Il maestro Shigeru Mizuki era privo di un arto. Nella Seconda guerra mondiale, durante la campagna nel Pacifico meridionale, quando ancora faceva il dentista, si vide costretto ad amputare il braccio destro a causa delle ferite riportate. Monco, fiaccato dal clima opprimente del conflitto, il giovane soldato decise di restare a Rabaul, un’isola della Papua Nuova Guinea.
Trascorse alcuni anni in compagnia di una tribù locale: il suo nuovo nome era Paul, come l’apostolo. Nonostante l’amputazione, la fervida immaginazione che l’aveva contraddistinto sin da ragazzo non poteva essere tenuta a bada e a un tratto esondò, costringendolo a impugnare nuovamente il pennino.
Da mancino, Shigeru Mizuki prima si dedicò all’antica arte del kamishibai – il teatrino di carta ambulante – per poi approdare al fumetto, dove nel 1959 diede alla luce la sua creatura più importante e conosciuta: Gegege no Kitarō. Il giovane yōkai (mostri dell’immaginario tradizionale nipponico) protagonista della serie assecondava la passione quasi etnologica di Mizuki per il mondo degli spiriti e del folklore animistico della cultura giapponese.
NonNombâ. Storie di Fantasmi giapponesi, nonché i volumi enciclopedici dedicati alle mille divinità nipponiche e curati dallo stesso Mizuki, sono chiari esempi di questa dedizione ai miti della propria terra, un tentativo quasi disperato di preservare una tradizione altrimenti destinata a soccombere dinanzi all’inarrestabile marcia della modernità.
Non è un caso che il volume antologico Le spaventose avventure di Kitaro – una selezione di sedici storie della lunga serie, edita da J-Pop – si apra con un racconto in cui le origini del personaggio sono intrecciate alla sopravvivenza della sua specie.
Nelle storie di Mizuki gli yōkai vivono ai margini del mondo degli umani: con uno stratagemma, un semplice impiegato della Banca del Sangue, viene trascinato in una casa dove una coppia di spiriti in fin di vita cerca il suo aiuto. Presto verrà alla luce un giovane mostriciattolo e l’uomo rappresenta l’unica possibilità di salvezza per il piccolo yōkai. Dalla terra umida e limacciosa del cimitero sorge Kitaro. Non è un caso che il protagonista si chiami Mizuki: simbolicamente l’autore rappresenta se stesso come l’ideale patrigno dell’orrendo e strano spirito Kitaro.
Nonostante le cure e l’educazione umana, Kitaro non sembra voler rinnegare la sua indole, prediligendo alla compagnia degli umani quelli degli spiriti che infestano i cimiteri. Insieme a Medama-oyaji, il bulbo oculare del padre defunto, Kitaro vivrà una serie di avventure, alcune delle quali raccolte nell’antologia citata.
Le origini e la natura ambigua del personaggio, sospeso tra due mondi, quello degli uomini e quello degli spiriti, ha un suo parente prossimo nel Cat Eyed Boy di Kazuo Umezu. Ma, se il piccolo ragazzo gatto si muove ai margini di un mondo ostile, in cui tanto gli uomini quanto gli yōkai sembrano odiarlo, l’orbo e capelluto Kitaro pare invece ben integrato. Al disinteresse per la sorte degli uomini manifestata dalla creatura di Umezu, Kitaro mostra la voglia di impiegare le sue doti per soccorrere i più deboli.
Le storie raccontate da Mizuki hanno un tono favolistico, la dimensione macabra è addomesticata e quasi sempre le creature che popolano le pagine dei suoi manga sono benevoli come il piccolo Kitaro. Eppure, in filigrana si può leggere molto di più: il racconto La grande guerra degli yōkai, come evidenzia Marco Zappa nella postfazione al volume, pur seguendo gli stilemi leggeri degli shōnen riflette sull’assurdità della guerra, sulla violenza cieca senza mediazione e senza né vincitori né vinti.
Quanti hanno letto Verso una nobile morte avranno fatto esperienza di come passo dopo passo il tono umoristico e disincantato si faccia sempre più claustrofobico sino alla totale resa dinanzi all’agghiacciante realtà della guerra. Kitaro alla fine del conflitto con gli spiriti occidentali (una metafora più che lapalissiana) ha un’espressione esausta e afflitta come se lo scontro lo abbia esposto al male in maniera irreparabile.
Con indosso il magico chanchanko, che lo rende quasi invulnerabile agli attacchi dei nemici, Kitaro vive mille avventure: muore e rinasce dal frutto di un albero rinsecchito, sconfigge esseri incorporei, finisce all’inferno per poi ritornare con facilità, incontra creature che popolano da millenni gli incubi dei giapponesi e che Mizuki cerca di salvare dall’oblio.
È proprio quest’oblio, insieme alla violenza immotivata e cieca della guerra, quello che spaventa il mangaka. Con la destra ridotta ad un moncherino e la sinistra operosa e infaticabile, Shigeru Mizuki ha ricreato un mondo popolato da esseri destinati a perdersi, ha piegato l’intrattenimento a un fine più importante, incarnando il ruolo che agli anziani del villaggio era da sempre attribuito, quello di farsi cantore di un passato immemoriale e di un corpus di leggende complesso, affascinante e ricco, in cui coraggiosamente il piccolo Kitaro senza un occhio continua a muoversi e ad incarnare i sogni del suo creatore.
Le spaventose avventure di Kitaro
di Shigeru Mizuki
traduzione di Valentina Ghidini
J-Pop, novembre 2018
400 pp., b&n
15,00 €
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