Gotham (o New York), 1981. Arthur Fleck, un clown fallito con ambizioni da stand-up comedian e perseguitato da problemi mentali inizia la sua personale discesa all’inferno che lo porterà a diventare uno dei più iconici villain di tutti i tempi: il Joker.
Premiato – abbastanza incomprensibilmente, vista la modesta qualità della pellicola – con il Leone d’oro durante l’ultima edizione del Festival del cinema di Venezia, il film Joker diretto da Todd Phillips si è conquistato un’immagine insolita: è diventato quello che potremmo chiamare il “graphic novel dei cinecomics”.
Joker, purtroppo, non è così interessante come molti speravano (o hanno creduto), per i motivi che spiegherò più sotto. Così come l’etichetta editoriale “graphic novel” è riuscita a portare i fumetti all’attenzione dei consumatori di varia e dell’élite intellettuale Joker, per quanto riguarda il cinema, ha fatto varcare ai film tratti dai fumetti – e in particolar modo da quelli di supereroi – i cancelli dei grandi festival cinematografici tradizionalmente “snob” verso questo genere di prodotto.
Un cinecomic “diverso”?
Eppure non ci si illuda: l’atteggiamento verso il materiale di partenza non è cambiato. L’affermazione del regista Paolo Virzì, giurato del festival («È molto più di un cinecomic, è anche una lettera d’amore al cinema, in particolare con gli omaggi a Taxi Driver e Re per una notte») riecheggia molte altre riguardanti il fumetto. Fra le tante quella della giornalista Concita De Gregorio di qualche tempo fa, per cui i graphic novel sono qualcosa di “altro”, di diverso, di migliore, rispetto al fumetto.
La dichiarazione di Virzì rivela, in poche parole, diverse altre cose, come in una vertigine escheriana. «È molto più di un cinecomic» altro non vuol dire che questi, rispetto a un certo tipo di cinema, non di intrattenimento, sono altra cosa. E sono altra cosa, probabilmente, proprio in conseguenza del loro, povero, materiale di partenza: i fumetti.
Joker è un oggetto altro, inoltre, perché omaggia Taxi Driver e Re per una notte, e questo feticismo nostalgico per un passato forse irrecuperabile ci dice anche molto sulla considerazione che questo regista, ed altri come lui, hanno del cinema contemporaneo. Insomma, queste parole sembrano volerci comunicare che se il mondo vuole questi film, questi cinecomics, almeno premiamone uno che ci strizza l’occhio, che ci ricorda qualcosa cui siamo abituati.
Rispetto ai film di supereroi, d’altra parte, il nucleo della questione è sempre terminologico. Ogni volta che si ha bisogno di creare una tassonomia precisa si traccia un confine che, molto spesso, è qualitativo. Non esiste un termine altrettanto popolare di cinecomic per indicare le trasposizioni cinematografiche di romanzi, perché in questo caso ci si muove dall’alto, dal nobile (il romanzo) al basso, al popolare (il film) a prescindere dalla qualità dei singoli soggetti.
Esiste invece un termine – novelization – per indicare le trasposizioni letterarie, o più spesso sequel letterari, di opere cinematografiche, perché quest’ultime, solitamente, vengono considerate di mediocre qualità. Ciò nonostante, in diversi casi, grandi autori si sono prestati – a volte per ragioni prettamente alimentari – a operazioni di questo tipo. È il caso di Arthur C. Clarke per 2001: Odissea nello spazio e di Robert Sheckley per quanto riguarda l’universo di Alien. Insomma, in sintesi, anche se il termine cinecomic letteralmente sta ad indicare film tratti dai fumetti, nell’uso si riferisce ai film ad alto budget di supereroi. Quasi nessuno si sognerebbe di utilizzarlo per indicare titoli realizzati da cosiddetti “autori” come Era mio padre o Snowpiercer, sebbene anch’essi tratti da fumetti.
Sia chiaro, la maggior parte degli adattamenti cinematografici di fumetti supereroistici (confesso il mio amore per James Gunn) è davvero poca cosa. E Joker non fa eccezione.
