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L’affaire Baldi. Fumetto digitale, fumetto d’arte

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L’affaire Baldi è ormai noto a – quasi – tutti coloro che si interessano di fumetti. Con l’esclusione, probabilmente, di una larga fetta dei lettori generalisti che continuano a restare all’oscuro della polemica o, beatamente, a disinteressarsene. Dal mio punto di vista, invece, penso non solo che valga la pena essere al corrente dell’episodio, ma anche che sia utile fare qualche passo avanti nella discussione.

Prima di entrare nel merito della questione – che solo marginalmente riguarda i delicati temi dell’appropriazione e del plagio – è utile che io prenda chiaramente parte, per evitare ambiguità. Non sono un estimatore dei lavori di Barbara Baldi, così come non credo che i recenti riconoscimenti che le sono stati tributati compongano un ritratto accurato del fumetto attuale. Mi riferisco al Premio Micheluzzi e al Premio Gran Guinigi del 2018, e in particolar modo a quest’ultimo, dove i colleghi concorrenti erano di evidente rilievo. Molti professionisti e appassionati, pur senza dichiararlo pubblicamente, hanno in passato espresso dubbi di simile natura, riguardo a un premio considerato (a mio avviso erroneamente) “tecnico”, come quello di “miglior disegnatore”.

Allo stesso tempo penso che le massive influenze pittoriche e cinematografiche della Baldi, più o meno esplicitate e che spesso, chiariamolo subito, consistono in inserti prelevati da altre opere e scarsamente rielaborati, non siano il problema principale del suo lavoro. Le mie perplessità sono invece di natura prettamente narrativa. E quando parliamo di fumetto, si sa – o si dovrebbe sapere – che la narrazione passa per il disegno.

Prima, però, un breve riassunto di quanto successo negli ultimi giorni.

Le tappe della polemica

Il 10 maggio Lucca Comics & Games presenta il poster della prossima edizione del festival, realizzato appunto da Barbara Baldi. Questo, in linea con il tema dell’edizione 2019, Becoming Human, mostra una ragazza, disegnata nello stile tipico dell’autrice, che bacia un androide.

lucca comics games manifesto 2019

A seguito della pubblicazione del poster si leva subito un coro quasi unanime di apprezzamenti. Alcuni però, su pagine private o gruppi Facebook, sollevano perplessità sia sulla validità artistica del prodotto, sia sulla legittimità delle tecniche usate. Viene ad esempio fatto notare che lo sfondo del Teatro del Giglio posto dietro i due personaggi è ricavato, senza grandi rielaborazioni, da una foto disponibile su Internet, tra i primi risultati su Google Immagini relativi all’edificio, e che il braccio robotico riprodotto proviene da Shutterstock.

Sfondo del poster di Lucca Comics & Games 2019 disegnato da Barbara Baldi.Google. Teatro Giglio. Prima pagina immagini.Effettato, manco ridisegnato.

Publiée par Andrea Gadaldi sur Vendredi 10 mai 2019

Da questo punto in poi, da alcuni post che sollevano una questione – legittima – sull’utilizzo più o meno dichiarato delle fonti, si aprono le cataratte. Le accuse di “plagio” rivolte all’autrice si moltiplicano, coinvolgendo i suoi fumetti e molte immagini da lei pubblicate sul proprio profilo Facebook. Senza entrare nel merito dei rilievi e della polemica, Baldi risponde attraverso degli sfottò, preferendo poche e sarcastiche parole (in un post poi rimosso) alle argomentazioni sulle modalità narrative e artistiche alla base del suo lavoro.

Una reazione emotiva, senza dubbio. Ma quello che avrebbe potuto essere lo spunto per un confronto si trasforma quindi ben presto nel solito duello social in cui le truppe cammellate di due fazioni intervengono con crescente veemenza. Da una parte i detrattori dell’illustratrice, che si moltiplicano e continuano a puntare il dito, con modalità non sempre trasparenti; dall’altra l’autrice stessa, i suoi sostenitori e soprattutto Igort, il suo editore, che gettano benzina sul fuoco – spesso con toni aggressivi – invece di affrontare di petto la questione.

