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Anche i supereroi muoiono: “La morte di Capitan Marvel”

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Lo sceneggiatore e disegnatore americano Jim Starlin sarà presente a Lucca Comics & Games 2019, dall’30 ottobre al 3 novembre.


Leggenda vuole che Stan Lee non gradì le prime prove di un giovanissimo, ma a detta di Roy Thomas promettente, Jim Starlin. Ciononostante, Roy Thomas ci vedeva del buono in quel ragazzone di Detroit e gli affidò un personaggio sull’orlo del fallimento come Capitan Marvel. Mar-Vell era un soldato Kree che aveva deciso di utilizzare i suoi poteri per difendere la terra e i suoi abitanti dalle mire espansionistiche del popolo alieno. L’esordio di Starlin avviene su Captain Marvel #25 del marzo 1973: un numero ancora in linea con la direzione di Thomas, ma che porterà di qui a qualche anno – seguendo vie un po’ contorte – a un grande classico dell’autore: La morte di Capitan Marvel.

morte capitan marvel fumetto starlin

Complice la passione di Starlin per l’acido lisergico, già dal numero 26 la testata diventa un mash-up di vari elementi, che vanno dal buddhismo alla psichedelia, passando per la space opera e i saggi di filosofia mistica. Scrive Starlin: «In quegli anni post-Watergate e post-Vietnam, non ero certo più pazzo di tanti altri. In ognuna di quelle storie cercavo di prendere cose già fatte prima e di rileggerle in chiave personale. Mar-Vell era un guerriero che aveva deciso di diventare un dio, era quello il suo trip».

Nel breve ciclo scritto e disegnato da Jim Starlin (Captain Marvel #25-34, marzo 1973 – settembre 1974), Mar-Vell è intrappolato nella Zona Negativa, riuscendo a proteggere l’universo della Terra-616 solo grazia alla Nega-Bande, un artefatto in grado di restituirlo a questa realtà, sostituendolo a Rick Jones. Il personaggio così intraprende un viaggio che lo conduce alla conoscenza cosmica. Il viaggio esteriore attraverso gli spazi siderali è soprattutto un processo di illuminazione che echeggia i gradi dell’elevazione mistica e trascendentale delle filosofie orientali. Mar-Vell perde per stesso per ritrovarsi come eroe mistico, come unico punto di resistenza alla follia del Titano pazzo. Tanto Captain Marvel quanto Thanos si muovono nei pressi di un crinale sottile e ambiguo.

La carica lisergica con cui Starlin attraversa il campo di battaglia si riversa su determinate scelte stilistiche con tavole che si frantumano e si compongono come caleidoscopi. Esemplare è Quando i titani si scontrano, tratto da Captain Marvel #28: lo scontro tra Thanos e Drax il Distruttore, il cui unico fine è l’annientamento del titano pazzo, si trasforma in un rendez-vous cosmico: ogni vignetta contiene un pattern twist, un’improvvisa sterzata dello sguardo, sino alla famosa tavola in cui la magniloquenza di Jack Kirby viene ridotta a brandelli, setacciata attraverso la lezione grafica di Jim Steranko e di Basil Wolverton: sintesi decostruttiva della grandeur dei Sixties.

Apice certo, ma non ultimo tassello di un racconto che corre sul filo del rasoio e che dipana con sapienza tutti gli ingredienti giusti per rendere Captain Marvel una volta per tutte un personaggio necessario. Eppure, non è così. Nonostante la ricchezza di stimoli, elementi e invenzioni, la gestione di Starlin si conclude con il numero 34: una storia posata e apparentemente ordinaria, ma che cela un elemento narrativo che permette a Starlin di rendere il disertore kree una leggenda dei comics.

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La space-opera di Starlin, nonostante sia un viaggio iniziatico, pone al centro il corpo di Mar-Vell, perché l’orizzonte di ogni racconto non può che essere mediato attraverso il corpo come non-luogo di ogni esperienza possibile. La sua colonizzazione ha inizio nel momento in cui il discorso scientifico ha cercato di mapparlo, ma nonostante questa presa, il corpo ha da sempre esercitato una resistenza al linguaggio. Prendiamo un atlante anatomico, per quanto possa essere dettagliato e preciso sarà sempre una rappresentazione: quello che uno studente di medicina guarda è un corpo rappresentato come mappa, non un vero corpo.

