Siamo stati felici soltanto nelle epoche in cui, avidi di annientamento, con entusiasmo accettavamo il nostro niente.
Emil M. Cioran
Interni è una sconfitta. In una fedele presa in carico dell’etimo – senza alcun tradimento alcuno, sebbene le parole spesso e volentieri lo siano – quella che a oggi rappresenta l‘opus magnum di Francesco “Ausonia” Ciampi è un’inesorabile sconfitta, cioè un compimento, alla maniera quasi occidentale, ma anche un annientamento (del fumetto come opera d’arte).
Dopo aver dato alle stampe la rilettura di Pinocchio e aver giocato con il medium in P-HPC – Post-Human Processing Center, Ausonia pubblica il primo tomo di Interni: che si presenta come una specie di ritorno alla narrazione classica, alla forma quasi canonica del fare fumetto, anche se sin dalle prime pagine c’è un’insidia, ma quello che stupisce è la semplicità del tratto – sicuramente netto e volutamente allineato con un gusto italiano, quasi da bonellide – e il vezzo nell’uso di una carta che rende il tutto polveroso, brulicante, in fin dei conti mitteleuropeo.
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Siamo nella Germania del secondo dopoguerra e conosciamo le sorti di un miserabile scrittore che risponde al nome di Albert Gruenwald, il cui nome allude già ad altro, ma il cui aspetto è smaccatamente indicativo delle sorti che lo attendono. Il mondo in cui veniamo introdotti di peso è un mondo vivo, per l’appunto, brulicante di vita, ma di una vita che, nonostante la familiarità delle azioni quotidiane, sembra aliena. La Berlino ritratta è popolata da insetti: blatte, falene, mantidi, larve. Insetti, kafkiani, ma che inesorabilmente fanno pensare anche e soprattutto al tono profetico e apocalittico di un Albert Caraco[1].
Il primo volume scivola così, pagina dopo pagina, seguendo le più ovvie norme di storytelling, senza brillare per inventiva, ma nel contempo forte del riverbero delle allusioni infratestuali. Ma già qualcosa solletica blandamente l’attenzione del lettore: che tutto non sia un enorme gioco al rimpiattino? Ausonia non si sta nascondendo dietro le fattezze dello scrittore, non è in corso una metamorfosi, non ci sta gridando in faccia la sua sconfitta come narratore? Non siamo in presenza di una palese mise en abyme così come – in maniera un po’ incompleta e ambigua – la teorizzava André Gide nel suo Journal[2]? Secondo Lucien Dällenbach, autore del fondamentale Le Récit Speculaire. Essai sur la mise en abyme. sì:«La mise en abyme gidiana [è] un accoppiamento o un gemellaggio di attività che vertono su un oggetto similare o, se si preferisce, come un rapporto di rapporti, essendo la relazione di un narratore N con il suo racconto R in omologia con quello del personaggio narratore n con il suo racconto r»[3].
Nella charta, il testo fondativo, Gide usa la parola “interno”, lo fa in riferimento alla pittura di Memling e di Quentin Metzys, in misura minore del Velasquez di Las Meninas (sull’elevazione a potenza del rapporto tra soggetto creatore e soggetto ritratto e sulle funzioni di rappresentazione, Michel Foucault ha scritto pagine molto illuminanti[4]), ma è indubbio che dovremmo risalire sino a Van Eyck. Nel Ritratto dei coniugi Arnolfini, compare un piccolo yeux de sorcière, in cui il pittore si riflette nell’atto in cui ritrae la coppia nella sua camera nuziale.
Ma, anche il fumetto non è scevro al rispecchiamento e alla duplicazione dei livelli: sin dai primi vagiti il fumetto ha sondato i suoi limiti materiali e concettuali. Basta pensare alle acrobazie linguistiche del Krazy Kat di Geoge Herriman o alle vertigini architettoniche di Winsor McCay, passando per le citazioni di Bill Watterson e Garry Trudeau. Ma è soprattutto nel fumetto di genere – penso ad Alan Moore o Grant Morrison – o in quello autoriale che i limiti sono stati affrontati e battuti in lungo e largo, generando opere-mondo di estrema complessità come quelle di Art Spiegelman, Chris Ware, Daniel Clowes, Fred, Milo Manara in cui il narcisismo diegetico spesso si legava a quello linguistico.
Al di là dell’idea di rispecchiamento (e di come essa intrattiene relazioni complesse con l’idea mimetica e citazionista dell’arte), la tecnica araldica, nel suo comparire, provoca vertigine. Un brivido scorre lungo la schiena del lettore: il patto tacito sancito tra autore e lettore viene incrinato e la natura finzionale dell’opera d’arte viene esposta. Questa vertigine può assumere sfumature diverse, dal semplice brivido ludico ed erotico all’abisso.