L’interrogativo, certo, non è stato posto nel migliore dei modi – in primo luogo: non è stato posto come un interrogativo – ma attraverso modalità non tanto lontane (purtroppo) dalle abituali logiche comunicative dei social network. Logiche che tutti i partecipanti al confronto conoscono e che in parte replicheranno nel dibattito successivo. Logiche, ancora, che nel mondo incredibilmente ristretto, e spesso partigiano o tribale del fumetto, abbiamo innumerevoli volte viste messe in atto. La strategia, insomma, è quella di screditare la controparte senza affrontarne le pur mal poste argomentazioni.

Se da una parte, quindi, la tecnica del “puntare il dito” è sia irritante che sterile, perché non si applica sempre e con la stessa veemenza nei confronti di quanti fanno un uso massiccio delle reference – i riferimenti iconografici e documentali utilizzati, talvolta, da disegnatori e visualizer nel processo produttivo – dall’altra un’immediata risposta articolata (del tipo “il mio lavoro consiste proprio in questo, nella riappropriazione e rielaborazione di opere tratte da altre opere e media per creare un pastiche organico che diventa una cosa terza e altra ecc.”) avrebbe, se non spento, per lo meno ridimensionato la polemica, abbassandone i toni. Del resto si sarebbero potuti citare illustri precedenti, primo fra tutti lo Snake Agent di Stefano Tamburini, che, attraverso l’utilizzo di una fotocopiatice e la riscrittura dei testi nei balloon e nelle didascalie, rielaborava le strisce di Agente Segreto X-9 di Alex Raymond e Dashiell Hammett.

Una risposta di questo tipo arriva invece solo dopo l’ingresso in campo, un po’ tardivo, del festival di Lucca che, a seguito dell’interessamento da parte del sito statunitense Bleeding Cool, e motivato dal chiarire (e rintuzzare) le polemiche rimaste confinate fino ad allora nell’ambito ristretto dei social, dirama un comunicato

La tempistica e i contenuti del comunicato lucchese non convincono tutti, ma è quanto basta a chiudere la davvero poco interessante questione dei diritti. Dal punto di vista artistico, però, il ricorso a una serie di termini anglosassoni (concept art, photobashing, matte painting) spiega senza spiegare (anche in un post successivo del direttore del festival Emanuele Vietina, che ha riconosciuto saggiamente lo spazio per un dibattito)una questione complessa che riguarda il come concepiamo l’immagine e le sue possibilità di riutilizzo: qual è il limite che separa una copia – di un’immagine o di un immaginario – e una citazione/riappropriazione?

Rispetto a questa ambiguità l’autore della locandina della precedente edizione del festival, LRNZ, in un post sul proprio profilo Facebook esprime le proprie perplessità sul valore dell’immagine in sé, al di là della tecnica utilizzata, e sulle responsabilità della committenza.

Premesso che è disgustoso il linciaggio all'artista del poster che è venuto fuori in questi giorni. Alla persona e all'…

Publiée par Lorenzo Ceccotti sur Jeudi 16 mai 2019

Secondo LRNZ il problema non risiede tanto nell’aver utilizzato immagini preesistenti, ma nella sciatteria del risultato finale e nell’azione della committenza. Oltre che – e questa è una posizione che condivido – nell’essersi pigramente appoggiati, autrice e committente, a un immaginario consolidato, rassicurante e un po’ obsoleto. Si può parlare di corpo post-organico anche senza richiamare per forza gli esempi, classici, venuti in mente a tutti (Chris Cunningham, Ghost in the Shell ecc.). Un esempio, ottimo, è la locandina di Lo and Behold, di Steve Smith.

Mentre LRNZ espandeva il campo della discussione, la polemica si è allargata a comprendere l’intero lavoro e approccio artistico narrativo di Baldi. La questione non può certo dirsi risolta.

Ma insomma, di cosa stiamo parlando?

