Sammy Harkham disegna lentamente: la pubblicazione di un nuovo numero di Crickets (poco più di sei numeri dal 2006 a oggi, prima per Drawn & Quarterly e ora autoprodotto) è di solito è salutata come un piccolo evento. Ma l’autore di Poor Sailor è famoso soprattutto per essere l’editor della seminale fanzine Kramers Ergot.
Infatti, al suo coraggio e alla sua lungimiranza si deve quella che all’unanimità è considerata da anni come la migliore rivista antologica di fumetto indipendente. Kramers Ergot è un oggetto indecifrabile e anarchico, in cui dal 2000 trova spazio il meglio della produzione indipendente mondiale.
La dedizione con cui Harkham cura il progetto è forse uno dei maggiori deterrenti alla sua produzione fumettistica. Tuttavia, potremmo concordare sul fatto che la qualità dei suo fumetti è inversamente proporzionale alla quantità.
Con una manciata di racconti brevi – in cui forte è l’influenza del fumetto classico americano di Segar, Crane e King – Harkam è stato capace di imporsi negli anni come una delle voci più interessanti del panorama mondiale.
L’editore Coconino Press ha cercato, prima su un numero dell’antologica Black, poi con la raccolta Golem Stories (edizione italiana di Everything Together: Collected Stories pubblicato da PictureBox nel 2012) di portare il nome con scarsi risultati. Tocca ora a Oblomov Edizioni cercare di far breccia in una platea disattenta e un po’ sorda ad autori non facilmente inquadrabili con quella che ad oggi è l’opera di maggior respiro di Harkham: Blood of the Virgin.
Il primo dei due cartonati in cui è diviso il graphic novel raccoglie il materiale apparso su Crickets #3-5 (2011-2015). La vicenda è al contempo molto semplice e complessa: nella Los Angeles dei primi anni Settanta, Seymour si divide tra un lavoro di montatore video per l’industria di b-movie e la vita familiare, ma sogna da sempre di fare un film tutto suo. L’occasione di una vita si presenta di lì a poco sul set di Blood of the Virgin.
In realtà, tutto ciò è soltanto un pretesto narrativo per raccontare lo strano meccanismo su cui si regge la società americana, dove desiderio e frustrazione corrono in parallelo generando individui che si muovono guardinghi lungo i bordi dell’esistenza.
Quello che interessa a Harkham è mettere in scena una pletora più o meno surreale di personaggi e mostrarne le interazioni in contesti quotidiani. Non è un caso che prediliga situazioni di routine per inseguire da vicino le sue creature.
Le prime dieci pagine sono un saggio più che illuminante: Seymour sotto la doccia; poi al lavoro, poi alle prese con le incombenze domestiche, il meritato riposo, il tentativo mancato di un po’ di sesso coniugale, l’insonnia e la nebbia tra le strade di Los Angeles. Una giornata tipo, in cui emerge tutta l’angoscia del protagonista, intrappolato in una vita che non sente appartenergli totalmente, ma che recita suo malgrado.
La gabbia è volutamente caotica, e quando insegue i gesti di routine diventa sempre più claustrofobica nell’attenzione microscopica verso i dettagli. La sequenza al lavoro e quella in cui Seymour cucina sono ottimi esempi della logica che regge lo sguardo di Harkham.
L’eco del lavoro del sodale Kevin Huizenga è evidentissimo. I diagrammi e gli schemi che affollano opere come Ganges o Gloriana hanno la stessa minuziosa attenzione. Eppure, le fredde dissertazioni teologiche sulla qualità del tempo di Huizenga sono quanto di più distanti.
In queste pagine che di volta in volta si affollano di dettagli e si diradano all’improvviso sino al più assoluto mutismo (come la lunga sequenza in cui Seymour guida per le strade deserte di Los Angeles), Harkham cerca la semplicità e insegue una forma attraverso cui incanalare la vita: le sue tavole hanno la complessità del caleidoscopio, ma anche un rigore quasi monastico (grazie anche alla bicromia).
«Quando si è giovani, si decostruisce tutto, perché si cerca di fare qualcosa di complesso senza capire nulla del medium, in realtà le cose migliori che si possono fare sono quelle più semplici, e la complessità arriva nell’accumulo di semplici immagini di facile lettura l’una in relazione con l’altra. Penso che ogni grande fumetto mostri questo, se lo si studia fondo… Questo ci porta a Kubrick e Bresson; è molto semplice, chiaro, sono azioni facili da leggere ma vengono ordinate in maniera da fotterti il cervello. La complessità è frutto di un accumulo.»
