Il principale sforzo fatto dagli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale, quando l’industria bellica veniva riconvertita il più velocemente possibile e si piangevano i corpi dei soldati, fu il Piano Marshall. Si chiamava ufficialmente European Recovery Program, fu varato nel 1948 e durò quattro anni. L’investimento da parte degli USA fu di 12 miliardi di dollari dell’epoca (circa cento miliardi scontando l’inflazione attuale) e serviva a ricostruire le economie dei Paesi europei distrutti dalla guerra, sostituendosi al precedente Piano Morgenthau.
Furono ricostruite intere regioni d’Europa, ma anche cambiate organizzazioni economiche, tolte barriere doganali, ammodernati pezzi di industria. L’obiettivo era migliorare la condizione di vita dell’Europa occidentale e al tempo stesso fermare e anzi contrastare il comunismo che montava dalla vicina Russia attraverso i Paesi del cosiddetto blocco sovietico. La cortina di ferro. L’inarrestabile marcia del comunismo.
Tra le conseguenze del piano Marshall ci fu anche un profondo cambiamento del modo con il quale si faceva impresa e veniva condotto il business: arrivavano in Europa le modalità scientifiche e neopragmatiche americane, in sostituzione dell’approccio umanista britannico, di quello burocratico francese e del tecnocratico tedesco. Veniva anche, come una specie di cadeau, un flusso di film e di libri e di riviste “made in USA” o finanziate e ispirate alla “way of life” americana.
Era l’inizio di quel “soft power” che nella definizione più diffusa indica la capacità complessiva di uno Stato di convincere e cooptare un altro Stato o gruppi di Paesi, senza ricorrere alla forza o alla violenza. Cultura, valori politici, visione del mondo: Antonio Gramsci ne aveva già parlato peraltro durante gli anni del confino.
Uno degli aspetti dell’esercizio del soft power è l’egemonia culturale che si è manifestata in quella che viene ogni tanto definita “americanizzazione” della cultura popolare, e non solo quella. Fumetti, cinema, romanzi, letteratura. Insomma, le solite cose: basta entrare in una qualunque libreria o sfogliare giornali e riviste in edicola.
Il soft power come l’egemonia culturale, oltre a tutto il sistema dei consumi, degli stili di vita e della moda generato a partire dal sistema nordamericano – e declinato oltre che interpretato con vivacità dagli altri Paesi occidentali, Italia fra tutti per una volta in ottima posizione – prende un rilievo significativo nei decenni della nascita del moderno sistema dei media, della liberalizzazione della radio e della televisione, della sconfitta culturale del comunismo sul piano del consumismo, se scusate il gioco di parole. Alla fine, sono gli eroi di Marvel e DC Comics, assieme ai blue jeans e ai dischi dei Pink Floyd, ad aver fatto crollare il muro di Berlino.
Quello che sta accadendo adesso – e perdonerete questa lunga introduzione ma era necessaria per capire di cosa parliamo quando parliamo di cinema cinese – è l’esercizio del soft power cinese. Un gigantesco mercato autosufficiente in buona parte, che si nutre di marchi e di stili occidentali ma che lavora alacremente per cambiare tutto, rimescolare tutto, arrivare a produrre le sue mitologie, i suoi eroi, i suoi blockbuster, i suoi capolavori dell’industria popolare.
La Cina, a differenza del Giappone – l’unico altro “gigante” asiatico che ha avuto un ruolo culturalmente egemone nella regione e visibile anche in Occidente – è dotata di un mercato estremamente più vasto, di narrazioni molto più antiche e di una ambizione – e disponibilità di capitali – molto più elevata. L’esempio chiaro, anche se poi il film di per sé non è niente di speciale, è il lungometraggio che Netflix sta per distribuire in tutto il mondo ma che è nato in Cina per essere consumato in Cina.
Parlo di The Wandering Earth, costato 50 milioni di dollari ma ne ha già incassati 600. Un titano insomma che rischia di competere con film blockbuster americani senza grandi complessi di inferiorità. Siamo lontani dagli otto miliardi di dollari di incassi di Avatar, ma siamo vicini a praticamente tutto il resto del cinema americano. E pian piano la distanza verrà ulteriormente erosa.
Perché vale la pena di vedere The Wandering Earth? La storia è tratta da un racconto di Liu Cixin, del quale abbiamo già parlato su Fumettologica e che sta diventando una figura chiave della fantascienza cinese in buona parte per bravura ma anche molto per il momento fortunato in cui si è trovato ad essere: nel posto giusto al momento giusto. Il film è diretto da Frant Gwo e interpretato da attori ben noti nel mondo del cinema cinese, ma sostanzialmente sconosciuto da noi.
Lo scopo di The Wandering Earth è portare in Cina il gusto per la fantascienza e dei kolossal americani, ma rivisto in maniera tale da essere culturalmente più vicino alla sensibilità cinese. L’epicentro è Shanghai, i protagonisti sono per la maggior parte cinesi (ci sono anche europei e americani) e soprattutto il punto di vista è naturalmente cinese. Il senso di straniamento per lo spettatore occidentale è paragonabile a chi guardi un planisfero e scopra che al centro, anziché esserci l’Atlantico che divide il mondo tra Europa e America, relegando l’Asia vicina, media e lontana a un angolo, trova il Mar della Cina al centro e il mondo come lo conosciamo noi lontano e in qualche caso nascosto.
Dentro The Wandering Earth ci sono gli stilemi e gli elementi di commedia che sono caratteristici della produzione cinematografica e televisiva, cinese in particolare e asiatica in generale. Scene buffe e goffe che sono alleggerimenti stonati e fuori luogo per noi, ma caratteristici in un contesto culturale diverso dal nostro. Altre nei nostri film sono sicuramente le cose che stonano agli occhi di un cinese o di un asiatico in generale.
La trama si svolge lungo binari codificati dalla tradizione narrativa per la science fiction. Non c’è quasi niente da inventare, né nel “problema” che i nostri eroi si trovano ad affrontare – salvare il mondo, ovviamente – né nello sviluppo della storia sino alla sua conclusione. È una bella storia, con un finale che definiremmo serenamente “un’americanata” se non fosse che in questo caso dobbiamo definirla “una cinesata”. E tale è, senza dubbio alcuno, ma questo non compromette e casomai amplia il respiro del film.
The Wandering Earth è un film che è studiato per funzionare bene in patria, dove deve combattere (e lo ha fatto con successo) con i film americani. Ma è anche un film che, per come è stato impostato, alla fine funziona bene anche da noi. Tanto che Netflix ha deciso di farcelo vedere.
E per una volta vediamo la scienza vera, le astronavi moderne, i sistemi tecnologicamente avanzati di un futuro prossimo nel quale la Terra è stata stravolta dal rischio distruzione e ha intrapreso una migrazione – il tema è infatti quello di “astronave Terra con viaggio multigenerazionale” – verso una collocazione più sicura e proficua. Orgoglio cinese, regia potente, storia ben raccontata, sino al finale esplosivo e fuori scala. Ma, come impareremo a dire, è “una cinesata”, e come tale va guardata.
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