Marco Taddei e Simone Angelini tornano sulla scena del crimine con Horus, un albetto di 60 pagine pubblicato da Coconino Press, casa editrice a cui i nostri approdano dopo l’avventura in Panini Comics con Malloy – Gabelliere spaziale.
Intanto, la casa editrice guidata da Francesco D’Erminio, in arte Ratigher, consegna anche alle stampe una nuova edizione dell’opus magnum Anubi, che quasi tre anni fa calamitò l’attenzione di molti lettori, entusiasmando anche il sottoscritto, tanto che mi lasciai andare a una rara manifestazioni di plauso e di encomio per un’opera che, pur parlando a tutti, poteva forse essere compresa a pieno da chi viveva ai confini dell’impero.
Leggi le prime pagine di Horus
Al di là del dei plurimi livelli di lettura e della capacità affabulatrice, Anubi era, anche e soprattutto, un ritratto al contempo impietoso e benevolo di Vasto, città abbruzzese di poco più di 40.000 abitanti, che diventava per forza di cose simbolo universale dei paesoni di provincia, autosufficienti e chiusi in se stessi, enclave di storie e miti più o meno locali. I personaggi che infestavano le oltre trecento pagine del graphic novel di Taddei e Angelini erano persone verso cui, nel bene e nel male, chi era nato e cresciuto in provincia non poteva che provare un sincero e autentico sentimento di affetto, data la profonda familiarità.
Spogliato da ogni esegesi cristologica, il libro era uno specchio deformante, ma al cui fondo ognuno avrebbe potuto riconoscere o avere l’impressione di scorgere la propria storia. Tra l’altro, amici di Vasto mi confermavano senza mezzi termini che Anubi era Vasto. La sensazione di familiarità creava un senso di vertigini in chi lo leggeva conoscendone il retroterra mitico.
Qualcosa del genere è presente anche in un’opera recentissima data alle stampe da Canicola. Mi riferisco, nello specifico, a Figlio unico di Vincenzo Filosa, in cui l’infanzia/prima adolescenza viene narrata attraverso snodi fondamentali che non possono non creare un senso di empatia con quanti non abbiano familiarità con certe situazioni che Filosa narra con dovizia di particolari. Ma, laddove la maschera del dio egizio Anubi serve a creare distanza e a generare commiserazione, nel gaijin manga subentra uno straniamento, in virtù di un filtro “esotico” attraverso cui il fumettista rilegge la quotidianità in terra calabra.
Ci troviamo, quindi, davanti a forme di (auto)biografia, che mostrano possibilità, se non inedite, almeno potenzialmente interessanti, scartando così il cul de sac dell’autoreferenzialità e della cronaca del banale, a cui purtroppo il fumetto italiano degli ultimi anni ci ha abituato con risultati talvolta imbarazzanti. Tanto Anubi quanto Figlio unico sono trasfigurazioni che ricordano – con la dovute cautele – l’urgenza di Pazienza (in una forma sicuramente blanda e meno tonalizzata in senso esistenziale).
Se la poetica del fumettista era un intreccio di vita e automatismo ornamentale – a volte brutale e barocco, a volte scioccante nella violenza del significante – qua la vita viene ricostruita in un ambiente protetto e controllato, quale può essere la città sul mare tratteggiata dal segno scheletrico e anemico di Angelini o la Calabrua degli anni Ottanta, letta attraverso lo sguardo di Filosa (una forma di retro-narrazione e “mistificazione” adulta).
Ma torniamo, a Horus, nel quale troviamo come protagonista il piccolo dio eponimo, ormai decaduto e declassato a compagno di scorribande dell’amichevole sciacallo di quartiere Anubi. Le sue fisime sono sempre le stesse, così come l’anelito al ritorno, tra una visita al CIM e una sbevazzata al solito bar: al di là delle placide acque che circondano la città, in un orizzonte lontano, esiste un Egitto mitico a cui far ritorno.
Se Anubi è divinità sotterranea (ctonica per l’esattezza, termine che il buon Taddei ha imparato ad amare insieme alle Peroni “sudata”), Horus è, invece, un divinità solare, molto spesso avvicinata in maniera un po’ troppo forzata alla figura del Cristo. Ma, essenzialmente, come qualsiasi essere divino che si pone come correlato simbolico del sole, Horus è un dio della distanza: Horus è lo straniero.
Questa sua diversità lo conduce ai margini della società e al contempo anche a un incredulo equilibrio che lo tiene sul confine. Un trasecolamento da benziodiazepine che lo rende innocuo, lontano dalla voracità carnale e cinica di Anubi. Horus è l’ombra del dio che fu: vive in un intramondo oppiaceo, dove la sua inettitudine esistenziale si sfoga in una quest à la Dungeons and Dragons.
Taddei e Angelini – ottimi narratori delle realtà infernali e sotterranee – lo mostrano combattere contro un’incarnazione colossale di Seth per la libertà di Bastet, ennesima divinità egizia traslata nel pantheon vastese. Preso in questo continuo slittamento onirico, Horus resta intrappolato in una maschera da freak, inviso nonostante la sua bonomia alla folla. L’unico sentimento che rompe la piatta calma del piccolo falco pellegrino è l’odio per Anubi: una flebile scintilla tutt’al più, una piccola frattura, un argine di verità tra la caligine dell’intorpidimento farmaceutico.
A metà strada tra le short story che hanno condotto Taddei e Angelini all’attenzione del grande pubblico (da poco ristampate da Panini 9L) e il romanzo fiume Anubi, Horus è un racconto lungo (o un romanzo breve) più simile a un divertissement che aun momento fondamentale per la costruzione dell’universo narrativo di Anubi.
Il racconto resta ai margini del filone narrativo principale e non spicca per originalità. C’è l’affetto per la più sfortunata tra le proprie creature, a cui però anche i suoi magnanimi creatori non riescono a supplire. Resta un senso di commiserazione e pietà per questo piccolo dio decaduto, perso in una zona grigia della penisola italica e lontano anni luce dalla calura ristorante del suo Egitto.
Horus
di Marco Taddei e Simone Angelini
Coconino Press, maggio 2018
56 pp in b/n
€ 10,00