Un film di (poca) sostanza
Al di là del davvero enorme hype che ha preceduto l’uscita del film – un plauso all’ufficio marketing – il film di Phillips, nonostante qualche buona idea, manca di una visione cinematografica propria. E si regge esclusivamente sulle spalle del ‘nostalgismo’ e della davvero impressionante, questa sì, performance di Joaquin Phoenix, che pure si è trovato a doversi confrontare con precedenti illustri come Jack Nicholson e Heath Ledger.
La dipendenza di Phillips da Phoenix è così evidente che il protagonista resta fuori dall’occhio della macchina da presa solo per una manciata di inquadrature. Occupate queste, in compenso, da De Niro, attore feticcio di Martin Scorsese, delle cui pellicole Joker è, come si diceva, un lungo omaggio (che però, e va detto, perde decisamente la sfida con l’originale).
Phillips sembra più interessato a creare un’icona che a raccontare la storia e, probabilmente conscio di questa mancanza, si aggrappa disperatamente ad altro:
- alla cronaca: il riferimento, prudentemente svestito di ogni connotazione razzista, è alla sparatoria avvenuta a New York nel 1984 (del resto la pellicola è una storia di bianchi che interagiscono con altri bianchi);
- a una modesta critica alla società dello spettacolo: il video del disastroso spettacolo di stand-up comedy di Arthur Fleck che diventa virale come oggi su YouTube, anche se il film è ambientato insensatamente nel 1981;
- alla lotta di classe: le rivolte, scatenate certo dalle disuguaglianze sociali ed economiche ma, come raccontato nel film, soprattutto da uno sciopero dei netturbini (altro probabile riferimento alla storia di New York) che, per l’ondata di violenza che genererà alla fine del film – finale che sembra preso di peso dalla serie cinematografica The Purge – fa sorridere chi, come me, vive a Roma e convive con situazioni simili da tempo.
Se, quindi, il “protagonistacentrismo” di Joker è parzialmente giustificato dal punto di vista prettamente soggettivo adottato – la malattia mentale come filtro distorcente della realtà – non è però sufficiente a fornire una base solida a due ore di narrazione.
Dopo una prima parte dotata di una certa forza brutale, sostenuta non solo da Phoenix ma anche dalla – pur invadentissima – colonna sonora di Hildur Guðnadóttir (per la verità più discreta ed efficace nel commentare i drammatici avvenimenti di Chernobyl, mentre qui si lascia andare a qualche suggestione zimmeriana di troppo) l’interesse scema piuttosto velocemente.
Del resto, la discesa all’inferno di una persona con disturbi mentali in un film che si intitola iconicamente Joker non lascia certo spazio alla sorpresa né alla possibilità di una redenzione. Coerentemente con il suo protagonista Joker diventa presto “troppo”: la recitazione di Phoenix, pur davvero sorprendente, è quasi insostenibile lungo ben due ore di film e, forse, un solo altro balletto avrebbe fatto superare al film quella linea oltre cui c’è il ridicolo; l’accompagnamento sonoro raggiunge un livello di didascalismo sinceramente fastidioso e la sceneggiatura, dello stesso regista e di Scott Silver, si impantana nel già ripetuto e nel già visto. Per fare solo un esempio, nel 2019 un ulteriore momento “si era immaginato tutto” – la storia d’amore con la vicina di casa – avrebbe avuto bisogno di una scrittura più solida e originale per risultare digeribile. Per non parlare dei flashback, che sono forse il punto più basso, dal punto di vista della messa in scena, di tutto il film.
Registicamente Joker è dunque un film davvero povero, diretto quasi come un dramma da camera, e in cui l’occhio del regista poco aggiunge al lavoro degli attori. Un approccio in linea con il percorso del regista il quale, dal fantasioso Una notte da leoni, denso di trovate e che presentava un notevole senso per la messa in scena, è passato ad opere sempre più convenzionali. In particolare, in Joker, interni ed esterni, piccoli appartamenti e grandi strade sono trattati tutti alla stessa maniera, occupati dalla presenza ingombrante di Phoenix. Se il cinema è, anche, senso dello spazio, e del tempo e del movimento nello spazio in particolare, Phillips fallisce miseramente.
