Nel 1755 un enorme terremoto rase al suolo Lisbona. Voltaire, impressionato dalla portata della catastrofe, decise di parlarne in Candido, o l’ottimismo, stigmatizzando e criticando la posizione del filosofo del migliore dei mondi possibili, Gottfried Wilhelm von Leibniz. Il pensatore prussiano con i suoi Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal aveva coniato il termine teodicea, in soldoni una branca speciale della teologia che aveva come compito quello di studiare il legame tra la giustizia divina e la presenza del male, ma che in realtà aveva come finalità quella di giustificare Dio dinanzi a eventi luttuosi e incomprensibili come quello di Lisbona.
Il male – più che privazione di bene, come nella teologia agostiniana – si delineava come la migliore delle possibilità, acquistando così un’implicita necessità nel disegno della provvidenza divina. Il negativo era un atto necessario, che sfuggiva alla comprensione umana.
Sulla questione, in maniera eccentrica e personale, si interroga Giacomo Nanni nel suo ultimo lavoro Atto di Dio, pubblicato da Rizzoli Lizard. Il volume è costituito da materiali diversi, e definirlo in senso stretto un libro a fumetti sarebbe riduttivo: la prosa di Nanni, fredda e asettica, fortemente letteraria e personale, si lega alle illustrazioni, alternando lunghe digressioni documentaristiche a sezioni a fumetti. Questo rende Atto di Dio un libro polifonico, una forma di sinfonia narrativa, in cui diverse voci in maniera centripeta si muovono verso un centro, un nucleo solido.
Sin dalle prime pagine, il lettore è costretto a interrogarsi sulla natura di queste voci, sulla capacità con cui sgusciano fuori dal silenzio e si impongono nella loro presenza come un qualcosa di altro: il piccolo capriolo, che si muove tra le macchine in corsa lungo il parcheggio di un centro commerciale, lascia senza fiato il lettore con una semplice frase: «Dicono che sono un capriolo».
Poche parole che mettono in luce un abisso: lo sguardo umano è normativo, la sua voce altrettanto. Ogni cosa − che si agita e “pensa” autonomamente − è costretta nei limiti di un nome, un agglomerato di sillabe che segnano i confini di quello che in essenza è destinato a essere. Il giovane capriolo elude per un attimo quello che non si dovrebbe fare, quello che l’uomo ha deciso non sia opportuno per la specie in esame. Medesimo è lo stupore che coglie la carabina − qualche pagina più avanti − durante una giornata di caccia. Funzionale, sempre pronta a sparare, anche in rapida sequenza per colpire il bersaglio in maniera da creare meno danni possibili alla carcassa, ma cieca nel momento dell’esplosione, affidata soltanto alle capacità predatorie e agonistiche del cacciatore.
La descrizione è more geometrico e tesa a smantellare ogni pretesa antropocentrica: la domanda sul male che potrebbe agitarsi al di sotto della luminosa superficie viene affrontata di petto e dissolta in un sistema necessario in cui la presenza dell’uomo è poco più che una silhouette, un corollario o una nota al margine, in cui la sede del negativo sembra essere solo l’uomo. La reificazione del capriolo reso trofeo segue la stessa traiettoria asettica, ma rivela in questo rigore matematico una forma di sadismo innaturale.
Una prosa da documentario si incunea tra le immagini, si dispiega algida e certosina, informandoci della fauna e della flora dei luoghi in cui Nanni ambienta le vicende al centro del libro: sono note di natura storica, che illustrano con dovere di particolare la morfologia dei Colli Sibillini o del Monte Suburno. Tuttavia, il tono scientifico è screziato da uno stupore quasi popolare. Ad un tratto, quasi di soppiatto, in uno scenario quasi primitivo irrompe una presenza atavica: quella dei terremoti che hanno devastato L’Aquila e Amatrice. L’impressione è quella di trovarsi dinanzi a una forza che assomma in sé allo stesso grado una stupidità quasi infantile e una consapevolezza profonda.
