Ci siamo, il più grande ranger della storia compie 70 anni. In questi giorni Bonelli celebra Tex, il suo eroe principale, anzi il suo mito fondante. E celebra quindi le gesta di un eroe che, in stagioni diverse, ha attraversato a destra e a manca uno spazio fantastico – il Vecchio West – che possiamo più o meno racchiudere in 40 anni di storia virtuale, per un tempo quasi doppio di storia editoriale.
Qui su Fumettologica abbiamo raccontato varie angolazioni e spigolature della vita e delle gesta dell’eroe creato da G.L. Bonelli («un romanziere prestato al fumetto e mai più tornato indietro», come amava definirsi).
Dai 10 episodi memorabili che fecero la sua storia alla nuova serie a fumetti sulle sue gesta da giovane. Un ultima tappa editoriale che in qualche modo deve raccontare storie ancora più fresche e, soprattutto, colmare un po’ di lacune e sovrapposizioni nella continuty del West made in Bonelli. Una continuity che forse il pubblico più sofisticato dell’era delle serie televisive avverte mancare nell’universo Bonelli. Almeno un po’ (altrimenti faremmo torto al lavoro di una vita soprattutto di Mauro Boselli).
Un mio personale contributo, una piccola incursione con lo sguardo che ha la prospettiva del racconto di “science fiction”, è stato un articolo dedicato al rapporto tra Tex e la fantascienza. Un rapporto tutt’altro che timido e anzi, secondo alcuni (tra cui io) particolarmente e insospettabilmente fruttifero. Lo sguardo raccoglieva le tratteggiature più esplicite dell’argomento, con storie in cui si inserisce l’elemento alieno, extraterrestre. Figlie degli anni in cui viene concepito e soprattutto del motivo per cui viene concepito (anni Cinquanta e Sessanta, per diversificare un po’ la trama e guardare al nascente cinema del genere, senza però snaturare l’identità da ranger dell’Arizona di Tex). Rileggendo oggi quelle considerazioni mi rendo conto che lasciano aperto anche un altro argomento, forse più astratto ma secondo me non meno interessante e, consentitemi, anche più intrigante.
Ho definito il Tex che risulta dalla sua grande narrazione settantennale «un personaggio pragmatico e filosofico», nel senso della sua capacità di guardare con distacco la vita, pensare con acutezza (soprattutto nella sua capacità istintiva di distinguere il bene dal male e in quella invece figlia della sua maturità ed esperienza nel saper leggere e prevedere l’animo e i comportamenti umani) ma sempre con i piedi ben piantati per terra.
Tex raddrizza i torti, questa è la sua missione e il suo ideale di vita, tanto che alterna senza problemi un’esistenza nel tepee della sua tribù adottiva alle notti sotto le stelle del cielo con il deserto come materasso e una sella come cuscino. Ci sarebbe da leggere in Tex più di una traccia dello stoicismo classico, di tradizione latina, ma il nostro eroe è anche e soprattutto un uomo d’azione, che usa questa sua filosofia minimalista sostanzialmente per riempire i vuoti tra una avventura e l’altra. E in effetti non è che ce ne siano di molto lunghi: il carnet delle sparatorie, scazzottate e lanci di dinamite di Tex e dei suoi pards è sempre molto fitto.
Tuttavia, c’è anche di più. Nella grande narrazione di Tex c’è un tema che ricorre in maniera più complessa che è non il semplice elemento “esotico” della tecnologia e biologia aliena o dell’alieno stesso. C’è infatti un conflitto, ma lasciatemelo definire meglio come una “frizione” tra magia e metodo scientifico. C’è insomma una contrapposizione fra due principi di due (anzi tre) comprimari che si muovono attorno a Tex: da un lato l’amico fraterno El Morisco (la “scienza” e comunque il pensiero razionale ed erudito), dall’altro il cattivo di sempre (e suo figlio) cioè Mefisto e Yama, il lato “magico” delle narrazioni texiane.
Tex è uomo d’azione e nella sua vita deve affrontare (e superare) ostacoli impossibili per la maggior parte delle altre persone. Ha doti eccezionali, soprattutto in termini di forza e riflessi oltre a una mira senza pari, e ha coltivato anche un rapporto privilegiato con la dea bendata. La sua tempra impossibile da spezzare e il suo carattere, volto interamente e senza tentennamenti al buono, lo rendono un cliente molto difficile per qualsiasi narratore. I conflitti devono infatti svolgersi al suo esterno: un po’ come il tenente Colombo, il cui lavorio mentale è il vero mistero, mentre le tensioni e le ansie avvengono sempre nell’altro campo, cioè in quello dell’assassino, del quale sappiamo tutto, dai movimenti (per futili o sensati che siano) alla capacità di escogitare piani e alibi sempre più complicati e sostanzialmente perfetti se non fosse per un unico, piccolo dettaglio.
