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I fumetti folli e visionari di Peter Milligan e Brendan McCarthy

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Brendan McCarthy (sinistra) e Peter Milligan (destra) in uno foto d’epoca

Prendete due studentelli d’arte nella Londra di fine anni Settanta e cercate di immaginare in che tipo di humus culturale possano essersi formati. Il punk, con tutta la sua carica di nichilismo no future, era appena esploso. Nel frattempo la recessione metteva in ginocchio il paese, mentre l’avvicinarsi della prima elezione di Margaret Thatcher a premier faceva intuire a cosa si sarebbe andati incontro nel decennio successivo. Erano tempi interessanti, si sarebbe detto, figurarsi per due aspiranti artisti decisi a dedicarsi anima e corpo al fumetto.

Successe così che Peter Milligan e Brendan McCarthy, incontratisi tramite il più classico degli amici in comune, iniziarono a lavorare a una strip in bianco e nero – The Electrick Hoax, una sorta di bizzarro ponte tra Burroughs e le fanzine ciclostilate, il tutto imbevuto di giovanilismo spinto – per il noto magazine musicale Sound.

Una pagina di The Electrick Hoax, pubblicata sulla rivista Sound tra il 1978 e il 1979

Fu l’inizio di una collaborazione quasi ventennale che li avrebbe portati a sviscerare il fumetto in ogni sua forma, generando una serie di storie surreali e spesso eccessive, a tratti illeggibili ma mai banali o scontate. Un percorso folle e sbilenco che li avrebbe avviati verso carriere altrettanto poco convenzionali. Milligan è diventato infatti una delle voci più credibili dell’industria statunitense, senza mai venirne davvero a patti, mentre McCarthy ha preferito ritirarsi dietro le quinte.

Dopo anni passati al tavolo da disegno gli obiettivi di McCarthy divennero cinema e animazione, con sortite limitate alla carta stampata a pochi – ma significativi – episodi. Considerando la sua ossessione per il post-atomico, l’essere riuscito, dopo anni di tentativi, a collaborare come co-sceneggiatore e production designer a Mad Max: Fury Road deve essere stata una gran soddisfazione.

Ma prima di questi risultati enormi ci furono due decadi di scorribande e, soprattutto, centinaia di pagine a fumetti. Idee e personaggi che nel corso del tempo hanno trovato casa presso case editrici diverse tra Inghilterra e Stati Uniti, ma raccolti poi da Dark Horse in The Best of Milligan & McCarthy, un bel volume sfavillante e voluminoso.

Le autentiche perle dell’antologia sono tre: Paradax, Rogan Gosh e la famigerata Skin. La prima, del 1987, è una delle interpretazioni della figura del supereroe più graffianti di sempre. Dopo le riletture cupe e senza speranza di Alan Moore e Frank Miller, Milligan e McCarthy si presentarono con un eroe che diventava tale per puro caso – indossando una tuta trovata nel suo taxi – pigro e svogliato come solo il Major Bummer di John Arcudi avrebbe saputo essere. Così finisce che le cose migliori che gli capitano sono di avere una fidanzata dai capelli rosa con cui non perde l’occasione per finire a letto, di indossare un costume fichissimo e di essere inviato da Andy Warhol nel suo talk-show.

Paradax funziona perché è leggerissima, divertente e non si perde in troppe menate metalinguistiche. Ci sono satira politica di grana grossissima, tanti personaggi divertenti, un cattivone uber-fascista che finisce per eliminarsi da solo e lo stile di McCarthy che comincia a prendere forma. Seppur ancora molto ancorato a certe soluzioni estetiche tipiche del fumetto anni Ottanta il disegnatore lasciava intravedere certe spinte più plastiche e stilizzate, principalmente debitrici delle influenze di Métal Hurlant, che da lì a poco avrebbero contaminato una grossa parte del suo lavoro.

Una tavola da Paradax

Con Rogan Gosh le cose si complicano in maniera davvero folle. Concepito come una versione bollywoodiana di Blade Runner – parole dello stesso sceneggiatore –, lascia intendere come le cose andranno diversamente fin pagina uno, quando incontriamo lo scrittore Rudyard Kipling in cerca di oppio nel nord dell’India, in fuga da minacce di ricatto per una relazione non consentita con una sua domestica. Da lì parte una quarantina di pagine di delirio, nelle quali i personaggi entrano ed escono di scena senza soluzione di continuità e si viaggia nel tempo fino a un’India del futuro attraversando dimensioni e universi interiori. Il tutto mentre la situazione si fa via via più surreale, come una sorta di gioco a scatole cinesi sempre più criptiche e incomprensibili.

