Un uovo alla Diabolik si prepara mettendolo un uovo in un pentolino con acqua tiepida sul fuoco, aspettando tre minuti da quando bolle e consumandolo quando si fredda. In che cosa è diverso da un normale uovo alla coque, chiederete voi? Beh, quello alla Diabolik è un uovo rubato.
È una freddura arguta, e se vi ha strappato un sorriso ben venga. L’ha raccontata più di cinquant’anni fa una delle due signorine Giussani, due eleganti ed educate milanesi (tanto arsenico e vecchi merletti) che nel 1962 hanno inventato il fumetto noir e cambiato per sempre l’editoria a fumetti italiana, oltre al costume del nostro Paese. Perché, come dice lo scrittore di noir Carlo Lucarelli, il noir è il romanzo sociale, il romanzo storico, il romanzo della città, il romanzo delle passioni e dei desideri inconfessabili, delittuosi dell’uomo e della donna di oggi.
Diabolik è un mistero ma è anche un problema. Raccontarlo a dei giovani autori che non abbiano familiarità con il personaggio e la sua storia di quasi sessant’anni, è un vero problema, se non impossibile. Lo dice Mario Gomboli, direttore della testata e figura chiave che ha raccolto in buona sostanza il testimone di Diabolik e della casa editrice Astorina, creata da Angela Giussani (la maggiore delle due sorelle) all’inizio degli anni sessanta letteralmente all’interno della Casa Editrice Astoria del marito Gino Sansoni.
Mentre il marito editava riviste scandalose e vietate (per i tempi), ovvero “chiuse”, come si definivano all’epoca perché distribuite sigillate in edicola, aveva però anche altre aree di interesse tra cui il calcio: era parte del “club del giovedì” (il cui centro era il giornalista e scrittore Gianni Brera) ed editore di Forza Milan!, cosa che gli dava accesso diretto all’élite trasversale della Milano del dopoguerra. E molto di più: editore innovativo, merita un posto nel percorso della storia culturale italiana.
Ma il posto di Sansoni è un posto piccolo, almeno rispetto a quello della ex moglie (a un certo punto si separarono) perché in realtà è l’opera di Angela, che si è inventata Diabolik e tutti gli altri personaggi (incluso l’ispettore Ginko, che è un cameo a Gino con una “k” aggiunta a metà) ad essere quella davvero importante in Italia e non solo. Angela (1922-1987) e poi dal numero 13 anche la sorella Luciana (1928-2001) divennero così autrici ed editrici di un fumetto noir composto in una redazione tutta al femminile con una lunga teoria di sceneggiatori e disegnatori che si alternarono alla sua realizzazione. Scrissero soggetti o furono estensori delle sceneggiature, in un processo di lavoro collaborativo di gruppo veramente moderno per l’epoca e anche ai giorni nostri: parteciparono infatti nomi come Giancarlo Berardi, Pier Carpi, Alfredo Castelli, Nino Cannata, Mario Gomboli e Patricia Martinelli.
A inventarsi graficamente il logo-testata di Diabolik fu l’architetto Remo Berselli. E a disegnare il personaggio furono Angelo Zarcone (autore solo del primo numero, come vedremo tra un attimo), Sergio Zaniboni, Brenno Fiumali (autore anche della prima copertina), Enzo Facciolo, Franco Paludetti, Remo Berselli, “Kalissa” Giacobini (autrice del secondo numero), Flavio Bozzoli, Lino Jeva, Eros Kara, Luigi Marchesi (che ridisegna tra l’altro il primo e il secondo numero per la prima ristampa), Giorgio Montorio, Glauco Coretti, Giancarlo Alessandrini, Leo Cimpellin, Giovanni Freghieri, Carlo Peroni e altri ancora, come Mario Cubbino, Gabriele Pennacchioli e molti altri.
La storia editoriale e sociale di Diabolik e della sua compagna Eva Kant è enorme. A marzo andrà in edicola il numero 865. La cadenza mensile prosegue ininterrotta dal 1962, solo con qualche accelerazione quattordici/quindicinale tra gli anni Sessanta, Settanta e primi Ottanta. Diabolik diventa anche il protagonista di uno dei più bei film pop degli anni Sessanta: Diabolik di Mario Bava, interpretato da nel 1968 da John Phillip Law, con Marisa Mell (Eva Kant, il cognome è un omaggio al filosofo tedesco, il nome alla prima donna della storia) e Michel Piccoli (l’ispettore Ginko, sul cui cognome abbiamo già detto). Un nuovo film si prepara, con la regia dei Manetti Bros, ma non è questo quello di cui parliamo.
Quello che invece è il punto centrale del nostro discorso è una opportunità molto rara e preziosa, che sarà in 293 sale cinematografiche italiane per soli tre giorni, l’11-12-13 marzo prossimo. Si tratta del docu-film di Giancarlo Soldi Diabolik sono io, che riporta dopo cinquant’anni Diabolik sul grande schermo. Il soggetto è realizzato con Mario Gomboli e racconta non soltanto la storia del personaggio editoriale e delle sorelle Angela e Luciana Giussani, con inserti di spezzoni recuperati dagli archivi Rai in parte inediti e di rara bellezza. No c’è anche un tessuto narrativo che rende più fruibile e comprensibile la storia di Diabolik vero e proprio, grazie alle testimonianze di moltissimi tra quelli che hanno lavorato con lui o attorno a lui (cito Alfredo Castelli e Tito Faraci, ma ci sono anche Lucarelli e molti altri, inclusi i fratelli Manetti) oltre a due attori che costruiscono lo storytelling di Diabolik: Luciano Scarpa e Claudia Stecher.
L’occasione narrativa è semplice: Angelo Zarcone, il primo disegnatore di Diabolik, è un mistero a sua volta. Disegnò solo il primo numero, poi scomparve e di lui non si è più saputo niente. Anzi, se qualcuno lo conosce, è pregato di farsi avanti. Il film/documentario di Soldi gioca sull’idea che Zarcone sia così somigliante a Diabolik, cioè che abbia disegnato Diabolik così somigliante a lui, da costituire il mistero della identità di fondo del personaggio. E cosa accadrebbe se in realtà Zarcone fosse rimasto vittima di un incidente e avesse perso la memoria? Cosa accadrebbe nella ricerca della sua identità, doppia?
Il film è ben fatto, si regge in piedi ed è gagliardo: lo fa con quel mestiere e quella capacità di tenere assieme una storia che è un frutto antico e molto lombardo di certa editoria di cui le sorelle Giussani e gli autori che sono passati attorno a loro (incluso lo stesso Giancarlo Soldi, che in gioventù le frequentava) sono stati l’esempio migliore. Una capacità meneghina di fare storytelling, con umiltà ma anche con professionalità. I personaggi funzionano, la storia fluisce bene, la regia è potente e rende bene al cinema. Andatelo a vedere, è un pezzetto della storia del fumetto, ma anche della società e del costume italiani che merita di essere ricordato e celebrato.