El Morisco è un personaggio molto particolare. Viene dall’Egitto (è nato a Menfi, la città dell’oracolo) e vive in Messico, a Pilares, assieme al suo fido e forzuto assistente Eusebio, uomo dal sangue azteco. El Morisco compare in una serie di storie (a partire da Il tesoro del tempio, n.77, a Il principe Tulac e Il signore dell’abisso, nn.101-103 e poi in vari altri, compreso Ritorno a Pilares, del quale ho già parlato diffusamente) che pian piano cambiano così come cambiano sia le stagioni di Tex che la natura dei suoi avversari.
El Morisco è prima l’erudito esperto universale poliedrico da consultare su temi che più che scientifici sono di storia della scienza o di cultura (in questo caso è un sapiente con competenze pre-scientifiche e pre-illuministiche) e poi il vero e proprio scienziato che, con il suo lavoro di analisi anche sul campo – che un paio di volte lo mette anche nei guai –, riesce a tirare le fila di un mistero risolvendolo dal punto di vista logico e strategico. Dal punto di vista tattico ovviamente ci pensano Tex e i suoi pards e, soprattutto, le loro colt.
Accanto a questa anima esterna di Tex, volta come lui verso il bene ma capace di flettere i muscoli della mente nelle vicinanza dell’occulto e del magico, compaiono i due cattivi che più di altri hanno incarnato il rapporto tra Tex e il principio del male.
Ora, qui non è il caso di aprire una disputa filosofica e religiosa sul rapporto che Tex ha con la natura dell’essere umano (buono o cattivo?) e sull’esistenza o meno di un principio universale del male. C’è un Grande Avversario nella Weltanschauung di Tex? La sua risposta è il rumore del tamburo della sua colt mentre gira quando viene ricaricata, una pallottola dopo l’altra. E infatti non l’apriremo.
Però sia Mefisto che Yama sono messi appositamente all’incrocio tra normale e soprannaturale. Anzi, sono due cattivi che, per odio puro, superano un segno che li porta a contatto (forse) con qualcosa di trascendente, di più grande della loro e nostra natura.
Mefisto, cioè Steve Dickart, è un mago da strapazzo, un vecchio pazzo scarmigliato che però per odio – soprattutto nei confronti di Tex e dei suoi pards – riesce a stringere un mai esplicitato patto con il Male per trasformarsi in un vero essere dotato di poteri paranormali.
Attenzione: non è un essere onnipotente o magico, anche se la tensione del raccontare gioca molto spesso con questo aspetto. Invece, ha poteri che potrebbero essere anche interpretati in maniera più pragmatica senza sconvolgere la fisica e la meccanica. Però tutto questo viene lasciato da Bonelli e dai suoi volontariamente in secondo piano. Serve a mettere una pulce nell’orecchio ai lettori più colti (occhio che questo non è un essere soprannaturale, è più una specie di X-Man del Vecchio West, e magari anche la sua demoniaca e onnisciente sfera di cristallo è solo un marchingegno alieno a noi sconosciuto) e a tenere a bada i lettori meno preparati con qualcosa che sia comunque spaventoso ma anche inafferrabile, quasi impossibile da raccontare.
Inoltre, Mefisto serve perché è l’arcinemico di Tex, l’unico davanti al quale la mano infallibile di Tex tremi. È la sua nemesi (che Bonelli sfrutterà anche nel futuro con varie apparizioni già scritte da Boselli). Il mago è anche il padre di Yama, cioè Blacky Dickart. Il suo nome d’arte è quello induista del Deva della morte, “colui che irrimediabilmente trattiene con sé”. È il figlio del mago e della cartomante Myriam e vuole vendicare il padre – che peraltro non risulta essere poi morto. Per farlo consacra la sua esistenza al bisogno tribale di portare avanti quella che è sostanzialmente una faida tra la famiglia Dickart e quella Willer.
Tuttavia è Yama quello che ha una relazione più esplicita con l’occulto, dato che le potenze infernali che l’hanno adottato sono anche quelle che gli tolgono memoria dei suoi poteri per un sacco di tempo, cioè trent’anni di storia editoriale, dall’albo 268 (il finale della storia che si conclude con I figli del sole) all’inizio dell’albo 673, Il segno di Yama, del 2016. In questo albo si scopre che il redivivo Yama si è ridotto a fare per trent’anni il lanciatore di coltelli e il saltimbanco con la madre per sopravvivere nel Vecchio West. Ma durante una notte di tempesta, il cattivo peggio inserito nella storia di Tex (ritorna sempre all’insaputa sia di Tex che di se stesso) recupera i poteri magici donatigli dall’occulto e vede morire sua madre, Myriam, fulminata letteralmente durante la tempesta da Mefisto.
