Entrare dentro un libro di Marco Corona (Krazy Khalo, La seconda volta che ho visto Roma, In mezzo all’Atlantico) vuol dire fare un passo nel buio e finire in un mondo complesso. Non fantastico, ma solido quanto quello reale, seppur distante.
La prima pagina non si cura di introdurre il lettore a criteri, principi e contesti alieni a quelli della realtà più contingente (quella al di fuori della pagina). Lo porta lì dentro e poi sono fatti suoi. Eppure non hai il tempo di chiederti cosa ci faccio io qui.
Con La galaverna succede davvero così. Con un’inquadratura che arriva da lontano e gradualmente si insinua in scenari interni e reconditi, mostra una donna e un bambino in un bosco, al freddo e affamati. Sono i pretesti ideali di una favola che difficilmente avrà un lieto fine. Vediamo la donna avere a che fare con vecchi astiosi e viscidi, streghe e un clima ostile.
Il racconto di Corona scorre con discontinua successione quando si tratta di passare da uno scenario a un altro, ma con densa liquidità nell’esplicarsi dei singoli atti. È favola e scorre come musica. L’occhio del narratore, una volta posatosi, si muove sempre con graduale disinvoltura. Lo strumento suonato da Corona tra una vignetta e l’altra modifica con naturalezza le figure, facendole muovere e cambiare agilmente.
Ciò che succede tra una vignetta e l’altra di La galaverna non ha a che fare con una regia cinematografica, dal ritmo temporale serrato e realistico. Nonostante l’esplicita frammentarietà della suddivisione in vignette, con gusto musicale, il racconto di Corona scorre di nota in nota, di battuta in battuta (anzi, di vignetta in vignetta e di pagina in pagina). Ogni immagine è congiunta in maniera fluida, come nel blues e nel jazz si uniscono le note tra loro giustapposte in una scala per contrappunto e armonia, magari grazie al raccordo di una blue note.
La storia è quella di una donna, cresciuta in mezzo ad altre donne, che lotta per salvare il proprio bambino. Gli uomini sono figure riprovevoli, di scarsa utilità nel suo percorso, e appaiono solo per sputare sentenze inutili e parole vessatorie. Ci sono poi altre donne, delle streghe, figure misteriose ed estremamente forti.
Annoiato forse dal leggere storie di uomini e delle loro avventure o per innamoramento delle figure femminili e della loro forza − o chissà per quante altre ragioni, ma queste due basterebbero − Corona canta un’ode alle femmine, con ritornelli epici che ne celebrano le gesta e versi dileggiatori nei confronti degli uomini che le circondano. Allo stesso modo sembra cantare anche la natura, la sua magia, scrutabile ma inafferrabile. Di fascino memorabile sono le sequenze in cui, per sequenze di appena tre vignette, ci si avvicina a un insetto o ci si addentra tra le frasche di alberi, o si penetra lo sguardo della protagonista.
Si era visto Corona dipingere colori acidi e psichedelici, lo si era visto tratteggiare maniacalmente figure dalla plasticità penetrante, ma finora forse mai lo si era visto incidere la pagina di un segno così netto e graffiante, allo stesso tempo stendendo neri così profondi. Corona elabora sempre una cifra diversa in ogni storia che racconta. Forse solo in Benemerenze di Satana l’eclettismo si manifesta di capitolo in capitolo, per necessità di seguire gli effluvi di pensieri di Domenico Vaiti, che decenni prima aveva scritto quelle memorie traposte in fumetto.
In La galaverna, rispetto ad altri lavori, Corona rappresenta scenari che accecano per i contrasti di bianchi e neri, apparentemente senza perdersi nei dettagli, ma in realtà avendo ben chiaro tutto ciò che succede in quei boschi di montagna, tra gli animali che vi si muovono – persino i più minuscoli – e gli spiriti che li popolano.
La galaverna
di Marco Corona
001 Edizioni, novembre 2018
Brossurato, 200 pp., b&n
18,00 €