Tuttavia, il corpo come oggetto e come vissuto continua a essere il campo di riflessione ideale, soprattutto in un genere come quello supereroistico che lo ha messo da subito al centro della propria epica: il corpo di Superman – archetipo di ogni eroe di carta – dinanzi alla crisi gridava invulnerabilità e resistenza alla morte. Il corpo è rappresentato come incorruttibile, come argine di resistenza.

Scott Bukatman nel suo Matters of Gravity: Special Effect and Supermen scrive:

I fumetti supereroistici presentano narrazioni sul corpo, fantasie corporee, che incorporano (incarnano) megalomania e ansia, mistero e trauma. I fumetti narrano il corpo nelle storie e lo immaginano nei disegni. Tutto è accentrato ossessivamente sul corpo. […] Il corpo dei supereroi è tutto – una mappa corporea, piuttosto che cognitiva, del soggetto in un sistema culturale.

Durante gli anni Trenta – in piena Golde Age – Steve Rogers, gracile adolescente americano, si trovava catapultato nel cuore del conflitto grazie al siero del super-soldato, un elisir chimico che lo rende un atleta perfetto, ma soprattutto l’ideale macchina da guerra: spirito di abnegazione alla causa, resistenza fisica, preparazione atletica e strategica lo rendono il soldato perfetto, sino al momento del congedo. Lo si può ibernare quel corpo, visto che la sua vita editoriale e pubblicitaria si è consumata e il nemico è sconfitto. Almeno per il momento.

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Diverso fu, invece, l’approccio al corpo attraverso la Silver Age, a causa di un’inquietudine di fondo che si tradusse in eroi problematici, in cui il timore del nucleare produsse esseri la cui la deformità diventa meraviglia, in cui l’esposizione alle radiazioni non crea lesioni, malformazioni e prematura morte, ma talenti, certo eccentrici, ma decisamente positivi. A uno sguardo superficiale. In realtà la ricetta di Lee e Kirby fatta di ironia, tragedia e alienazione risponde al nuovo zeitgeist, alla paura del diverso, dell’altro, risponde al disorientamento dell’adolescenza e all’ansia per la Guerra Fredda. Al corpo “ariano” di Superman, Lee e Kirby contrappongono il corpo-non-corpo di Ben Grimm, la Cosa. Gerard Jones e Will Jacobs in The Comic Book Heroes: The First History of Modern Comic Books – from the Silver Age to the Present del 1996 scrivono:

Sino al 1961, nessuno sceneggiatore avrebbe suggerito che acquisire strani poteri avrebbe potuto creare una frattura tra un uomo e la sua gente, rendendolo più infelice che appagato. Ma Ben Grimm, che si sarebbe ribattezzato come la Cosa, ha pagato per i suoi poteri con un aspetto mostruoso, e la sua enorme forza non lo consola per la perdita di umanità.

Questa nuova sensibilità crea un terreno fertile per parlare dei conflitti reali che vivono gli adolescenti americani: nonostante l’ingenuità all’interno di queste pagine si trovano elementi che tracciano una nuova sensibilità e che conducono all’interno di una letteratura di genere temi a volte sublimati e nascosti come la morte.

Il momento topico di questa nuova idea di fumetto arriva nel famoso episodio della morte di Gwen Stacy (in Amazing Spider-Man #121 del giugno 1973, La notte in cui Gwen Stacy morì). Eppure, la morte di un innocente, per quanto sconvolgente, sembra non intaccare comunque l’invulnerabilità dell’eroe. Ben più sconvolgente, nonostante lo scarso successo del personaggio, è la morte di Captain Marvel, voluta da Jim Shooter e orchestrata da Starlin in quello che editorialmente è riconosciuto come il primo graphic novel della Marvel Comics: La morte di Capitan Marvel, pubblicato nel gennaio 1982 in un formato che strizzava l’occhio al fumetto franco-belga, ponendosi così come un prodotto originale e diverso nel panorama dei comic book.