Soluzione di sceneggiatura debolissima (perché non far fuori anche Tex con un fulmine e sconfiggerlo una volta per tutte?) ma che fa capire come il piano narrativo si sia riposizionato e adesso l’occulto sia invece la risposta alternativa, la strizzata d’occhio a un pubblico altrimenti disincantato e abituato a leggere la normalità della scienza e della tecnologia in qualsiasi manifestazione del magico e del fantastico.
In ogni caso, nel conflitto tra scienza e magia, tra bene e male, tra luce e occulto (con tuttavia ampi tratti dei confini che svaniscono e di territori dello spirito che si sovrappongono), Tex rimane la bellezza incontaminata attorno a cui tutto ruota. Una specie di Biancaneve il cui risveglio è tremendo, perché porta con sé la polarizzazione assoluta della narrazione. Quando tocca a Tex, i buoni prevalgono e i cattivi devono inventarsi vie di uscita ancora più laboriose per portare a casa la pellaccia e poter tornare, un domani, a sfidare i ranger.
Aquila della Notte conosce e soprattutto accetta, per la sua natura pragmatica, le mille manifestazioni del reale: la spiritualità indiana, le leggende messicane, l’influenza di civiltà sconfitte da millenni, la presenza di mostri più o meno reali (Big Foot, ad esempio) e si nutre nella sua Grande Narrazione di immaginari diversi.
C’è lo spirito del romanzo gotico, figlio delle teorie spiritistiche e soprannaturalistiche dell’Ottocento (influenzate dai russi), che immaginano l’uomo come unica creatura in grado di impregnare la natura del suo umore psichico: sentimenti forti racchiusi dalle formule della rabbia, dell’odio, del desiderio frustrato. Umori psichici che abitano e infestano pezzetti di realtà materiale: oggetti, case, caverne, nuvole, alberi. I templi (ah, i templi). Persino altre persone. E poi l’uso di sostanze più o meno naturali, cioè terrestri o comunque di origine meteorica, per costruire armi, per modificare l’animus delle persone, per mettere in scena un teatro che deve atterrire e spaventare ancora prima che dominare gli altri. Il tutto mescolato a quello che Tex conosce bene, cioè le miserie e gli egoismi, oltre agli appetiti, della natura umana, che portano gli esseri viventi a sbagliare, a trasformarsi, a diventare cattivi e quindi, inevitabilmente, a incorrere nel principio punitivo incarnato da Tex Willer.
La bolla di realtà pragmatica e concreta in cui vive Tex Willer è forse l’unico spazio intangibile dal soprannaturale, che riesce a toccare e cambiare tutto tranne che la parte più protetta dell’animo umano, rappresentata da Aquila della Notte. Il personaggio di Bonelli non ha neanche patito in maniera straordinaria, almeno rispetto ai dolori dai quali sono nati i suoi principali avversari. Però la sofferenza è una energia estremamente soggettiva, perché è in realtà l’indicazione di uno stato al quale viene sottoposta la sensibilità dell’animo umano.
E qui l’immensa riserva di energia di Tex Willer è quella che fa la differenza: la vita monacale dell’eroe bonelliano (una scelta quasi da eremita contemplativo delle distese infinite del Grande Ovest) oramai è soltanto sua e forse sarà tale ancora per poco. Nella rivisitazione dei personaggi primari di Tex, cioè i suoi tre pards, le donne sono rientrate prepotentemente (per Kit Willer grazie alla sua giovane età, per Kit Carson come esplicitazione della sua da tempo favoleggiata predilezione per le “gonnelle” nei vari saloon del West che ne avrebbero rammollito l’animo) e l’eterno femminino rimane fuori soltanto per chi è vedovo (Tex e Tiger Jack), cioè fedele alla sua compagna scomparsa così come è fedele ai suoi ideali.
La costruzione della Grande Narrazione di Tex qui appare più esplicitamente in contatto con un altro archetipo letterario, cioè quello del “bel tenebroso”. Attenzione, qui ci sono ovviamente un po’ di sottolineature e di distinguo da fare: il bel tenebroso non è l’antieroe che se la tira, quello che fa colpo e piace alle donne (sul dizionario è indicato come “uomo di bell’aspetto ma cupo e sdegnoso, ostentatamente avvolto in un’aria di affascinante mistero”).