Chiariamo velocemente quello che questo dibattito non è stato:

non un dibattito sul diritto d’autore. La questione sarebbe molto più complessa e da affrontare con altri strumenti rispetto a quelli adottati da tutte le parti in causa (per due esempi contrapposti, in altri ambiti, si veda QUI e QUI);

non un dibattito sessista, come ipotizzato da alcuni sempre sui social. Purtroppo, in un mercato (relativamente) povero commercialmente (e non solo) come quello fumettistico, non è la prima volta che assistiamo a questo tipo di scontri che si basano principalmente sulla contrapposizione di schieramenti per lo più partigiani e che hanno riguardato, in passato, molti autori uomini (anche per via della loro prevalente presenza sul mercato);

non un dibattito sul valore artistico del lavoro della Baldi che, naturalmente, è soggetto, come è naturale per le opere creative, a valutazioni estetiche, emotive, e soggettive;

non si tratta, infine, o non dovrebbe trattarsi di un dibattito fra il fumetto “fatto a mano” (che comporterebbe più fatica) e quello digitale (che sarebbe più “facile”). Quella della “fatica” è una delle trappole retoriche da cui bisognerebbe fuggire subito quando si parla di opere creative. Quel “sarei capace di farlo anche io” che tormenta l’arte moderna dall’astrattismo in poi, e che colpì in particolare l’arte concettuale. Del resto, una delle storiche argomentazioni portate contro il fumetto è che fosse “più facile” di altre arti, in primis la letteratura. Quello che va valutato è sempre il risultato finale, che nel campo del fumetto, anche quando si assegna un premio al “Miglior Disegno”, dovrebbe tenere conto delle capacità narrative dello stesso.

Ciò che questo dibattito rivela è, piuttosto, cosa l’industria editoriale stia cercando di vendere oggi come graphic novel. E nel frattempo mostra in filigrana un piccolo mercato, composto da pochi operatori, dove girano pochi soldi e in cui i rapporti fra le figure professionali – editori, autori, critici, aspiranti di diversa natura – sono fin troppo strettamente intrecciati, tanto da impedire riflessioni articolate, serene e feconde, anche o proprio grazie alla loro natura problematica.

Il gioco – ripetiamolo, legittimo – “cerca & trova” con cui si sono sbizzarriti in molti cercando le opere “citate” da Baldi, è facile da replicare. Andando solo a memoria, nelle prime pagine di Ada di Barbara Baldi ho trovato personalmente due esempi di “inserimento” di celebri opere d’arte in sue vignette. Una ricerca approfondita ne potrebbe rivelare altri.

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A sinistra il quadro Contadino con una carriola di Jean Francois Millet, a destra una vignetta da Ada di Barbara Baldi
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A sinistra una vignetta da Ada di Barbara Baldi, a destra un particolare dal quadro Il quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo

Si tratta di due approcci diversi all’immagine reference. Il primo esempio, quello tratto da Millet, è evidentemente calligrafico, per come riprende posa, scenario e illuminazione. Il secondo, che si ispira alla donna in prima fila nel noto Il quarto stato, rielabora maggiormente la fonte.

Ma si tratta di plagio o no?

Come ho già detto, la questione è la meno interessante fra quelle poste. Però diventa prioritaria nel momento in cui questa filiazione così stretta viene taciuta, soprattutto nel tentativo di nobilitare il fumetto nel campo dell’arte.

La storia della produzione artistica, come dovrebbe essere noto a tutti, è una lunga sequenza di rielaborazioni, riproposizioni di temi, furti, riscritture ecc., e non è certo questa la sede per affrontare approfonditamente l’argomento. Basti dire che, tornando a uno degli esempi citati, la donna de Il quarto stato, ritratta da Pellizza usando come modello la moglie, presenta notevoli somiglianze compositive con la Madonna Sistina di Raffaello. 

Neanche il fumetto sfugge alla costruzione di questa catena di influenze, citazioni, scopiazzature, plagi. Quasi dieci anni fa Matteo Stefanelli, riferendo una scoperta del francese Antoine Sausverd, sollevò l’ipotesi del “plagio” persino per Little Nemo di Winsor McCay. Il ricorso a reference fotografiche (proprie o di altri) o pittoriche –  ma oggi anche digitali – accompagna tutta la storia dell’arte e questo è particolarmente vero nel campo del fumetto seriale, dove se ne è sempre fatto un uso massiccio. Buona parte dei protagonisti dei fumetti Bonelli, per fare altri esempi, hanno i volti di famosi attori.