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Il tono è celebrativo, ma al contempo pacato: Starlin introduce un eroe a riposo che prende consapevolezza dei limiti del proprio corpo, dell’incapacità nonostante il potere cosmico che scorre nelle sue vene di porre un freno a quello che lo sta divorando dal di dentro. Il Capitan Marvel di Starlin è un eroe stoico che prende commiato, pagina dopo pagina, dalla vita, che cerca di far collimare tutti i pezzi mancanti, cercando di rassicurare gli affetti e i lettori, ma che cede alla rabbia e al dolore.

Shooter prende un eroe minore, la cui dipartita non inciderebbe sull’economia narrativa dell’universo Marvel, e lo condanna a morte senza alcuna finalità sensazionalistica e editoriale. Il graphic novel è un commiato in punta di piedi, senza grandi battaglie, perché editorialmente quell’eroe ha già perso: è semplicemente un capro espiatorio per parlare di qualcosa di imponderabile e che sovrasta con forza gli orizzonti narrativi dei comic book.

Da un punto di vista narrativo, invece, Mar-Vell ha perso la sua battaglia anni prima, su quell’ultimo numero della gestione Starlin a cui abbiamo accennato prima: il nostro eroe, alle prese con il super-criminale Nitro, sventa una catastrofe ambientale, assorbendo nel proprio corpo una quantità tale di gas nervino da avvelenarlo mortalmente, nonostante i poteri cosmici. Starlin torna a raccontare le sorti del capitano proprio partendo da quell’episodio e mostrandone le conseguenze.

Al di là delle qualità del racconto, che alterna scene magistrali a momenti didascalici e di raccordo, Starlin incide a caratteri cubitali la parola morte nella storia dei comic book, tematizzando l’impotenza di un essere quasi divino dinanzi a una malattia subdola e silenziosa come il cancro. La diagnosi è improrogabile, e la scienza, la magia e la tecnologia non servono a nulla: dinanzi all’ineluttabile, Mar-Vell non può che prenderne atto e percorrere una strada verso la fine.

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Se la saga cosmica aveva visto un Mar-Vell compiere un cammino di consapevolezza dai toni mistici tanto da acquisire “la Conoscenza Cosmica”, in La morte di Capitan Marvel il viaggio è una sorta di “svuotamento” e recupero della quotidianità, che passa attraverso la descrizione del corpo di un malato oncologico, il suo rapporto con la medicina (qui incarnata da Mentore di Titano) e i momenti di frustrazione e depressione tipici del percorso di un malato terminale.

La sequenza dei giardini di Titano con Elysius è esemplificativa, così come le scene di commiato disseminate qua e là, dove il personaggio acquista una consapevolezza forse più profonda della conoscenza cosmica, poiché prende coscienza del fatto che è in procinto di morire. Come dice Jankelevitch in un colloquio con un Daniel Diné, lo strano paradosso di chi si appresta alla morte è «la collisione prodotta quando si sorvola il proprio divenire standovi al tempo stesso dentro»: di qui l’angoscia, ma anche la scelta sciocca di scrivere le proprie memorie.

Sebbene sia circondato da una pletora di personaggi che affollano le pagine della storia, Mar-Vell è solo, perché la sua morte è inderogabile. In questa battaglia silenziosa, Starlin fa saltare in aria tutta una serie di pattern narrativi propri della letteratura superoistica, attaccando i fondamenti di un immaginario codificato e rassicurante. L’itinerario verso la morte di Mar-Vell ricorda quello dell’Ivan Ill’ic di Lev Tolstoj, la presa di coscienza soverchiante che rompe la distanza concettuale con la morte:

Ivàn Il’ìč vedeva che stava morendo, ed era in uno stato di disperazione continua. In fondo alla sua anima sapeva che stava morendo, ma non riusciva lo stesso ad abituarsi a quest’idea; non solo, non riusciva a capirla, non ci riusciva assolutamente. Il sillogismo elementare che aveva studiato nel manuale del Kizevetter: Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale, per tutta la vita gli era sembrato sempre giusto ma solo in relazione a Caio, non in relazione a se stesso. Un conto era l’uomo-Caio, l’uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era né Caio né l’uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri esseri.