All’interno dell’opera si apre dunque una frattura: una fessura attraverso cui possiamo fissare per un attimo il soggetto. Ausonia lo fa di soppiatto, utilizzando le didascalie e sostituendo i suoi pensieri a quelli di Albert. Ma, questa vertigine ad un certo punto si trasforma in qualcosa d’altro. «L’aspetto più suggestivo della mise en abyme è senza dubbio la sensazione e l’esperienza della vertigine. Ma per suscitare questa sensazione non è indispensabile presentare l’infinito, basta evocarlo, accennarlo. […] l’esperienza della vertigine non può essere che breve. Una vertigine prolungata indebolisce, svanisce inesorabilmente»[5].
Svelato l’artificio letterale – se di letteratura possiamo parlare in presenza di un fumetto, tesi questa che lo stesso Ausonia osteggia, attaccando il lemma graphic novel e su cui non possiamo che trovarci pienamente d’accordo[6] – non resta che varcare la soglia, esporsi totalmente.
Facendo questo, Ausonia duplica i livelli di lettura, rallentando il ritmo, ponendo delle pause e delle divagazioni metalinguistiche, che fanno dello spazio bianco un luogo in cui convergono da una parte la finzione letteraria, dall’altra il gioco meta-linguistico, ma che rivelano in fondo una crisi. Se nella prima digressione, il crinale non viene superato giocando sui diversi significati del racconto, nella seconda digressione (decisamente metalinguistica) il contrattempo diventa materia del racconto.
Nell’esposizione quasi selvaggia della finzione, Ausonia diventa un inquisitore: setaccia con fare autoptico il corpo esanime dell’intrattenimento, tergiversando e allontanandosi progressivamente da quello che dovrebbe essere l’intento di ogni narrazione: intrattenere il lettore nelle fitte maglie di una trama che funziona come un dispositivo a vapore, in quale, in maniera solerte, procede verso la risoluzione, soddisfacendo così un desiderio recondito (diventato negli ultimi anni vera e proprio patologia).
Tanto il gioco quanto la più severa decostruzione della finzione romanzesca «manifestano con l’intensità dei loro effetti l’importanza del limite che essi s’ingegnano di superare a scapito della verosimiglianza, coincidente proprio con la narrazione stessa: frontiera mobile ma sacra fra due mondi: quello dove si racconta, quello che si racconta»[7]. L’inquietudine che ne deriva è borgesianamente quella della con-fusione: siamo tutti personaggi di un racconto. La struttura simbolica scelta per descrivere la forma del racconto (e lo smarrimento) è quella di una fabbrica dismessa, in cui non sono solo i personaggi a perdersi, ma soprattutto lo siamo noi inseguendo le divagazioni del narratore.
La gabbia – forzata a livello modale – diventa un limite: un labirinto in cui siamo intrappolati insieme al narratore. Il regresso, in questo caso, potrebbe essere ad infinitum, generando un abisso i cui confini rischiano di degenerare nella farsa. Ma, questo meccanismo di rinvio si spegne nel momento in cui l’autore si mostra al lavoro sulla pagina.
Scrive Berta:«Nel corpo del testo…si ripiegano l’uno sull’altro i due versanti…lo scrittore che parla [e] lo scrittore di cui si parla»[8]. Ma, per quanto Interni proceda come un meta-fumetto e nel contempo come saggio a fumetto, cercando di discernere la natura stessa del medium, così da ritagliarsi uno spazio di autonomia rispetto alle letteratura, ad un certo punto il gioco a rimpiattino tra Albert, Ausonia e l’editor mentale si schiude a qualcosa di più che una semplice riflessione sull’atto creativo.
Il meccanismo (o la macchina) del racconto non prevede soste o brusche decelerazioni: la vita con i suoi tempi dilatati, gli scarti improvvisi, le anomalie repentine, i contrattempi e le pause forzate deve necessariamente passata al setaccio, così da discriminare l’utile dal banale. Il fine è creare dispositivi che funzionino. Ma l’altro che dipana e rompe l’ordito è la vita stessa.
Paradossalmente, la riflessione sulla stessa e sulle sue necessità intrinseche, la logica economica cui la creazione è sottomessa, per forza di cose, il concetto stesso di consumo produce tanto lo sbandamento del racconto, quanto l’obbligo alla conclusione – tutto ha un inizio e una fine[9] – e, in fin dei conti, alla catastrofe. Tzvetan Todorov sapeva che «Lo sforzo del racconto, di raccontarsi attraverso un’auto-riflessione, non può che risolversi in una sconfitta […] Questa vertigine infinita non cesserà finché il discorso non acquisirà una perfetta opacità: in quel momento il discorso dirà se stesso, senza aver bisogno di parlare di se stesso»[10].