Le grandi differenze rispetto al passato sono due: 1) le immagini da cui trarre spunto sono oggi molto più facilmente reperibili di quando bisognava ritagliarle da libri o riviste; 2) al tempo stesso, oggi è molto più facile rintracciare la fonte iconografica dietro a una singola immagine o disegno. Un caso noto come quello di Roy Lichtenstein e di Image Duplicator susciterebbe, ai nostri giorni, polemiche molto accese. La legittimità dell’operazione di riappropriazione e rielaborazione da parte di Lichtenstein di vignette di fumettisti, all’epoca quasi anonimi, è ancora discussa (non senza ironia), anche se largamente accettata. Questo per dire che il tema di oggi non è peregrino o periferico.

A sinistra vignette dell’autore francese Job, a destra vignette da Little Nemo di Winsor McCay

Quello che sta cambiando oggi è la direzione della riappropriazione. La Pop Art, che incontrava all’epoca dei primi lavori “fumettistici” di Lichtenstein forte resistenza in ambito museale, pescava verso il basso, nel mondo del fumetto e delle immagini industriali, per trovare un nuovo modo di raccontare la realtà. Oggi, invece, è il fumetto a guardare spesso ai grandi capolavori del passato. Talvolta per una genuina necessità di confronto o per un tentativo di riappacificazione; altre, per trovare nuove vie con cui affermare la propria legittimità artistica.

Non si sta parlando di niente di nuovo, quindi. Ma se le modalità di reperibilità delle immagini influiscono poco su quanto detto fino ad ora, le tecnologie digitali di rielaborazione rendono immensamente più semplice il processo di ricalco. Alcune immagini di Baldi sono, in effetti, sovrapponibili agli originali.

La mano più o meno (mal)ferma di un autore, magari attraverso il supporto di un tavolo luminoso, in passato introduceva una variabile importante, ispessendo o assottigliando linee, portando all’errore – ed era molto più difficile correggere nell’era analogica –  arrivando a mascherare, più o meno, l’originaria fonte d’ispirazione.

Attraverso software come Photoshop (che è uno strumento che alcuni confondono con una tecnica) è invece possibile ottenere copie esatte. Perfetti duplicati, insomma. Di copie su commissione, dai codici miniati ai dipinti a olio, alle tavole a fumetti, c’è sempre stata richiesta. Spesso ai copisti, o falsari, era richiesto di essere, almeno altrettanto bravi degli autori originali. Nel passaggio al digitale, da questo punto di vista tutto si è semplificato (altra questione sarebbe chiedere, ad esempio, la replica di un dipinto a olio realizzata con la stessa tecnica e sullo stesso formato). La copia manuale, inoltre, anche nel campo del fumetto, portava alla acquisizione della tecnica, che molto spesso precedeva l’espressione di un proprio stile, come nella logica delle botteghe o in quella industriale del fumetto serializzato, statunitense e non.

Guardare a queste modalità del passato con nostalgia è, naturalmente, sbagliato. Come abbiamo accennato, ci si dovrebbe ben guardare dal valutare la fatica, la schiena rotta al tavolo da disegno, le tendiniti, come metro di giudizio di un’opera. Per quanto mi riguarda un fumetto è narrazione, e se la narrazione funziona, le altre considerazioni – soprattutto quelle sul processo produttivo – passano in secondo piano. Ci sono fumetti fatti di sole vignette bianche, o realizzati a collage, o fatti solo di vignette, parole e puntini. E, naturalmente, la storia di questo medium ci insegna che ci sono innumerevoli esempi – spesso anche validi – di fumetti fotorealistici (si guardi i primi lavori di Marcello Jori) e pittorici (uno fra tutti Alex Ross).

Allora qual è il problema?

Il problema è quando si cerca di vendere qualcosa per quello che non è. Se Baldi dichiara che «in alcuni casi prendo i miei autori preferiti e cerco di entrare nel loro mondo attraverso le vignette e lo stile, ma poco dopo chiudo i loro libri. Non voglio essere troppo influenzata e cerco di cogliere solo piccoli spunti» o che “accenna” a opere d’arte conosciute, quello che fa passare è un messaggio ben diverso dal prodotto che poi si trova a vendere. Perché, a meno che l’autrice non possieda una memoria – anche muscolare – eidetica, è difficile affermare che molte sue vignette non passino per uno studio approfondito e per un ricalco o rielaborazione digitale, cioè che non superino la definizione, soprattutto quando si parla di opere d’arte non tanto conosciute, di veri e propri accenni.