Mar-Vell si trova nella stessa identica situazione: l’eroe della Conoscenza Cosmica, il soldato kree rinnegato e difensore della Terra, l’antagonista del titano folle non collima con l’essere che è: irascibile, stremato, disilluso e depresso, in cui continuo è il lavoro di consapevolezza della mortalità, in cui l’idea d’invulnerabilità e onnipotenza è scomparsa, lasciando spazio a un uomo che dimesso il costume si mostra nella sua fragilità.

Se dividiamo idealmente la storia in tre sezioni – la scoperta, l’accettazione e la dipartita – nell’ultima Starlin annulla virtualmente ogni epica, usando invece una delle immagini più antiche legate ai discorsi sulla morte: Mar-Vell allettato e ormai incosciente. L’immagine, come evidenzia José Alaniz in Death, Disability and Superhero, riprende la tradizione divulgata dal cattolicesimo nel Quindicesimo secolo, nelle xilografie che accompagnavano l’Ars Moriendi, un testo che serviva a preparare alla buona morte. Vi è una totale adesione a una narrativa quasi vittoriana e lacrimevole, con un eroe ormai spogliato di ogni sua aurea mitica e abbandonato a un destino comune e privo di nobiltà (lo stesso Alaniz sottolinea come in questa sezione Starlin produca quasi una “femminilizzazione” della morte, evitando il topos della morte in battaglia, tipica del genere epico).

In realtà, il colpo di coda è nello stile psichedelico di Starlin. Mentre Capitan Marvel perde conoscenza, viene “risvegliato” da Thanos e condotto in un regno che ricorda le illustrazioni oniriche e lisergiche del Doctor Strange di Steve Ditko. Qua, Thanos è latore di una verità superiore: la necrofilia del Titano folle viene accolta da un Mar-Vell ormai pronto all’abbraccio della Morte. La conclusione è anti-epica: Cap, Thanos e Morte si incamminano verso una luce, Mentore copre il volto del defunto, gli eroi piangono il trapassato.

Lavorando con materiali e topos tanatologici, Starlin crea una storia impossibile, perché totalmente virata sul realismo, sulle emozioni, sull’impotenza, celebrando un eroe inutile, scavando a fondo il mito del supereroismo e mostrando la via ad autori come Frank Miller e Alan Moore, che nella prima decade degli anni Ottanta avrebbero definitivamente affondato il mito americano, decostruendo l’immaginario fumettistico. Ma nessuno come Starlin si sarebbe mai accanito contro il corpo, mostrandocene la consunzione: dalle anatomie classiche ricalcate da Burne Hogarth al volto emaciato e spoglio della grandeur. Deposto il costume, resta un corpo in lotta con un male invisibile, trasversale, unico e insondabile, ben più letale di qualsiasi minaccia cosmica.

L’edizione in volume di grande formato nella collana I grandi tesori Marvel ci restituisce una storia fondamentale nella sua semplicità, una lezione forse mai accolta in un mondo di carta dove la morte è una porta girevole e un semplice evento editoriale che spesso e volentieri non investe minimamente i personaggi, semplici pedine in un gioco che ormai non sorprende nessuno.

Unica nota dolente dell’edizione in esame è la colorazione: le tinte tenui e preraffaellite di Steve Oliff sembrano saturate insieme ai neri, rendendo ancora più evidenti alcune imprecisioni nel disegno di Starlin e restituendo uno spiacevole effetto sgranato che rende la lettura a tratti – nonostante il formato generoso – non totalmente appagante.

La morte di Capitan Marvel
di Jim Starlin
Panini Comics, febbraio 2019
Cartonato con sovraccoperta, 96 pp., colore
18,00 €

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