Dopo aver visto Zootropolis, il film Disney in cui una coniglietta poliziotto e una volpa saltimbanco si uniscono per risolvere un crimine a sfondo razzista, sono corso alla mia libreria. C’era qualcosa in quella commistione di animali antropomorfizzati, trama procedural e tematiche sociali che non mi sconfinferava, l’avevo già visto. Ho tirato fuori i cinque tomi di Blacksad, la serie di Juan Díaz Canales e Juanjo Guarnido che ha come protagonista un gatto detective dal pelo nero e trench stropicciato. Anche se le premesse – detective story nel mondo animale – non sono nuove (solo nell’ambito fumettistico ci avevano già pensato l’antologia Albedo Anthropomorphics, Fish Police di Steve Moncuse, Canardo di Benoît Sokal), i due prodotti sembravano viaggiare su linee parallele che non si intersecano mai: è l’esecuzione a fare tutta la differenza.
Zootropolis e Blacksad in questo eccellono particolarmente, e il modo in cui declinano le tematiche è simile, penso al discorso sul razzismo, con addirittura un uso uguale dei dispregiativi: “macchiato” in Blacksad, “carino” in Zootropolis, che nel film ci viene fatto intendere essere un epiteto equivalente a “nigger”. Solo che il team creativo di Blacksad non ha una commissione di censori e dirigenti preoccupati di offendere il pudicissimo pubblico statunitense o di imbrattare il marchio disneyano, e si può permettere nudità e violenza in abbondanza, ammiccando al furry fandom, i feticisti dei funny animals (i personaggi immaginari con fattezze animali e comportamenti umani), sicuramente attizzati dal vedere questi animali antropomorfi fare sesso (una visione non particolarmente piacevole per gli altri, visto che l’erotismo di Guarnido ha un che di alienante).
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È un cerchio che si completa, perché le ispirazioni e il retroterra dei due autori puntano verso la California zuccherina di Walt Disney. La scelta dei funny animal e lo stile di disegno guardano a quel mondo, che Guarnido ha avuto modo di osservare da vicino, avendo lavorando come animatore su Hercules, Tarzan e Atlantis. Vero è che ci sono diverse sfumature nei fumetti – e nei prodotti d’intrattenimento in generale – con i funny animal. Si parte da una rappresentazione pura, dove gli animali hanno sì pensieri e sentimenti con cui possiamo interfacciarsi ma si evita qualsiasi sospensione dell’incredulità, attenendosi a una rappresentazione veritiera della vita di un lupo (Zanna Bianca) di un cavallo (Spirit – Cavallo selvaggio).
Più ci si allontana da questo estremo più si aggiungono caratteristiche umane: la capacità di parlare, la pudicizia della nudità, i costrutti socio-culturali, finché non si arriva a uno stadio in cui quella dell’animale è solo una maschera che cela un essere umano in tutto e per tutto e che sta usando lo stratagemma del funny animal per raccontare qualcos’altro (Maus). Nel mezzo di questa scala sta la uncanny valley dell’antropomorfismo, cioè le opere che trattano i personaggi come ibridi umani-animali e affrontano tutte le complessità derivanti da questa scelta. Di nuovo, Zootropolis torna utile come esempio perché, pur mettendo in scena situazioni e dinamiche proprie della nostra società, le integra con i problemi derivanti dall’irreale coabitazione di elefanti, conigli, puma e topi (quindi zone a microclima differenziati o posti in miniatura sui mezzi pubblici).
Pur in maniera non costante, Blacksad è decisamente nello spettro alto di questa sfumatura. John Blacksad ha la corporatura di un maschio umano e solo raramente si lascia andare a comportamenti felini. Lo stesso si può di dire degli altri personaggi: che siano tori, beccacce o daini, tutti gli animali coabitano fianco a fianco senza troppi problemi logistici e si comportano quasi sempre come esseri umani. Le criniere, le corna e gli artigli sono soltanto avatar per poter parlare di noi stessi.
Con questa serie iniziata nel 2000, gli spagnoli Canales e Guarnido hanno voluto parlare, da stranieri e per conto di un editore francese, della cultura americana. L’hanno fatto seguendo i canoni del cinema noir, un linguaggio costruito da registi spesso non americani che però ha contribuito alla costruzione dell’immaginario a stelle e strisce.
Blacksad è il classico detective hard-boiled: impermeabile, doppiopetto e cravatta, sigaretta penzolante in bocca, parlantina stanca, un portamento signorile e una certa esperienza in fatto di donne. C’è la femme fatale, l’industriale avido, le spifferate, i luoghi malfamati. Si sente che Canales ha l’orecchio allenato sui dialoghi di Dashiell Hammett e Raymond Chandler e si vede che la mano di Guarnido ha macinato chilometri di pose e disegni in cui un segno deve essere in grado di comunicare volume ed emozioni. I tropi di un genere del Ventesimo secolo sono serviti ai due per dare giudizi morali del Ventunesimo secolo.