Tanto che, quando l’autrice si distacca dall’immobile e silenzioso pittoricismo dei tanti esempi citati, la resa grafica si modifica profondamente. Ad esempio quando si tratta di restituire un’azione colta nel suo divenire o un movimento – cose che succedono raramente, il tratto si fa più incerto, quasi irriconoscibile. Il risultato, spesso, nel passaggio da una vignetta all’altra o da uno scenario all’altro, è di profonda incoerenza grafico-narrativa (a volte lo scollamento dipende anche dalla diversa grana delle immagini assemblate, e da una strana separazione dei personaggi dagli sfondi, come nel caso della figura ripresa da Il quarto stato, dalla posa innaturale e incoerente rispetto allo sfondo). La questione, quindi, come rilevato da LRNZ nel suo intervento, non è solo di metodo ma di qualità, di risultato.

Inoltre l’autrice, senza motivo e con frasi come quella citata, per lo meno sminuisce il debito che ha con le opere che vampirizza con l’uso, pur legittimo, degli strumenti di fotomanipolazione digitale.

Questo è dunque un caso emblematico. Sia che si tratti di uno studio o di un lavoro definitivo, la definizione “My artwork” (che l’autrice usa sui social per certe illustrazioni postate) è una presa di posizione molto precisa e forte rispetto a un’opera lievissimamente ritoccata, e che non viene mai citata.

Magdalena Berny Barbara Baldi polemiche plagio
A sinistra un disegno di Barbara Baldi, a destra una fotografia di Magdalena Berny

Molti fumettisti inseriscono nelle loro tavole omaggi o parodie di quadri famosi – si pensi all’infinitamente riprodotto I nottambuli di Edward Hopper o a Ofelia di Millais, citato anche da Baldi in Ada – ma spesso l’opera fonte è talmente famosa che identificarla esplicitamente appare superfluo.

Il lavoro di ricerca artistica di Baldi è sicuramente più articolato e supera il semplice omaggio (a differenza di molte analisi superficiali che definiscono il suo stile come impressionista, si muove agilmente fra macchiaioli, pittura realista italiana e francese, secessione, espressionismo ecc.). Ma allora perché non comunicarlo, ovvero perché “nasconderlo”? In alcuni passaggi questo approccio ha anche un senso profondo che ne rivela il potenziale più interessante. Ad esempio quando in Ada la protagonista si reca nello studio viennese di Egon Schiele. Il pittore è disegnato sullo stile dei suoi autoritratti, mentre i personaggi di contorno richiamano, in un paio di casi esplicitamente-fotograficamente, quadri del periodo. Si tratta di uno stratagemma consolidato, sia in campo cinematografico che fumettistico, specialmente nel caso di biografie di pittori.

Cosa compriamo quando compriamo un graphic novel?

È stato già scritto più e più volte che l’adozione del termine graphic novel ha allargato il mercato di acquirenti del fumetto, includendo quelli che prima li guardavano nel migliore dei casi con sufficienza. Questo comporta, però, che chi acquista un graphic novel, in una buona percentuale di casi si aspetti di comprare qualcosa di diverso dall’idea che ha di fumetto. Cioè qualcosa che non comporti una narrazione concitata, un approccio pop, colori brillanti e via dicendo. Molti di quelli che stanno leggendo questo articolo sanno benissimo che il fumetto è molto altro rispetto a questo, oltre ad essere, naturalmente, anche questo.

L’acquirente generalista e occasionale di graphic novel, però, non lo sa. Cosa cerca, allora? Genericamente, qualcosa che sia “più” di un fumetto. E cosa c’è di più di un fumetto? Un romanzo. E cosa è ancora “più” di un fumetto che è un romanzo? Un fumetto-romanzo pittorico.

Insomma, per farla breve, l’opera di Baldi, con i suoi vaghi rimandi letterari, la sua narrazione rarefatta, il suo stile pittorico e non “brutto e sgraziato” come quello di molti fumetti, e i suoi riferimenti, non sempre dichiarati – diciamolo, a quadri non sempre noti a molti – è il prodotto perfetto per questo tipo di acquirenti. Un prodotto che rassicura. Che fa del fumetto “arte”. 