No, per la storia e critica della letteratura il bel tenebroso è innanzitutto un cattivo, spietato e piuttosto micidiale. Appartiene alla letteratura romantica e va dallo Sturm und Drang tedesco fino a tutto l’ottocento: brama l’assoluto, odia il tedio, è spinto da un insaziabile desiderio di desiderare. Il bel tenebroso è irrequieto e inquieto, capace di male perfetto e sensualità perfetta. I bei tenebrosi sono monumentali narcisi, egoisti che rischiano tutto per l’avventura, per il brivido delle nuove sensazioni. Prototipo Lord Byron, ma anche Jack lo squartatore, il bel tenebroso è un reazionario che cerca rifugio nella reazione pre-rivoluzionaria e rifiuta qualsiasi forma di modernità, intesa come scardinamento della fame di futuro che nutre il resto della società dei consumi.
I bei tenebrosi combattono come crociati e non come rivoluzionari. Anzi, in qualche modo si tengono ben lontani da quella mobilità sociale e da quell’aspirazione alla giustizia e soprattutto all’eguaglianza che non comprendono e che è la loro kriptonite. L’eterno ribelle, tenebroso e fatale, è in realtà la creatura dell’immaginario che si trasforma nel vampiro, nel seduttore definitivo, nell’affamato di sensazioni e di emozioni destinato a trasformarsi in zombie e a vivere oltre il suo tempo. Gustave Flabuert definiva gli uomini fatali “persone che hanno il malocchio” e la jella diventa la loro cifra stilistica.
Tutto questo per ribaltare una prospettiva legata al sapore decadente che la rappresentazione cinematografica classica hollywoodiana del Vecchio West ha sempre avuto. Il cavaliere che raddrizza i torti e poi si allontana nel tramonto rappresenta una ingenua e generosa incarnazione del sogno americano che, al tempo in cui viene messa in scena sul grande schermo, è chiaramente scomparsa. Parlo della traiettoria cinematografica americana che va dagli anni Venti agli anni Sessanta e che è a una-due generazioni di distanza dai veri pistoleri di Dodge City, un po’ come l’Italia del Secondo dopoguerra rispetto al mito fondante del Risorgimento e dei garibaldini. Gli eroi belli e maledetti, cioè jellati, tenebrosi, assassini, capaci di ogni nefandezza per il rispetto del proprio codice, sono una cosa.
Dall’altra c’è il non-luogo della Grande Narrazione bonelliana di Tex: ottimista, positivista, animata da uno spirito indomabile, da una costante caratterizzazione dei suoi personaggi principali (la coppia Willer-Carson diventa nel tempo anche un potente strumenti di commedia e alleggerimento della narrazione) e che non risente per niente del mito del bel tenebroso. Come mai?
La mia teoria è che Tex abbia esternalizzato questo aspetto della sua personalità iniettandolo nei suoi avversari più metafisici e soprannaturali. Così come ha preso di peso la pesantezza della cultura e del metodo scientifico e l’ha trasferito sulle spalle di El Morisco e pochi altri. Per sé Willer ha tenuto invece un metodo logico-matematico perfettamente funzionante e assolutamente poco spettacolare: Tex intuisce la prossima mossa del suo avversario così come decodifica il più subdolo piano del malvagio di turno o sonda e tocca la natura più intima di chi gli sta di fronte semplicemente perché è un uomo freddo e intelligente. Empatico e calmo. Capace di spendere quei cinque minuti in più – che i suoi riflessi fenomenali comprimono in cinque centesimi di secondo – eliminando tutto quel che non è necessario, che non serve, e concentrandosi solo sull’essenziale.
Tex è un fascio di luce coerente, il suo colore è quello assoluto dei suoi principi e di una distinzione inattaccabile tra ciò che è bene e ciò che è male, senza alcuna ambiguità morale (spazzando via cinque secoli di tragedie greche e altri quattro secoli di melodramma italico) e senza alcun possibile scrupolo.
La capacità di tenere fuori dalla sua testa la scienza e la magia, affidandosi a una logica essenziale ed esiziale, è un portento narrativo perché rende Tex il personaggio tridimensionale meno sovrastrutturato del pianeta. Scevro da pregiudizi, incapace di provare attaccamenti o desideri che non siano legati alla lealtà, empatia e senso di giustizia.
È capace di vero amore? Non lo sappiamo, perché, a parte i racconti che più di recente emergono sul Tex giovanile, Aquila della Notte sembra essere sempre più un principio ordinatore dell’universo, un dispensatore di premi e punizioni (più le ultime che non i primi, in verità) attraversando gli sconfinati orizzonti del West come un cursore che, novello Sisifo, ha deciso di raddrizzare a mano tutti i torti, uno dopo l’altro, del continente nordamericano. La cosa favolosa è che, un anno dopo l’altro – e le sue avventure sono lì a testimoniarlo – ce la sta facendo.