La testata Dylan Dog ultimamente non perde occasione per far parlare di sé, in modo da creare aspettative e discussioni attraverso rimescolamenti dello status quo, nuovi comprimari, dibattiti politici, oppure con attesi ritorni o ospiti graditi. Il numero 383 di luglio 2018 presenta l’entrata in scena di un autore illustre che con Dylan Dog ha (avuto) sicuramente molto a che fare, per ispirazione e tematiche: nientemeno che il grande regista horror Dario Argento.
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Introdotto da una cover – ça va sans dire – argentata del sempre elegante Gigi Cavenago e con un titolo che più scontato non si può (Profondo nero, che riprende il più grande successo del regista, quel Profondo Rosso che si è attestato senza dubbio tra i capolavori del cinema horror italiano e non solo), l’episodio si mantiene sulla linea di una piacevole medietà, presentando una storia ben costruita e divertente, pur senza particolari guizzi di originalità.
Nonostante la portata del tema scelto avesse in sé le potenzialità per qualcosa di forte, il regista-autore sceglie invece un registro piano, rassicurante, pop, con quel pizzico di proibito che cattura l’attenzione ma non impegna, non crea scompiglio, non scandalizza né inquieta. Il maestro a cui più di tutti senza dubbio Tiziano Sclavi ha guardato per costruire le storie del suo personaggio (come dimostrano le numerose citazioni dei primi albi) sembra qui umilmente farsi da parte. O, meglio, sembra omaggiare il lavoro di Sclavi, la sua ironia – che è cifra dello stesso Argento –, il citazionismo spinto come il romanticismo esibito del personaggio, e allo stesso tempo deve mettere purtroppo in secondo piano le derive splatter e gore che ormai non sono più consentite in un albo bonelliano da edicola.
La trama di Argento (con la collaborazione di Stefano Piani) affronta il mondo del BDSM (bondage e disciplina, dominazione e sottomissione, sadismo e masochismo) con leggerezza e mestiere, riprendendo esempi letterari e cinematografici alla moda come la trilogia delle Cinquanta sfumature della scrittrice inglese E. L. James, poi tradotta con successo al cinema, ma anche il meno noto film Secretary (2001) di Steven Shainberg con Maggie Gyllenhaal, non a caso entrambi con un protagonista maschile-master di nome Mr. Grey.Anche qui abbiamo una bella ragazza masochista dal nome d’arte di Lais – come la schiava siciliana del quinto secolo a.C., divenuta la prostituta più famosa e cara di tutta la Grecia – che scompare in circostanze indefinite, a causa di un misterioso Mr. Grey, e diventa ovviamente l’ossessione del protagonista.
Ad aggiungere mistero al mistero, la bella Lais – che di vero nome fa Beatrix – ama tenere nascosti i suoi segreti dentro un criptex, un aggeggio diabolico ripreso da Il Codice da Vinci, romanzo/film di cui lei è fan sfegatata (apice del masochismo). La cornice investigativa non particolarmente brillante si sviluppa linearmente con la giusta suspance, ben illustrata dal tratto evocativo di Corrado Roi. Il disegnatore, tra i veterani di Dylan Dog, sembra essersi divertito molto a realizzare tavole ariose, immerse in un bianco e nero nebbioso e evanescente.
Anche la tematica BDSM in sé si mantiene leggera e superficiale, senza guizzi o colpi da infierire: lo stesso sadomasochismo della protagonista femminile non viene descritto più di tanto, attestandosi come genere narrativo prima che come tendenza sociale; una moda che dà vita a mostre, modelle dedicate, opere letterarie e filmiche di dubbio valore.
Stupisce che su un ambito nel quale il corpo è protagonista – il corpo ferito, il corpo graffiato e offeso da tagli e cicatrici che si riflettono nell’esistenza dei personaggi – si sia scelto, con il segno di Roi, di privilegiare l’atmosfera rispetto al dettaglio, dando così al corpo una visione distaccata, che si focalizza sui volti più che sulle ferite, sugli occhi più che sulla pelle, collocando il corpo in uno spazio astratto, onirico e letteralmente fantasmatico.
La rappresentazione del masochismo si traduce (oltre che nelle battute di Groucho) giusto in qualche frustata sulla schiena inflitta da un Dylan Dog perplesso (in sogno) e utile a svelare un mistero dell’investigazione. Il carattere masochista di Beatrix si realizza come risultato di una esistenza da vittima, dalla quale in qualche modo ha imparato a trarre profitto e persino piacere. Argento non nasconde un moto di compassione nei confronti di queste figure che, come Lais, trasfigurano il dolore in qualcosa di positivo, o perlomeno utile.
«Se non gigli, sono pur sempre figli, tutti quanti vittime di questo mondo» è la frase conclusiva dell’episodio, ispirata da La città vecchia di Fabrizio De André. Una citazione di cui riconosciamo la matrice sclaviana, a perfetta chiusura di un albo che non ha dato prova di grande slancio, dove l’omaggio ha prevalso sulla personalità, l’evento ha surclassato il contenuto, il personaggio ha ucciso il regista (a cui forse, masochisticamente, è piaciuto).
Dylan Dog n. 383
di Dario Argento, Stefano Piani e Corrado Roi
Sergio Bonelli Editore, luglio 2018
Brossurato, 96 pp in b/n
€ 3,50