«BRUTTOSTRONZOFIGLIODIPUTTANA!»
«Una cazzo di situazione, eh? Vi starete chiedendo come sono arrivato a questo punto…»
Sono queste le prime parole di Deadwood Dick n. 1, nuova serie di Bonelli Editore pubblicata all’interno della linea Audace. E danno subito un’idea di pregi e difetti del progetto che adatta e rielabora alcuni racconti western di Joe Lansdale (romanziere texano del ciclo di Hap & Leonard e della trilogia del Drive-in): toni crudi e una lingua selvatica, più libera e sfacciatamente scurrile rispetto alla ‘beneducata’ tradizione bonelliana; ma anche una certa rigida letterarietà che riempie troppe vignette con didascalie della voce narrante. In tutto questo i disegni riescono comunque a respirare bene, e il risultato è che il ritmo c’è; per gli occhi più che per la testa, però.
Deadwood Dick racconta le avventure di Nat Love – ispirato a un cowboy realmente esistito –, un giovane afroamericano che, anni dopo la fine della Guerra civile, si ritrova a dover fuggire dalla propria cittadina, abbandonando il padre, per evitare l’impiccagione in seguito a un (futile) equivoco con un gruppo di uomini bianchi. È qui che il suo nome diventa Dick, in modo da lasciar perdere le proprie tracce. Dopo aver incontrato un ex schiavo – nero come lui – che ha combattuto al fianco del proprio padrone dalla parte dei Sudisti, Dick si arruola nell’esercito.
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L’obiettivo di Lansdale era quello di riflettere sul razzismo dell’America di oggi, ma calandolo in un contesto storico. «Volevo dimostrare che, a differenza di quello che i film vorrebbero farvi credere, c’erano anche cowboy e soldati neri. Parteciparono alla costruzione di questo paese, nel bene e nel male, come chiunque altro» ha raccontato lo scrittore.
Ci troviamo dunque in territori diversi da quelli ai quali il lettore bonelliano è abituato con Tex o con la maggior parte degli eroi (western o meno) della casa editrice. Abbiamo un protagonista involontario, situazioni poco eroiche, un linguaggio molto informale (con dialoghi come «Ci deve essere stata un’epidemia di rincoglionimento fra i negri delle vostre parti!») e persino scene di prosaica quotidianità (il primo incontro fra Dick e Cullen avviene mentre il secondo sta defecando accovacciato tra l’erba). Tutti spunti per nulla banali – soprattutto quello legato alle soluzioni linguistiche –, che provano a rendere meno statico il corpus di pubblicazioni della casa editrice.
Corrado Mastantuono sembra essere poi la scelta perfetta per illustrare tutto questo, grazie alla bravura del disegnatore nel tratteggiare con estremo realismo il dolore, la fatica e lo sporco sui volti e sui vestiti dei personaggi così come lo squallore della maggior parte degli ambienti. Una delle scene più belle del fumetto è anche merito suo: Dick tenta di domare un cavallo selvaggio in una serie di vignette tutte uguali nelle dimensioni ma per nulla ripetitive, e all’interno delle quali si staglia una figura possente, in grado di esprimere forza e furia solo attraverso il tratteggio e le campiture di nero. Le buone notizie, però, terminano qui.
La storia si concede lunghe fasi descrittive, nelle quali i testi di Lansdale vengono ‘riportati’ dallo sceneggiatore Michele Masiero come didascalie di un racconto in prima persona. A queste scene si alternano fasi concitate fondate solo sui dialoghi, nonostante il tenore tranquillo e placido degli avvenimenti (esempio: un semplice accampamento intorno al fuoco diventa occasione per scambiarsi informazioni personali). In queste parti del racconto, anche un disegnatore esperto come Mastantuono sembra faticare per restare al passo, con inquadrature che girano costantemente intorno a personaggi immobili. Le parti evocative del racconto originario di Lansdale, al contrario, sembrano essersi perse.
Deadwood Dick soffre dello stesso (duplice) problema di molti adattamenti a fumetti di testi lettarari, nei quali per gli autori di fumetti diventa facile farsi prendere dalla voglia di riportare intere parti del testo in prosa all’interno dei balloon o delle didascalie, soprattutto nel caso in cui lo stile di scrittura sia particolarmente distintivo, come per Lansdale.
Da una parte, se il testo originario è molto descrittivo le immagini risultano ridondanti, un mero accessorio che non aggiunge nulla (e addirittura toglie, perché rischia di privare le parole della loro forza evocativa). D’altra parte, il ritmo di un testo in prosa non funziona in modo altrettanto efficace se questo viene riportato in un fumetto, che sia sotto forma di didascalia o di dialogo.
Tra i punti deboli c’è anche la mancanza di una vera e propria struttura episodica. Il racconto inizia con un flashforward in cui il protagonista si trova in una situazione di grave pericolo e promette di ritornare presto a quel punto per risolvere la situazione, ma poi termina in modo brusco, dopo 60 pagine e una lunga introduzione, senza più tornarci sopra. Probabilmente l’albo è stato pensato come prima parte di una storia di 120 pagine (e in effetti è già stato annunciato il volume che raccoglierà i primi due numeri della miniserie), ma la lettura non raggiunge mai un climax, e il senso di incompiutezza risulta forte.
Deadwood Dick dunque presenta diversi elementi di innovazione all’interno della tradizione del racconto bonelliano, ma questo non sembra essere sufficiente per garantire un prodotto editoriale forte. Nei prossimi episodi esordiranno altri sceneggiatori di provata esperienza come Maurizio Colombo e Mauro Boselli (creatori di Dampyr nonché, nel caso del secondo, anche curatore di Tex). Sarà interessante dunque scoprire se anche loro saranno caduti nelle stesse trappole in cui è caduto Masiero o se saranno riusciti a rendere con maggiore personalità lo stile di scrittura di Lansdale.
Deadwood Dick n. 1
di Michele Masier e Corrado Mastantuono
Sergio Bonelli Editore, luglio 2018
Brossurato, 64 pp in b/n
€ 3,50