[da un’intervista rilasciata a Tim Hodler per TCJ.COM]
Oltre a un attento studio del medium cinematografico, Harkham dimostra di aver studiato gli Hernandez Bros., ma non solo. Al di là di autori come E.C. Segar o Roy Crane, influenze più che evidenti insieme a Frank King (il cui influsso è altrettanto noto in autori come Chris Ware e Adrian Tomine), Harkham non nasconde la passione per il tratto cartoonesco e minimale di Gluyas Willams (la splash page della festa ebraica a cui partecipano Seymour e Ida è un chiaro omaggio) o per la chiarezza espositiva di Doug Wright o dell’Hans Ketcham di Dennis The Menace.
Nel contempo, è altrettanto semplice accostarlo a fumettisti come i già citati Kevin Huizenga e Adrian Tomine (soprattutto quello di Morire in piedi). La semplicità del tratto, la felicità di alcune soluzioni di storytelling e la vivacità anarchica degli eventi sono un segno inequivocabile di come Blood of the Virgin sia un racconto potenzialmente infinito.
Alla maniera di Jamie Hernandez, Harkham segue i suoi personaggi da vicino, esaltando la loro imprevedibilità, le scelte umorali e improvvise che animano vite profondamente infelici. La rabbia repressa di Seymour si specchia nello sguardo spento e nell’insofferenza di Ida, così come la svampita leggerezza di Joy Fletcher fa il paio con lo stordimento di Oswald. Personaggi che vengano fotografati anche e soprattutto nella loro solitudine.
In quarta di copertina l’editore suggerisce una stretta parentela tra l’opera di Raymond Carver e quella di Sammy Harkham. Il tentativo regge in parte. L’autore di Blood of the Virgin ha una diretta frequentazione con il racconto breve, genere a cui Carver (grazie all’aiuto del celebre editor di Esquire, Gordon Lish) ha legato la sua fortuna.
Entrambi gli autori hanno a cuore il tema della solitudine e dello scontro quotidiano che un individuo alienato e imbruttito da un sistema malato e corrotto deve sostenere per affermare se stesso: una lotta al riconoscimento dove l’identità è sempre sull’orlo del baratro, dove l’umanità ritratta spesso ha già perso questa battaglia o è sul punto di perderla.
Ma, nel contempo, l’arte di Harkham è quanto di più distante dalla letteratura: al centro vi è il corpo, catturato in una gestualità pura, nei suoi atteggiamenti sotterranei e negli impulsi improvvisi che ne attraversano la carne. La voce narrante è annichilita dinanzi a tutto ciò: le didascalie, le onomatopee, qualsiasi tentativo di sottolineare un atteggiamento, un’emozione o uno smarrimento è affidato solo alle movenze dei corpi, alla sottile aderenza del segno al gesto.
La semplicità del segno – affine a quelli di Chester Brown o Gabrielle Bell – è una forma di ritenzione, che attinge, consapevolmente, tanto alla storia del fumetto e delle strisce sindacate quanto al cinema: Kubrick, Mackendrick, Bresson. Ricordando proprio quest’ultimo nell’intervista già citata, Harkham afferma quanto segue:
«Bresson non ha mai definito i suoi attori come tali, ma li ha sempre chiamati modelli. L’idea è che il modo in cui qualcuno guarda e la maniera in cui recitano una battuta esprime quello che sono e che non si dovrebbe trasformarli in qualcosa d’altro.»
I personaggi di Blood of the Virgin non sono semplici vettori che si muovono sulla carta stampata, ma acquistano una vita propria, muovendosi attraverso lo spazio bianco e conquistando il lettore.
Nel corso della lettura sopraggiunge un’affezione verso i personaggi che ricorda il dispositivo empatico messo in moto da autori come Jamie Hernandez – di cui consiglio Love Bunglers, sempre per Oblomov – Paul Chadwick, Jeff Smith e il Terry Moore di Strangers in Paradise.
Se Harkham fosse più prolisso ci troveremmo magari tra una decina d’anni con una saga complessa, stratificata e monumentale. Ma, visti gli impegni editoriali, ci tocca centellinare la lettura di questo libro in attesa del secondo volume, sperando che l’autore abbia presto qualcosa di nuovo in serbo per noi.
Blood of the Virgin vol. 1
di Sammy Harkham
traduzione di Elena Fattoretto
Oblomov Edizioni, giugno 2018
cartonato, 126 pp. in bicromia
22,00 €