Igort ha infatti ragione quando dice che il successo di Baldi è internazionale. E da editore è suo interesse, oltre che probabilmente suo dovere, difendere questo successo. Interrogarsi sulle ragioni di questo successo, però, è altrettanto legittimo. Ed è ben altra cosa rispetto al mero “prendere atto” della sua felice diffusione.

In molte delle recensioni, generalmente positive, del libro della Baldi (alcune rilanciate dal suo editore d’oltralpe) uscite in Francia, si parla dei disegni, dell’approccio e dei riferimenti pittorici. Si offrono consigli sul come affrontare tale libro non tanto come un fumetto ma come un quadro in cui immergersi. O si fa notare come i fumetti possano finalmente competere con i libri d’arte. In almeno un caso l’opera pittorica di Baldi viene messa sullo stesso piano di quella di Lautrec o di Schiele («Le lentiggini di Ada divampano come i capelli delle donne dai capelli rossi di Toulouse Lautrec, e il silenzio dei suoi occhi ricorda la forza interiore delle modelle dipinte da Egon Schiele. Dei paragoni arditi ma giustificati»). L’attenzione è quindi sui disegni di Baldi, non in quanto dispositivo narrativo, ma come sorgente di stupore a ammirazione prettamente pittorici.

Insomma, il processo di appropriazione da parte del fumetto di un altro territorio (commerciale) dopo quello del romanzesco, e cioè quello dell’arte musealizzata, dei libri d’artista, già in atto da tempo, sembra ormai aver fatto un bel passo avanti.

Tutto legittimo, naturalmente. In parte anche auspicabile. Abbiamo detto che, al di là dei gusti personali, il fumetto può essere declinato in un’infinità di forme. Ma cercare di delegittimare una valutazione su questo approccio, sulle sue modalità e conseguenze, etichettandolo come una sorta di reato di lesa maestà critica, non fa davvero bene a nessuno. 

Della validità di questo tipo di riflessioni, l’editore Igort dovrebbe essere ben conscio. Da non grande amante del segno pittorico nel fumetto, concordo con lui quando afferma che quello che riguarda i comics dovrebbe essere più un “disegno scrittura”, un disegno narrativo, un disegno racconto. Un tratto che mi sembra appartenere più a un a Killoffer o a un Lambé, tanto per citare due degli autori che si sono contesi il premio a Lucca 2018 con Baldi. O quei fumetti, insomma, che – vi piacerebbe, vero? –  potrebbe fare anche chi non sa tenere una matita in mano.

Con Spiegelman si era parlato tanto di «disegno scrittura». Che cos’era il disegno scrittura? Un disegno semplice, efficace, secco, che potesse essere «funzionale» al romanzo a fumetti. Perché era chiaro a tutti che un lavoro barocco avrebbe reso stucchevole, perfino fastidiosa, la lettura. Nacque questo genere di disegno, più semplice, ma piuttosto leggibile, e molti bravissimi disegnatori presero a lamentarsi: «adesso i fumetti li fanno quelli che non sanno neppure tenere una matita in mano». [da Io scrivo, postfazione a Graphic Novel. Storia e Teoria del romanzo a fumetti e del rapporto fra parola e immagine]

Considerazioni come queste avrebbero potuto nascere o ritornare al centro, in seguito alle questioni, certo provocatorie, poste attraverso i social. Invece la discussione è scivolata subito in una controffensiva “a muro” dell’autrice prima e del suo editore poi. Che hanno preferito spostare l’attenzione sull’invidia, sulle scarse conoscenze in materia di storia dell’arte degli interlocutori, invece di argomentare o spiegare un metodo, quello della citazione e della riappropriazione, del calco, della manipolazione digitale. Una opzione legittima che tuttavia Baldi, forse per aiutare la percezione delle proprie capacità tecnico artistiche e quindi del proprio valore come pittrice più che fumettista, in altre sedi aveva se non negato fortemente sottostimato.

Si è preferito insomma, e questo è un metodo che conosciamo, screditare gli interlocutori piuttosto che prepararsi a un confronto, magari anche acceso ma legittimo. E questo non fa bene a nessuno. Di sicuro non fa bene al fumetto, inteso come spazio di produzione di idee – artistiche, e non solo.

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