Può esistere un personaggio supereroistico più divisivo e discusso di Superman? C’è chi lo trova l’emblema della banalità, chi lo sovraccarica di messaggi politici, chi ci vede un qualcosa di messianico, chi la semplice evoluzione degli eroi del pulp, chi il più grande eroe di sempre, chi troppo potere per scriverci delle storie interessanti e chi un’icona pop intramontabile.
L’aspetto interessante della faccenda è che tutte queste voci, per quanto contraddittorie, hanno una buona parte di ragione. Una delle interpretazioni più ficcanti riuscì a darla Grant Morrison in un’intervista con Newsarama in occasione dell’ultimo numero della sua acclamata serie All Star Superman, una delle migliori storie di sempre dedicate al personaggio.
«Batman è ovviamente molto più figo, ma solo perché si tratta di un personaggio fantasy molto energico e adolescenziale: un bel playboy miliardario in pelle nera con un maggiordomo sempre a sua disposizione, macchine e gadget migliori di James Bond, un’orda di femme fatale con la passione per il fetish che bazzicano ai suoi piedi e nessun capo. Quel ragazzo è Superman giorno e notte. Superman invece è cresciuto ammassando fieno in una fattoria. Va a lavorare in ufficio, ha un capo. Si strugge per una ragazza intraprendente. Solo quando si strappa la maglietta prende vita l’eroe interiore. In realtà è una fantasia molto più adulta di quella di Batman, ma rende anche Superman un po’ più difficile da vendere. È molto più un supereroe della classe operaia».
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In altre parole, Superman è uno che fa il suo dovere perché non riesce a concepire niente di diverso. Cresciuto in quell’America rurale da sempre idealizzata come portatrice di stili di vita sani e retti, non può proprio fare a meno di comportarsi sempre nel migliore dei modi. «Ci sono cose da cui un uomo non può fuggire» diceva John Wayne in Ombre Rosse, e anche per Kal El vale più o meno la stessa cosa. Anche se questo significa salvare il mondo ogni santo giorno, passando al contempo come inetto e inutile agli occhi della sua amata.
Non c’è la volontà di potenza di un Batman che si allena tutta la vita per andarsene in giro di notte a menare criminali senza mai fare davvero qualcosa di concreto per fermarli. Superman fa che va quello va fatto, senza troppi panegirici o celebrazioni, per poi ritirarsi nella sua Fortezza della Solitudine e continuare a lavorare in santa pace su problemi meno impellenti. Ditemi voi se questo non è un cowboy cresciuto in una delle regioni agricole più industriose degli Stati Uniti.
Ma se invece la sua culla fosse caduta dall’altra parte del mondo, in Unione Sovietica, come sarebbero andate le cose? Deve esserselo chiesto anche Mark Millar, che nel nel 2003 decise di dedicare alla questione una miniserie di tre numeri extralarge. All’epoca lo sceneggiatore era nel pieno del suo boom. Negli anni subito precedenti aveva vinto due Eisner Award per Superman Adventures e The Authority, dimostrandosi in grado di giocare da campione in due campionati ben diversi. In più era nel bel mezzo della celebrata gestione degli Ultimates, dalla quale la Marvel sta attingendo ancora adesso.
Nel 2004 avrebbe fondato il suo regno Millarworld, primo esempio di etichetta editoriale diffusa (ogni titolo usciva per una casa editrice diversa, nonostante i diritti restassero tutti a Millar e al disegnatore di turno) e progetto culminato nel 2017 con la cessione dell’intero catalogo a Netflix. Se lo scozzese non ha mai nascosto di avere un ego smisurato – e noi l’abbiamo sempre adorato per quello, sia chiaro – in quel preciso momento storico era davvero al culmine della sua ascesa. Il vero superuomo era lui.
A dimostrazione di questo la partenza della miniserie si pose subito nel classico stile millariano. Rileggere in chiave alternativa le origini di Superman mantenendo una certa coerenza con l’originale avrebbe richiesto di ambientare la vicende verso la fine degli anni Trenta. Peccato che questo avrebbe reso il tutto molto più complesso e poco funzionale per il concept della storia. Meglio quindi skippare direttamente all’inizio negli anni Cinquanta, quando negli Stati Uniti si era in pieno maccartismo e in Unione Sovietica Stalin era il segretario generale del Partito Comunista. Tanto per evitare che qualcuno potesse trovare l’ambientazione storica troppo ambigua e poco definita.
Un piccolo escamotage che palesava la doppia velocità a cui si muoveva tutta la storia: da un parte un’idea fortissima dalla presa immediata e dalle potenzialità profonde e stratificate, dall’altra il bisogno impellente dello sceneggiatore di renderla subito assimilabile a chiunque. Pensate a un monologo comico dallo spunto geniale ma dallo svolgimento composto solo da punchline e avrete un’idea di questo Superman: Red Son (come di gran parte dell’opera di Millar).
Invece della fattoria in Kansas abbiamo un kolchoz ucraino e al posto della favola del buon cittadino che fa solo il suo dovere abbiamo un simbolo usato dallo Stato al contempo come macchina di propaganda e arma finale. Dall’altra parte dell’Oceano rimane Lex Luthor, geniale scienziato al soldo del governo degli Stati Uniti e intenzionato a battere l’alieno per accaparrarsi tutto il potere possibile. In mezzo a questi due poli lo sceneggiature riesce a infilare tutta la mitologia di Superman riletta sotto questa nuova prospettiva, in un giochino che basa tutta la sua attrattiva sulle aspettative dell’appassionato rispetto a nozioni assimilate in anni di letture.
