Di opere narrative costruite attorno alla mitologia del gioco di ruolo ormai ne abbiamo perso il conto. L’epoca in cui dadi a venti facce e manuali da centinaia di pagine erano ad appannaggio esclusivo di un’umanità lontana eoni dalle luci della ribalta mainstream è finita da un pezzo. Dalla serie tv Stranger Things al romanzo La stanza profonda di Vanni Santoni non esiste campo dove D&D e derivati non siano arrivati a gettare la loro lunga ombra d’influenza. Chi in maniera più romantica, chi in chiave più amara. Eppure nessuno aveva mai avuto l’approccio di Lorenzo Mò.
Riducendolo ai minimi termini, Dogmadrome parla di come il calarsi in un mondo totalmente d’evasione possa sostituire la grigia realtà della nostra vita. Tutta la vicenda verte sull’incredibile capacità immersiva di un gioco di ruolo piuttosto particolare, ambientato in un mondo fantastico dove i nostri eroi vivino avventure con uno spirito che non potrebbero mai dimostrare nella vita reale.
Messa sotto questa luce sembrerebbe una sorta di elogio alla fantasia e all’immaginazione, e invece non è così. C’è una vignetta, in particolare, dove questo si capisce in maniera quasi dolorosa. Nel riquadro in questione vediamo i tre protagonisti passare vicino a quello che sembra un grosso albergo in rovina, senza nessuna particolare connessione alla trama principale.
Non ho idea se la scelta della documentazione fotografica fatta da Lorenzo Mò sia stata casuale o frutto di una serie di scelte deliberate, ma quella strana costruzione è chiaramente quello che rimane della città fantasma di Consonno. Situata nel lecchese, la piccola frazione di Olginate fu completamente acquistata dal ricco immobiliarista Mario Bagno all’inizio degli anni Sessanta.
L’idea dell’imprenditore era semplice: creare dal nulla un borgo votato al divertimento, una sorta di piccola Las Vegas arroccata sulle prealpi lombarde dove gli avventori avrebbero potuto passare il loro tempo tra alberghi di lusso, luna park, finti castelli, attività sportive e ogni altra forma di attività ricreativa potesse essere offerta in quegli anni. Uno degli aspetti più particolari del progetto verteva proprio sul non far perdere l’identità di paese a Consonno, che doveva rimanere tale e non venire scambiato come una sorta di enorme villaggio vacanze.
Si trattava di un mondo parallelo, un’autentica città dei balocchi. Nei primi tempi il successo fu clamoroso, con tanto di doverose ospitate di personaggi famosi, ma ben presto il vento cambiò. In seguito a una serie di sfortunati eventi – tra cui la follia di alcuni progetti di espansione completamente fuori misura – il progetto di Bagno collassò su se stesso e fu abbandonato. A oggi è uno dei villaggi fantasma più famosi d’Italia, meta di troupe in cerca di luoghi suggestivi per le riprese e di esploratori urbani.
Che la scelta di inserire un riferimento a tale storia sia ricercata – come penso – o casuale non ha importanza. Si tratta di una chiave di lettura importante, chiarificatrice di tutta l’operazione. La vicenda di Mario Bagno, prigioniero dei suoi sogni sfrenati e dall’impossibilità di venire a patti con la realtà (più il progetto Consonno andava male, più soldi ci investiva), non ci racconta di evasioni gioiose. La fuga della realtà ci occorre per mascherare i nostri fallimenti, con cui non vogliamo proprio venire a patti.
Il Dogmadrome di Mò non è l’OASIS del Ready Player One di Steven Spielberg, che a differenza del libro si concludeva con l’obbligo di giorni di sospensione per godersi il mondo reale. Siamo più dalle parti di un Jumanji, in cui scegliamo deliberatamente di essere prigionieri. L’approccio dell’autore è ambiguo, mai didascalico. Leggendo il libro e cogliendo i suoi continui riferimenti all’attività ludica è evidente che lui stesso abbia avuto molto a che fare con quel tipo di sospensione della realtà. E che la trovi molto attraente. Eppure c’è anche una consapevolezza che gli impedisce di abbracciarla completamente, in maniera cieca e acritica.
Si tratta di una riflessione non da poco sul mondo nerd – ancora meno banale se si considera il momento storico di assoluta beatificazione di qualsiasi puttanata giri attorno al concetto di pop culture – raccontato per di più in maniera impeccabile. Dogmadrome non solo è un gran fumetto fantasy, narrato oltretutto dall’interno di una campagna di un gioco di ruolo, ma sceglie anche un approccio grafico fuori di testa. Una sottilissima lama di rasoio sospesa tra Tex Avery, i Fleisher Studios, gli incubi di Fabio Tonetto, Tim Hensley e Jeff Smith.
Un universo dove tratti cartooneschi convivono con soluzioni più disturbanti, seguendo la scia di un gigante come Al Columbia. I personaggi hanno tutti apparenze morbide e concilianti, ma in realtà sono composti da forme mai ben definite, sempre vagamente deformi e poco inquadrabili. La colorazione spesso è sporca, e i mostri sono davvero perturbanti. Nei tratti più oscuri il riferimento fantasy più puntuale che mi viene da fare è il gioco Cave Evil del fumettista Mat Brinkman, tanto per capire di che cosa si sta parlando.
Dogmadrome è prima di tutto un racconto leggero e divertente – la distanza tra il taglio dei dialoghi e il contesto in cui vengono pronunciati funziona benissimo, per esempio – ma in ogni pagina aleggia una costante sensazione di sbagliato. Il fumettista gioca benissimo con questo presentimento strisciante e riesce a trasmetterla in diversi modi, dalle inquadrature delle vignette che spesso tagliano i personaggi in maniera disordinata all’espressività esasperata dei protagonisti.
Considerare questo libro un semplice frullato pop o l’ennesimo omaggio ai giochi di ruolo è la cosa più sbagliata che si possa fare. Per quanto travestito da divertissement, la realtà dei fatti ci parla di un approccio molto meno scanzonato di quanto si possa pensare. Indispensabile in un momento di sdoganamento forzato di ogni prodotto dell’industria dell’intrattenimento come quello che stiamo vivendo.
Dogmadrome
di Lorenzo Mò
Eris Edizioni, marzo 2019
Brossurato, 208 pp., colore
20,00 €
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