Protagonista, insieme a John, sono gli Stati Uniti nel secondo Dopoguerra, dilaniati dal darwinismo sociale, dove il più forte (o il più ricco) è legittimato per natura a imporsi sugli altri. Che sia l’assassinio di una sua ex-fiamma, la scomparsa di una bambina o di uno scrittore beatnik, gli autori usano i casi per parlare di vendetta, giustizia e corruzione, tutti aspetti derivanti dalle differenze di classe sociale. I ricchi possono usare i soldi per ottenere potere. Quello di Blacksad è un mondo in cui la giustizia è stata accecata dal denaro e le figure autoritarie non sono più in grado di garantire per i cittadini. È una visione che, nell’ottica del recupero nostalgico, si inserisce coerentemente con ciò che promulgavano i fumetti americani del primo Novecento, un sistema legale inadeguato o troppo lento a rispondere alle minacce che fa cadere le responsabilità nelle mani nei vigilanti, gli unici in grado di riportare un ordine sociale.
Ma in Blacksad nulla è manicheo: percorsi di giustizia alternativa sono intrapresi con grande riluttanza e mai considerati la risposta giusta («Chi può definirsi etico coi tempi che corrono?» si chiede a un certo punto il Nostro). Così come la selezione delle razze non corrisponde mai a un’appartenenza etnica o religiosa, tanto è vero che le distinzioni principali sono basate sulla temperatura del sangue e sul colore della pelliccia – la razza è una mera questione cromatica –, ma si tratta più di una rappresentazione ambiguissima di personalità e moralità dei personaggi. Ambigua perché il pregiudizio che il lettore si fa di fronte a un personaggio viene spesso smentito dal corso degli eventi.
In Da qualche parte fra le ombre la lucertola scagnozzo di Ivo Statoc che a prima vista parrebbe subdola e potente come la sua natura suggerirebbe, si rivela un personaggio pietoso. Quando muore, vittima della gerarchia che lo aveva reso un sacrificabile, lo vediamo bocconi sul pavimento di Blacksad, con la testa in preda alla gravità, gli occhi spenti e la lingua srotolata, dopo aver sussurrato le sue ultime parole: «Statoc è un perdente malvagio… Io sono un perdente e basta». Gli autori giocano con le aspettative mostrandoci come i personaggi siano mossi da disperazione o da motivazioni che vanno al di là della loro natura malevola. O tengono in ombra un personaggio per evitare che il bias prenda possesso di chi legge, come succede per Statoc, il cui volto resta celato fino alla fine della storia.
Ogni albo è costruito attorno a un colore. Amarillo è affogato nei gialli, Anima rossa è tinto di cremisi, L’inferno, il silenzio usa il blu per raccontare il jazz e Da qualche parte tra le ombre fa del grigio dei coni di luce e oscurità la sua cifra stilistica. E, per una volta tanto, il bianco in Arctic Nation non simboleggia il candore e l’innocenza ma è usato per la neve, che copre la decadenza e il fallimento di rottami aerei o quartieri degradati, e per i corpi degli animali rappresentanti la white supremacy. Solo nel finale ci si concede un cielo azzurro, segno che le intemperie si sono momentaneamente placate.
Sono i colori, le pose, le inquadrature e la recitazione dei personaggi di Guarnido a far svettare il progetto, insieme al layout cinematografico delle pagine, la regia rigorosa – i corpi sono posizionati sempre nel punto giusto della vignetta – e il ritmo controllatissimo (sa sempre quando piazzare un totale strabordante di elementi per fermare l’occhio). Le scene sono dense di dettagli, Guarnido ha un senso dell’urbanistica rubato a Will Eisner e non perde occasione per raccontare i personaggi attraverso la messa in scena. L’ufficio di Blacksad è pieno di tracce, la sua scrivania trabocca di casi passati o ninnoli di una vita messa in soffitta. Il caos che regna sull’ambiente suggerisce mancanza di cura, confusione, solitudine; lo stesso vale per Karup in Arctic Nation: l’arredamento intorno a lui rimanda al suo ruolo pubblico, ordinato e distinto, ma una sciabola dei confederati suggerisce le sue connessioni con i suprematisti.
Sempre in Arctic Nation – uno degli episodi più solidi – c’è un momento forte in cui assistiamo all’impiccagione di un avvoltoio. Guarnido gli concede buona parte della pagina e disegna il corpo morto del volatile. Ai suoi piedi, due piume, a indicare non soltanto la temporalità del gesto (se le piume stanno cadendo significa che è appena stato impiccato) ma anche la sensazione del movimento ondeggiante del corpo. Perdersi in queste preziosità visive capita spesso durante la lettura. Anche se non sarà l’esperienza più avanguardistica che vi capiterà di fare, Blacksad ha comunque cose da dire e le dice come pochi altri fumetti sanno fare.
Blacksad – Integrale
di Juan Díaz Canales e Juanjo Guarnido
Tradotto da Gianluigi Gasparini, Giovanni Zucca e Francesco Satta
Rizzoli Lizard, aprile 2018
Cartonato, 270 pp a colori
€ 49,00