Diverso sì, ma non troppo
Insomma, dopo una prima parte dignitosa il film precipita. E non a caso questo accade quando Joker passa dall’essere un film sulla malattia mentale a, più esplicitamente, un film sull’universo di Batman. A un certo punto verrebbe quasi da pensare che un inviato dell’ufficio legale della DC sia arrivato sul set a ricordare al regista che sì, quello era un esperimento ma, che diamine, si trattava pur sempre di un dannato film di supereroi.
I riferimenti, prima meno evidenti, iniziano a moltiplicarsi. Purtroppo non è un buon aiuto, vista la pretestuosità di alcune scene (l’incontro con il giovane Bruce al cancello di villa Wayne, l’omicidio dei suoi genitori, quest’ultimo in particolare raccontato con modalità narrative completamente diverse da tutto quanto visto fino a quel momento, per la necessità di ricollegarsi all’iconografia preesistente).
Joker sarebbe potuto essere, con un altro titolo e con alcuni cambiamenti sul piano della scrittura, un film autonomo rispetto all’universo cui fa riferimento? Certamente. Ma probabilmente non saremmo qui a parlarne (e sicuramente non avrebbe fatto gli incassi che sta facendo).
La confezione, quanto la “gabbia” terminologica, dentro la quale ci viene venduto un prodotto, è fondamentale per la sua percezione. Percepire Joker come film di supereroi, un filone abitualmente morigerato per quanto riguarda “sesso & violenza“, influenza il nostro giudizio.
Molti commenti su questo film riguardano infatti la crudezza delle scene di violenza (in realtà poche, e non particolarmente sconvolgenti: nel cinema horror e thriller non mancano esempi più “duri”), il coraggio nell’affrontare il tema della malattia mentale (argomento non inedito al cinema e qui portato a una esasperazione parossistica, anche se l’evidente critica al possibile smantellamento dell’Obamacare è interessante) e l’ambiguità del messaggio di fondo (devono gli ultimi e gli oppressi rivoltarsi a quello che identificano come potere, attraverso una violenza insensata e prendendo come esempio un maniaco omicida?).
Inoltre l’abbandono del tema razziale, come abbiamo visto già epurato nel riferimento alla strage in metropolitana, e che sarebbe stato un aggancio molto potente con la contemporaneità, dando alla pellicola quel “di più” che Philips pare voler cercare, offre il fianco a una critica destrorsa della pellicola. Quello cui assistiamo è un conflitto fra bianchi ricchi e bianchi poveri in cui le minoranze, pur rilevanti nel contesto storico e geografico scelto, restano sullo sfondo.
Niente, nel film di Phillips, supera la soglia dell’accenno per assumere la forma di una riflessione o di una critica strutturata. È un film pretenzioso che si prende costantemente troppo sul serio, gonfia il petto per far sembrare di avere molto da dire e, alla fine, dice poche cose. Quel che sceglie di dire, peraltro, lo dice anche abbastanza male, accumulando temi senza approfondirli, e che dunque mostra di credere a un presupposto tutto fondato sul contesto: che basti calare il tutto in un ambiente iper-realistico per non essere considerato “il solito film sui supereroi”. Eppure di questo filone condivide molto: certa superficialità tematica, certa ideologia populista ed una vaga vena anticapitalista (senza mai puntare il dito, però: guai a individuare responsabilità individuali).
La cosa forse più importante da sottolineare qui, però, è che la versione di Phillips/Phoenix è banalizzante nei confronti del personaggio che vuole omaggiare. Il Joker della lunga tradizione fumettistica non è semplicemente un malato neurologico le cui manifestazioni psicotiche e violente possono essere contenute con la giusta terapia psichiatrica. È un agente del caos, una figura in parte astratta e sovrannaturale. Il film lo tratteggia, invece, come un uomo “vero”: un poveruomo che diventa il Joker solo perché i tagli alla sanità lo avrebbero privato delle sue cure.
Una lettura che, oltre a essere piuttosto semplicistica, è ingenerosa nei confronti di quel che Joker rappresenta: una fantasiosa idea per mettere in crisi i valori ordinari della società civile, un simbolo del tutto irreale, un’icona “imprendibile”.
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