno che si inventa un sacco di cose. È un bravissimo giornalista, ma non bisogna fidarsi fino in fondo.
Non usava la bici per farsi venire le idee?
Qualche idea veniva, perché pedalando la testa girovaga, ma non erano idee finalizzate a uno scopo.
Oltre alla Pimpa ha realizzato anche altri fumetti per bambini, come Kamillo Kromo, che tra l’altro è stato realizzato nello stesso anno della Pimpa e Cipputi, il 1975…
È stato un anno fertile.
Però rispetto al resto della sua produzione per l’infanzia, la Pimpa ha avuto un peso diverso. Se ne spiega il motivo del successo?
È molto semplice: la Pimpa l’ho fatta per mia figlia. Non avevo mai fatto nulla per i bambini prima. È venuta fuori giocando, disegnando con lei, senza un progetto. Osservavo come si comportava con il mondo e mi facevo ispirare. Piccoli atteggiamenti, per esempio: sbatteva contro la sedia e diceva che la sedia era cattiva. L’ho fatto per mia figlia e poi ho continuato per la figlia di mia figlia, la mia nipotina Olivia, che adesso non è più una lettrice della Pimpa perché è grande. Queste due attività hanno sempre convissuto bene senza mai travasarsi l’una dell’altra
L’amore come forma d’ispirazione più alta.
Sì, uno trova quella così e se si accorge di averla trovata è a posto.
Però ha lavorato molto con forme produttive che non aspettano la creatività delle persone. La Pimpa o le vignette reclamano con costanza nuovo materiale.
Sicuramente. Di storie della Pimpa ne ho fatte mille e cinquanta, circa, vuol dire un bel po’ di pagine, se consideri che ogni storia ha quattro pagine. Lì conta avere l’idea e trovarsi in quello spirito, però c’è anche mestiere. Uno impara a farsi venire le idee, a trovare le soluzioni. In quarantacinque anni un po’ di mestiere te lo crei. All’inizio le idee venivano da sole, non era un problema.
E come trova queste soluzioni?
Il fatto di lavorare per giornali e riviste, che hanno delle scadenze, ti costringe a stare attento e a non perderti. Devi sempre avere una storia di salvezza, una rete di sicurezza, nel caso ti venisse il blocco dello scrittore, sennò non esce il capitolo successivo. Devi prenderti avanti, proteggerti. Obblighi te stesso a un esercizio di continuità che tiene aperto il flusso delle idee.
Lei è stato un cittadino del mondo, perché ha vissuto in molti luoghi diversi, tra cui il Brasile. L’ambiente che si ha attorno modifica il lavoro?
Credo di sì. Per esempio, la Pimpa è nata in Brasile perché mia figlia è nata lì. Io ho collaborato con le persone e gli editori a Rio e tutti – anche i cittadini comuni – sono dei battutari fantastici. E soprattutto sono capaci di quella sintesi che è fondamentale per questo lavoro e credo di aver imparato parecchio stando lì. In più, i colori e le forme delle storie della Pimpa vengono da lì.
Di recente ha realizzato un fumetto che uscirà nella collana Fumetti nei musei, sempre per Coconino.
Quando me l’hanno proposto sono andato a spulciare i possibili luoghi. Ho trovato Sirmione, che era abbastanza vicino a casa mia – perché anche quello è importante. Ho trovato, leggendo qualcosina, che c’era una leggenda che riguardava il Castello Scaligero. L’ho fatto volentieri, ma è una piccola storia.
Le è sembrato di tornare a quando disegnava Colombo e le altre storie?
Il piacere di rifare quel tipo di lavoro, sì. Ma, appunto, è una storia di, non so, una ventina di pagine. Quelle le posso ancora affrontare. Posso fare una sonatina, non una sinfonia. Quelle vecchie erano delle sinfonie, delle opere.
Le verrebbe voglia di tornare a fare quel tipo di fumetto, magari con una produzione più moderata?
Un pensiero mi viene, ma poi mi accorgo che mi infilerei in un ginepraio e desisto.
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