La piena opacità è raggiunta da Ausonia nel collasso dei livelli di scrittura, nella decisione repentina nel corso del terzo affascinante tomo di Interni di concludere l’enorme farsa, in maniera quasi buffonesca, con un coup de théâtre che irride ad ogni logica di verosimiglianza[11]. Dopo centinaia di pagine in cui l’onirico e il disfacimento – con rimandi al nouveau roman a fumetti di Martin Vaughan-James più che all’ovvio Dave McKean – di divagazioni in giro per la Russia di Putin, dove il graphic novel autobiografico collide con il “graphic journalism”, ma forse irride entrambi, di ondivaghe analisi sull’arte e sulla creazione in quanto tale, Ausonia realizza che l’unica soluzione possibile – l’unica forma di liberazione – è l’ecpirosi: l’incendio degli originali e la consapevolezza unica e fondamentale che un fumetto ontologicamente esiste solo in quanto prodotto di un’industria e che il canale del dolore produce solo copie.
Questa edizione – che raccoglie finalmente in unico volume i tre tomi apparsi tra il 2009 e il 2011 per l’editore Double Shot – non è che l’ennesimo simulacro di un work in progress, potenzialmente infinito. Le oltre 500 pagine di Interni sono una testimonianza della sconfitta in cui ogni autore può potenzialmente incorrere, della menzogna che è sottesa ad ogni racconto, ma è soprattutto un enorme sberleffo all’industria dell’intrattenimento. Al centro vi è un soggetto, la noia, il dolore, la sofferenza, le zeppe, le suture, l’anomalia poetica, che è non altro che il riflesso del nostro bisogno atavico di storie e della maniera bulimica con cui le consumiamo.
Quello che resta sono solo ceneri e il nostro niente.
[1]
A.Caraco, Bréviaire du chaos, Éditions L’Âge D’Homme, Lausanne 1982, tr..it. Breviario del Caos, Adelphi, Milano 1982.
[2]
A.Gide, Journal 1889-1939, Pléiade Gallimard, Paris 1948. p.41
[3]
L.Dällenbach, Le Récit Speculaire: Essai sur la mise en abyme, Seuil, Paris, 1977, tr. it. Il Racconto speculare: saggio sulla mise en abyme, Pratiche, Parma, 1994, p.25.
[4]
M.Foucault, Le mots et le choses, Éditions Gallimard, Paris 1966, tr.it. Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1978, pp. 17-39.
[5]
G.Bottiroli, Prefazione, in Luca Berta, Oltre la mise en abyme: teoria della metatestualità in letteratura e filosofia, Franco Angeli, Milano, 2006, p.9.
[6]
A proposito Andrea Tosti scrive:«La figura dell’odierno graphic novelist è molto diversa da quella, un po’ piratesca, a volte improvvisata e sicuramente spesso in bolletta del fumettista dei decenni precedenti. Per come si mostra e per come viene percepito il graphic novelist è del tutto simile al tipo, idealizzato, del romanziere. Ha perso, per così dire, il proprio anonimato da ingranaggio della catena di montaggio dell’industria del comics. Da operaio, artigiano, pur versatile e creativo, aspira – legittimamente – a essere considerato un artista o un narratore riconosciuto. Per questo si paga il prezzo di qualche compromesso, che va nella direzione di un ecumenismo di stampo letterario, della riduzione della complessità grafico-compositiva, della relegazione delle forme sperimentali in ghetti non dissimili da quelli da cui il fumetto cerca di allontanarsi.», in A.Tosti, Graphic Novel. Storia e teoria del romanzo a fumetti e del rapporto fra parola e immagine, Tunué, Latina 2016, pp.706-7.
[7]
G.Genette, Figures III, Editions du Seuil, Paris 1972, tr.it. Figure III. Discorso del racconto, Einaudi, Torino, 1976, p.159.
[8]
L.Berta, Oltre la mise en abyme…, cit., p.67.
[9]
A proposito si legga, Aldo Tagliapietra, Kant e l’Apocalisse, in Immanuel Kant, La fine di tutte le cose, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 47-122.
[10]
T.Todorov, Poétique de la prose, Éditions de Seuil, Paris 1971, Poetica della Prosa, Theoria, Roma Napoli, 1989, p.31.
[11]
A tal fine sarebbe anche interessante notare come il tutto sia condotto con una sequenza totalmente antispettacolare, fuori da qualsiasi gabbia e che ricorda i lunghi dialoghi che l’ultimo Eisner inseriva nei suoi fumetti sulla questione ebraica.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Interni. Edizione integrale, edito da 001 Edizioni.