Sfogliando le pagine di Solo è difficile non rendersi conto di quanto l’autore Oscar Martin ci abbia investito a livello emotivo. Efferatezze e brutalità si susseguono con un ritmo vertiginoso in un mondo sospeso tra un morbido tratto alla Uderzo e un continuo fluire di didascalie ambiziosamente stentoree. Ci si legge una tensione quasi palpabile tra le grandi passioni dell’autore, divise tra quelle che gli hanno permesso una brillante carriera – e che ancora reclamano il loro meritato ruolo da protagoniste – e quelle invece più relegate alla sfera giovanile. Visioni di mondi crudi e allucinati, mutuate da influenze cinematografiche alla George Miller o da opere come Usagi Yojimbo di Stan Sakai.
Martin scrive e disegna storie di Tom & Jerry vendute in mezzo mondo dal lontano 1986. Lo fa con una passione e una dedizione tale da meritarsi un Lifetime Achievement Award da parte della stessa Warner Bros. Oltre a questo realizza fumetti per la divisione francese della Disney, serializza una serie di storie basate sul lungometraggio del Re Leone per il mercato inglese e in Germania arriva a collaborare con il gigante Rolf Kauka sulle pagine di Fix und Foxy. Passa poi a Woody Woodpecker e in tempi recenti a un progetto crossmediale basato sul mega-successo di Agry Birds. Oltre a tutto questo si prende anche il lusso di esordire con una sua serie originale, l’horror per ragazzini Il terrificante mondo di Bobby.
Una carriera dedicata ai più giovani, dove a farla da padrone sono linee rassicuranti e animaletti antropomorfi. Poi arriva il 1998 con l’uscita del primo volume del post-apocalittico Solo e le cose… non cambiano di una virgola. A parte il cannibalismo, si intende.
Abbiamo ancora un tratto cartoonesco limpido e dettagliato, un sacco di quadrupedi improvvisamente capaci di camminare eretti e di proferire parola, richiami a Tex Avery e a tutta l’epoca classica dell’animazione. Solo che questa volta ci aggiungiamo un mondo ormai completamente desertificato, un sacco di arti mozzati, la perpetua lotta per la sopravvivenza e la presenza della morte come costante della vita quotidiana.
Solo è chiaramente un progetto che nasce dalle esigenze personali di un autore che non ha assolutamente bisogno di uscire con un nuovo libro per sbarcare il lunario. Leggendolo si ha la sensazione di immergersi in un racconto rimasto in incubazione per anni, se non decenni, in attesa della giusta tranquillità per raggiungere finalmente la pubblicazione. Il risultato è una storia in quattro volumi (più relativi spin-off) dove la presenza di un Martin in costante stato di esaltazione è cristallina.
Ci ritroviamo in un universo popolato da bestioline ipertrofiche, tutte muscoli da crossfitter e frasi scolpite nella roccia, dove gli eventi si susseguono alla velocità della luce. Così il protagonista passa da vagabondo in cerca di sé stesso a gladiatore imbattibile per poi trovare l’amore e perderlo, salvo poi ritrovarlo di nuovo e perderlo ancora nella maniera più tragica possibile. Chiusi questi capitoli ne arrivano altri, sempre più spietati, fino all’epica conclusione della saga principale. E non stiamo parlando di un tomo da migliaia di pagine alla Bone, ma di quattro volumetti da una sessantina di pagine l’uno.
Abbiamo un sacco di carne sul fuoco gestita con tavole minimali – Martin non cambia di una virgola il suo stile costruito in centinaia di pagine di Tom & Jerry, ci aggiunge solo un’abbondante dose di muscoli e ossa rotte – dove a farla da padrone sono violenza e azione. I combattimenti all’arma bianca spesso occupano pagine intere, scomposte in riquadri che frammentano ogni singolo affondo e permettono di seguire con chiarezza i vari scontri, coreografati con cura e competenza.