Un personaggio si chiama semplicemente The Boy – con tanto di scritta sulla fronte –, mentre il karmanuta Jadoo Gher si rivela essere il personaggio di un fumetto venduto da un edicolante dalla testa di elefante. Senza dimenticarci di cowboy a quattro braccia impegnati a condurre la vacca sacra nei pressi di Neither-Nor, dove troviamo Kipling nei panni di un capo indiano dalla pelle blu e così via. McCarthy pesca a piene mani nel fumetto franco-belga e non si vergogna di citare Moebius, rivestendolo di colorazioni acide in linea con quanto succede sulle pagine. Le tavole sono ricche e compensano la scrittura fin troppo le righe di Milligan, miscelando suggestioni e tecniche come solo una sceneggiatura del genere avrebbe richiesto.

Una tavola da Rogan Gosh

Il disegnatore pecca solo nelle parti pittoriche, forse all’ultimo grido per l’epoca ma decisamente invecchiate male. Il vero problema di Rogan Gosh – originariamente pubblicata sulle pagine del magazine inglese Revolver, spin-off votato all’eccesso di 2000 AD – è lo stesso di po’ tutte le storie contenute in questo volume: l’idea di base è portentosa, l’attacco clamoroso, ma poi qualcosa si inceppa e tutto diventa davvero “troppo” per essere godibile. Figuriamoci in un caso come questo, dove tutto nasceva da alcuni esperimenti in cui si cercava di far collidere immaginario fumettistico e musicale. In particolare il richiamo qui era alla scena rave, all’epoca al picco della sua popolarità underground.

Milligan, ancora lontano dal diventare un professionista in grado di gestirsi in maniera soddisfacente, non riesce a limitarsi e finisce per mettere troppa carne al fuoco, per di più fregandosene di quanto l’insieme possa essere comprensibile al lettore. Nell’edizione in volume della Vertigo è raccontato come un lettore scrisse una lettera alla redazione in cui confessava senza troppe remore «Sono io, o in Rogan Gosh non si capisce un cazzo?». E non gli si poteva certo dare torto. Dentro questa bizzarra detective story ci sono tante intuizioni fantastiche, ma l’insieme è così inespugnabile che da un certo punto in avanti lo si legge per pura inerzia. Godendosi le magnifiche tavole senza cercare di capire davvero cosa stia succedendo.

Avremmo potuto essere dalle parti di certi esperimenti lisergici alla Grant Morrison ma l’insieme è davvero troppo autocompiaciuto – ed è tutto dire – per riuscirci. Comunque sia questa storia è considerata un cult del fumetto anglosassone e un suo recupero è consigliato a tutti, per i suoi eccessi, la sua complessità e per lo splendido lavoro di McCarthy.

Una tavola da Skin

L’ultima storia raccolta nel volume è, non a caso, anche l’ultima collaborazione tra i due autori: Skin, che all’epoca fu rifiutata da una lista infinita di editori e fu portata al pubblico solo dalla Mirage Studios di Kevin Eastman e Peter Laird. Rispetto a tutto il resto della raccolta qui ogni spunto surreale o fantastico viene brutalmente eliminato, per raccontare la storia di un ragazzo reso focomelico dall’uso di talidomide da parte della madre. Martin ‘Atchet, questo il nome del protagonista, è uno skin cresciuto nella cupa Inghilterra proletaria degli anni Settanta con tutto il carico di rabbia repressa che questo comporta.

Se nelle prime pagine della storia tutta l’attenzione è concentrata sulla sua incapacità di amare e di provare affetto – nonostante attorno a lui ci siano persone sinceramente decise a non farsi intimorire della sua sfortunata condizione – prima della fine la vicenda assume un tono più grottesco e decisamente meno rarefatto. Il fulcro di tutta la parte finale del racconto diventa infatti la sua vendetta nei confronti di un mondo che lo ha reso un mostro. Nonostante gli eccessi gratuiti della conclusione, si tratta della sceneggiatura più contenuta e lineare contenuta tra queste pagine, che si limita a portare avanti una storia terribile nella sua fisicità.