Ecco quindi che compare Batman, qui in veste di terrorista antiregime munito di colbacco, Bizzarro come mostruosità dal cuore d’oro mandata al macello dalla Cia, Lanterna Verde nei panni di un reduce di guerra dal fanatismo anticomunista al limite della malattia, e così via. Un sacco di idee – alcune ottime, altre di una banalità raggelante – che lo scozzese impacchetta in un numero di pagine tutto sommato limitato, tenendo come al suo solito il ritmo alle stelle. E qui entra in ballo un altro dei suoi leitmotiv: il continuo rilancio verso l’alto.
Millar non era stupido e sapeva benissimo che un Red Son era già stato pubblicato esattamente due decenni prima del suo: si chiamava Miracleman e ci aveva lavorato uno sceneggiatore inglese di un certo talento, un tale che da lì a tre anni avrebbe raccontato l’ultima storia di Superman per poi esplodere definitivamente scrivendo di eroi tutt’altro che super: Alan Moore. Anche in quel caso si parlava di un essere quasi divino che decideva di rimodellare il nostro mondo a sua immagine e somiglianza, eliminando ogni forma di anomalia a favore di un’utopia che non permetteva nessuna forma di contrattempo. Inutile ripercorrere la stessa strada cercando di fare di meglio. Ecco quindi la necessità di abbandonare ogni velleità filosofica a favore di un approccio genuinamente esagerato.
Lex Luthor è un genio, no? E infatti eccolo mentre gioca a scacchi undici partite contemporaneamente e al contempo legge Il Principe di Macchiavelli e impara l’urdu tramite una sorta di enorme walkman inventato (con trent’anni di anticipo) durante una pausa al gabinetto. E questo è solo il suo corrispettivo della nostra pausa sigaretta. Quando deve liquidare l’agente Olsen per potersi rimettere al lavoro, gli fornisce una formula matematica che permetterà al governo degli Stati Uniti di pareggiare il bilancio. Un contentino come un altro per farlo tornare dai suoi capi con qualcosa in mano.
E così via, fino alla folle accelerazione del capitolo conclusivo. Forse uno dei picchi più alti dell’inestimabile capacità di Millar di alzare sempre più l’asticella dell’immaginabile. Magnifica e ruffiana la chiusura circolare di tutto il progetto, capace di relegare – o meglio, di elevare – il tutto a una sorta di mega-episodio di The Twilight Zone con tanto di colpo di scena finale di rito.
Qualunque altro sceneggiatore avrebbe avuto un sacco di problemi a prendere un concetto così interessante e a interpretarlo in modo tanto sfacciato e leggero, ma non il Nostro. A un certo punto della storia Luthor annota su un biglietto di carta una nota così geniale che la sola lettura avrebbe dovuto mandare nel pallone Superman. Si tratta della sua arma segreta e di un esempio perfetto di MacGuffin.
Nessuno si chiedeva davvero cosa avrebbe potuto scrivere di così raggelante una mente geniale come quella del folle scienziato. Sarebbe stato come sapere con certezza cosa era contenuto nella celebre ventiquattrore di Un bacio e una pistola. Una spiegazione logica di quella luminescenza avrebbe spezzato completamente la tensione drammatica, dando una parvenza di ragionevolezza a qualcosa che trae il suo fascino proprio dal non essere del tutto comprensibile.
Si tratta di un meccanismo piuttosto noto. La stessa cosa succede ogni volta che compare un artista visivo come personaggio in una narrazione: la regola aurea è non mostrare mai le sue opere, ma di lasciarle sempre fuori campo. Perché se l’autore dietro alla storia in questione fosse davvero in grado di inserire nella vicenda che sta raccontando capolavori inediti d’arte contemporanea, probabilmente quello sarebbe il suo mestiere. Meglio glissare e lasciare tutto il lavoro all’immaginazione dello spettatore/lettore, altrimenti succede che ti chiami Scott McCloud e mandi alle stampe un libro come Lo scultore.
Basti l’esempio degli sceneggiatori di Sex and The City, tanto per fare un esempio agli antipodi, capaci di costruire un intero arco narrativo in cui la protagonista si vede con un artista di fama mondiale (interpretato da Michail Baryšnikov) senza mai mostrare nulla del suo lavoro, nonostante questo fosse al centro di alcuni snodi piuttosto fondamentali.
Millar sceglie naturalmente la prima strada e svela in quattro e quattr’otto il contenuto della nota, senza nessun imbarazzo nel dimostrarci di che banalità si trattasse. Brainiac definisce Luthor come un’intelligenza di livello nove – il che significa parecchio, visto che l’androide arriva a dodici – eppure il buon Mark non ha neppure per un istante il dubbio che forse non avrebbe mai potuto concepire qualcosa di paragonabile al frutto di una mente tanto eccelsa. Ancora una volta, è una questione di ego.
Chiarito questo paio di punti avete tutto il necessario per capire se recuperare questa sorta di What If formato deluxe possa valere la pena o meno. Dave Johnson alle matite avrebbe potuto fare grandi cose – ce lo ricordiamo bene sulle strepitose copertine di 100 Bullets – ma il mondo della serialità più serrata non è mai stato il suo pane. Eccolo quindi limitarsi a mischiare qualche accenno di propaganda sovietica con vignette iconiche di Superman, amalgamando il tutto con il suo tratto spigoloso e una gestione del layout di pagina dinamica e mai banale.
Il suo talento si vede almeno quanto l’affanno nel dover rispettare scadenze, probabilmente impossibili fin dal primo giorno. Non è un caso se poi sia passato a lavorare nell’animazione come background artist. Dal punto di vista grafico quindi nulla di clamoroso da segnalare. Dave è un professionista e non c’è una sola pagina sbagliata, così come neppure nulla di memorabile. Figurarsi quando poi il nome con cui condividere la copertina è quello dello scozzese di cui abbiamo parlato fino a ora. La vera stella rimarrà sempre lui.