Risulta quasi commovente come l’autore completi ogni volume con schede e note di approfondimento circa il mondo in cui prendono forma le vicende, spingendosi a spiegare vizi e virtù di ogni singola tribù e riportandoci simbologia e stendardi in un microcosmo molto più complesso di quello che emerge dalla lettura del fumetto in sé. Uno sforzo notevole, se si considera che sulle pagine non vediamo altro che piccole comunità di esseri in continua ricerca di cibo, disposti a chiudersi in una grotta per parecchi mesi se dotati di riserve di carne abbastanza generose per consentirlo. Lo stesso protagonista, in un paio di occasioni, preferisce nascondersi nel buio di un antro roccioso con il cadavere di una grossa preda piuttosto che barcamenarsi ogni giorno alla ricerca di qualche esserino abbastanza polposo da essere cotto su fiamma viva.
Quando nel 2015 uscì Mad Max: Fury Road una delle cose che di più colpì il pubblico fu la complessità della backstory di un personaggio tutto sommato marginale come il chitarrista con il lanciafiamme. Una figura fighissima – su questo non ci piove. Senza di lui il film non avrebbe avuto lo stesso impatto iconico – ma non certo centrale allo svolgersi degli eventi. Per dargli forma forse sarebbe bastato l’intervento del production designer. Invece il regista scelse di scrivere la sua biografia e di tenerla per sé. Più avanti si scoprì che fece praticamente lo stesso per ogni aspetto del film, mettendo in piedi un complesso database consultabile solo dalla troupe. Eppure quello che vedevamo noi al cinema non era altro che un lunghissimo e meraviglioso inseguimento fra autovetture che parevano concepite da un dodicenne fuori controllo.
Con il senno di poi è evidente come nulla sarebbe stato lo stesso senza quell’infinito lavoro di ricerca di cui prima ignoravamo l’esistenza, ma al momento non era certo così scontato. Solo non funziona altrettanto bene, ma il succo è il medesimo. Il non cedere neppure un istante ad aspetti in grado di renderlo più accattivante – più ironia? Una gestione del ritmo di maggiore presa emotiva? – deriva proprio dal fatto che Martin ha ben chiaro cosa ci sia dietro ogni singola scelta presa da lui o dai personaggi. Non importa se sulle pagine emerga solo una minima parte di tutto il complesso atlante da lui tratteggiato in fase di preparazione. Che piaccia o meno la direzione intrapresa dalla storia, l’autore è solo uno e come tale risulta l’unico nella posizione di tenere il timone.
Non è un caso se gli spin-off – tutti gradevoli, seppure inferiori alla saga principale – siano disegnati ognuno da un fumettista diverso ma la sceneggiatura rimanga saldamente tra le mani dell’iberico. Uno che ci crede talmente tanto da lasciarsi sfuggire didascalie come «Alla fine perdermi mi ha permesso di ritrovarmi. Non ho fatto un viaggio, è il viaggio che ha fatto me», mentre il suo protagonista pare incapace di proferire parola se non attraverso one-liner da film di serie B.
Questi scivoloni, assieme alla cura gratuita e certosina con cui sono redatte le schede di cui parlavo prima, sono la testimonianza più chiara della passione dell’autore per questo suo progetto. La sua professionalità emerge senza il minimo dubbio dall’altissima qualità delle matite – si possono discutere alcune scelte stilistiche, ma la consapevolezza e la sicurezza del tratto sono lapalissiane – mentre la spinta a concedersi di scrivere quello che più gli piace è palese. Non c’è pudicizia nell’infilare una dietro l’altra riflessioni sulla vita granitiche e prive di ogni forma di sfumatura, frasi fatte e romanticismo così melenso da sforare nel ridicolo.
Aldilà dei vari Tom & Jerry superpompati che lo popolano, quello di Solo è un mondo pulp della vecchia scuola, dove non ci sono le mezze misure e le parole arrivano dritte al punto. Asciugando, semplificando, non preoccupandosi minimamente di intaccare la superficie. Dove i duri sono durissimi, gli amori assoluti e la vita conta pochissimo. Un universo di -issimi fuori tempo massimo. Come se a Martin importasse qualcosa.
Solo Integrale vol. 1
di Oscar Martin
traduzione di
Renoir Comics, gennaio 2019
cartonato, 208 pp., colore
29,90 €