Dopotutto, Brendan e il fratello Jim erano stati skinhead loro stessi, e questo permise un punto di vista privilegiato sulla materia. Aver vissuto dall’interno una cultura giovanile, oltretutto in un momento particolarmente critico per la stessa, significava poterla raccontare meglio di chiunque altro avesse provato ad approcciarvisi dall’esterno, donando all’insieme una concretezza e una credibilità davvero preziose. Così, per una volta, non si parlava di viaggi astrali o bizzarre astrazioni narrative, ma di corpi veri, di botte e di un universo reale e tangibile.

Una tavola da Skin

La periferia industriale non era un luogo della mente, così come la disoccupazione, l’ignoranza, la violenza non erano certo metafore per altro. Si viaggiava terra e terra e il tutto funzionava proprio per quello. Per portare sulle pagine una vicenda così dolorosa, il segno di McCarthy si fece meno preciso e dettagliato, preferendo un approccio quasi naif. L’illustratrice Carol Swain – all’epoca nota soprattutto per l’autoproduzione Way Out Strips – si occupò della colorazione di quelle tavole, finendo per influenzare il lavoro del disegnatore in toto. Rispetto a tutto quanto fatto in precedenza le pagine erano tratteggiate in modo più semplice, agli antipodi di quanto fatto su un titolo come Freakwave.

Pensate a una sorta di Mad Max in versione Surf Nazis Must Die. Aggiungeteci oceani tossici, un sacco di personaggi fuori di testa, derive narrative a profondere e il costante miglioramento del disegnatore. Non si tratta di un fumetto perfetto – anche perché Milligan sbragò e finì per mettere in piedi muri di testo infiniti – ma l’amore di McCarthy per la materia è evidente. Se nelle prime pagine il design pesca a piene mani nell’immaginario di inizio anni Ottanta, con il passare del tempo si arriva a vette autenticamente visionarie.

Una tavola da Freakwave

Lo studio dei personaggi – come anche di tutto il mondo in cui si muovono – è la chiara dimostrazione del perché il disegnatore non ci abbia pensato due volte a mollare quasi definitivamente il fumetto indipendente per dedicarsi ai più lucrosi cinema e televisione. Senza privarsi comunque dello sfizio di essere candidato per due anni di fila all’Eisner Award (1992 e 1993) come miglior copertinista per Shade l’Uomo Cangiante e di scrivere e disegnare una miniserie dell’Uomo Ragno – Spider-Man: Fever, inedita in Italia – votata alla psichedelia più sfrenata.

A conti fatti – e considerando che dentro al volume c’è parecchia altra roba oltre a quella di cui abbiamo parlato – questo The Best of Milligan & McCarthy non è certo il volume più facile in cui potreste incappare. La scrittura è spesso davvero ostica, mentre le tavole cambiano di stile e qualità in maniera forse troppo repentina. Senza contare che non tutte le storie sono proprio riuscite (compresa Summer of Love, un pietoso tentativo di rom-com surrealista). Consapevoli di partire da un punto di vista più proletario rispetto a tanti altri colleghi votati a produzioni maggiormente autoriali, i due autori hanno comunque sempre finito per infilare nelle loro pagine più riferimenti, spunti e richiami extra-fumettistici possibili.

Una tavola da Strange Days

Anche se trovarono posto in quelli che in troppi etichettavano come meri magazine d’evasione – ignorando di che formidabili incubatori di idee e talenti in realtà si trattasse – le loro storie dimostrarono in maniera cristallina come fosse sempre possibile fare un passo in più, anche se a discapito della godibilità. Questo volume rimane la testimonianza preziosa di come due artisti unici e vitali abbiano imparato ad affilare le loro armi pagina dopo pagina e di come questo percorso sia finito poi per influenzare ogni scelta della loro carriera in singolo.

Così, mentre Milligan ha seminato il terrore tra Marvel Comics e Vertigo (quando ancora questa aveva senso di esistere) portando la sua carica punk in lidi inaspettati, McCarthy è finito a studiare il design di produzione del primo live-action delle Tartarughe Ninja, disegnare storyboard per Hannah-Barbera, curare serie animate per il mercato arabo e progettare con Jim Henson una nuova versione di Pinocchio. E ancora stiamo ancora a chiederci come questi due ex studentelli di Chelsea siano riusciti a mettere insieme una serie di storie così folli e sopra le righe.

Si ringrazia Antonio Solinas per le integrazioni e gli appunti all’articolo.

The Best of Milligan & McCarthy
di Peter Milligan e Brendan McCarthy
Dark Horse Comics, novembre 2013
cartonato, 264 pp., colore
25,00 €

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