Il conteggio dei morti, la ricerca del prossimo edificio da far collassare, il timore ritratto nella mimica e nella prossemica dei corpi, ombre che corrono su uno scenario quasi incantato grazie ai colori di Giacomo Nanni, sono contingenze. Il principio dell’attualismo afferma che i fenomeni geologici e climatici del presente non siano differenti da quelli del passato: il concetto di catastrofe è solo una prospettiva umana su un evento di per sé privo di qualsiasi connotazione morale. È in questo punto che l’autore assesta una forte critica a ogni forma di teodicea, riconducendo il tutto a una lettura superiore, in cui capriccio e necessità si legano. Un ossimoro in cui la volontà di male si lega alla verità della terra.
Con la sovrapposizione di diversi momenti narrativi che si incastrano e si suggellano l’un l’altro in contrappunto, Nanni sembra suggerire che non vi sia alcun male e persino dinanzi all’ambigua voce delle forze naturali dovremmo convenire che più che sintomatici atti divini, dall’imperscrutabile essenza, quello di cui facciamo esperienza è un’assenza. Quello che si muove al di sotto di tutto è un’intelligenza silenziosa, che solo in parte collide con la divinità monoteistica, ma che in realtà ne è − forse − la più netta negazione.
Atto di Dio è un libro che pretende una forte collaborazione da parte del lettore, una dedizione a quanto Nanni mette in scena, un’attenzione all’andamento quasi rapsodico della scrittura, fatta per salti, allusioni, pause e improvvise impennate emotive. Lo stile con cui Nanni conduce questo flusso di eventi è, forse, il punto di arrivo della sua lunga ricerca: dal minimalismo di Cronachette all’apologo esistenziale di Storia di una che andò in cerca della paura sino alla sintesi di Casanova: Histoire de ma fuite (inedito in Italia), Nanni ha cercato una strada originale, senza cedere a facili compromessi. La completa padronanza del mezzo l’ha condotto a una rarefazione del linguaggio e alla creazione di una forma di fumetto che deve tanto al divisionismo quanto all’optical art degli anni Sessanta, ma in cui si ravvisa la forte influenza della glicht art.
Le texture utilizzate da Nanni riflettono uno spaesamento, una forza perturbante: la realtà viene trasfigurata in un caleidoscopio psichedelico, un’esplosione di luce. La voce di Nanni manifesta in ogni tavola una forma di solitudine estrema: la sua è una ricerca che tenta di integrare la luce e il segno per descrivere la realtà. Roland Barthes riguardo all’attenzione per gli oggetti e le cose nell’opera di Alain Robbe-Grillet, padre del nouveau roman, diceva:
Il linguaggio non è […] violazione di un abisso ma dispiegamento sopra un’intera superficie; gli si chiede di “dipingere” l’oggetto, ossia di accarezzarlo, di deporre gradatamente lungo lo spazio che occupa tutta una serie progressiva di nomi, nessuno dei quali deve esaurirlo.
Contro la tendenza antropocentrica a dare un nome a tutto, di catturare l’essenza delle cose in un concetto, contro la volontà di voler definire il mistero del negativo e del senso, Giacomo Nanni lascia parlare le cose, non rese meri oggetti, ma presenze che (ci) parlano, sfidando le nostre misere consapevolezze, le nostre fragili strutture mentali con cui ostinatamente cerchiamo di arginare l’imprevedibile o forse tenere a bada la paura di essere solo una nota a margine di un qualcosa di più complesso e profondo che si chiama realtà.
Atto di Dio è un meticcio, che senza perdersi in lagnose e noiose concettualizzazioni, parla della vita attraverso l’inesauribile carica simbolica degli eventi. Tra i migliori libri dell’anno.
Atto di Dio
di Giacomo Nanni
Rizzoli Lizard, agosto 2018
Cartonato, 192 pp., colore
17,00 €