I cosplayer che vanno alle fiere dei fumetti hanno il dito pronto. Lo fanno zigzagare sopra la linea che separa realtà e fantasia e confondono i due piani, come fossero segni di sabbia in un giardino zen. I loro costumi cambiano lentamente l’ambiente attorno. Il primo personaggio che vedi passare nel marasma è curioso, ti strappa un’occhiata o un sorriso, del secondo noti la plastica della spada o le rughe della cartapesta, il terzo non lo riconosci ma l’hai già visto da qualche parte. Passi a fianco al quarto senza nemmeno accorgerti che ha tutti i pori chiusi dalla vernice verde.
A San Diego, questa atmosfera carnevalesca cozza con il cemento armato, l’asfalto e il vetro del centro congressi in cui è organizzato l’annuale Comic-Con. Ma tra le strade, i baracchini dei chimichanga e il lungomare, qualche incidente felice tra i due piani riesce ad accadere. Come quella volta in cui Grant Morrison, seduto in un parco con il suo editor a discutere di come modernizzare i fumetti DC Comics, incontrò Superman.
Era l’agosto 1999 e quello che Morrison vide attraversare i binari della stazione non era un semplice fan con il costume largo sul cavallo e fasciante in vita, ma il “vero” Superman. Morrison lo descrisse come «tranquillo e invulnerabile a qualsiasi danno, completamente rilassato». Non si fece sfiorare dal minimo dubbio sul fenomeno che stava osservando. «Aveva un costume rosso, blu e giallo perfetto. I capelli pettinati all’indietro con il tirabaci. Era il Superman più convincente che avessi mai visto, un incrocio tra Christopher Reeve e Billy Zane. Riconosco un miracolo quando ne vedo uno».
Così, lo scozzese intercettò il cosplayer per fargli qualche domanda. Questi non si scompose e, seduto su un dissuasore del traffico, un piede a terra, l’altro ginocchio piegato, con il mantello che cadeva fluido dalle spalle, iniziò a parlare. Affrontò il suo rapporto con Lois Lane, gli attriti con Batman, il fatto che il Cavaliere Oscuro «vede solo l’oscurità nel cuore delle persone. Vorrei potesse vedere il buono che c’è in loro», insomma rispondeva come se fosse davvero lui, Superman. Dopo un’ora e mezza di conversazione, il ragazzo se ne andò («a piedi», avrebbe scritto Morrison, mal celando la delusione) e lo scrittore fece altrettanto. Nella sua camera d’albergo scrisse furiosamente, finché il sole di agosto non fece capolino tra le navi del porto e l’orizzonte rosa del Pacifico. Quegli appunti lo portarono a ripensare Kal-El per il Ventunesimo secolo, in quella che sarebbe diventata la migliore storia mai prodotta sul personaggio, All Star Superman.
Raccontato così, l’episodio sembra un aneddoto gonfiato a parabola illuminante o un incontro preso troppo sul serio da Morrison, non nuovo a uscite che i più definirebbero lisergiche (vedi il suo «risveglio mistico» a Kathmandu). Eppure, la forza dell’operazione è stata proprio questa: l’ha preso sul serio. Come il ragazzo vestito da Superman, Grant ha creduto fortissimamente nell’Azzurrone, lo ha riempito di idee e di quel sense of wonder che latitava da fin troppo tempo.
Concepita in una speciale etichetta fuori continuity che per un po’ venne vissuta come la risposta DC alla linea Ultimate della Marvel ma che poi si trasformò semplicemente in “grandi nomi del fumetto fanno quello che vogliono con i personaggi bandiera”, All Star Superman è il racconto della morte di Superman e di come Kal-El decide di passare il suo ultimo anno di vita sulla Terra.
Lo spunto per All Star Superman ha due genitori, uno dei quali più che un genitore è uno zio o un fratello: DC One Million, un crossover di fine anni Novanta scritto da Morrison da cui All Star recuperava alcuni elementi, come Solaris il sole tiranno, Kal Kent, il Superman dell’853esimo secolo e l’idea di un Superman divino che si ritira nel sole; Superman Now! (o Superman 2000), un progetto elaborato nel 1998 da Morrison insieme a Mark Millar, Tom Peyer e Mark Waid per ripensare Superman e presentarlo ai lettori in una veste contemporanea.
Superman Now! spingeva in avanti la concezione di Superman. Il sole che aveva trasformato il kryptoniano Kal-El in un eroe ora stava trasformando Superman in una divinità. Nuovi poteri avrebbero ribaltato la sua prospettiva e lo status di dio in terra gli avrebbe conferito saggezza e infinita compassione verso l’uomo. Sarebbe tornato il cast di comprimari del Daily Planet (Cat Grant, Steve Lombard, Jimmy Olsen), Lex Luthor avrebbe acquisito doti mentali straordinarie e, alleatosi con Brainiac, avrebbe elaborato un piano per cancellare il matrimonio di Lois e Clark dalla mente dei personaggi.
Le idee di Superman Now! viravano dal bizzarro al radicale e non riesce difficile capire perché la dirigenza le cassò. Pur non in condizioni ottimali, Superman era la property di punta della DC e l’approccio aggressivo spaventò i piani alti. Ognuno degli scrittori avrebbe deragliato le proprie idee in progetti personali (e non): Waid in Diritto di nascita, Millar in Red Son e Morrison in All Star Superman. Perfino in Marvel hanno trovato il modo di riciclare Now! quando hanno cancellato il matrimonio di Peter Parker e Mary Jane in Spider-Man: Soltanto un altro giorno. Come il Dune di Alejandro Jodorowsky, film mai prodotto eppure influente su tutta la fantascienza cinematografica degli anni Settanta e Ottanta, Superman Now! ha gettato la sua ombra su un decennio di fumetti.
Sta di fatto che, bocciato il reboot dell’Azzurrone, Morrison lasciò la DC per produrre uno dei più importanti cicli degli X-Men e collaborando all’avvio dell’universo Ultimate. In entrambe le operazioni, la sua missione era la stessa: presentare personaggi degli anni Sessanta a lettori del nuovo millennio. E All Star Superman non fu diverso in questo. Morrison volle condensare 70 anni di storia editoriale, di visioni e concetti in una storia che li ricontestualizzi non solo per un pubblico moderno, ma per un pubblico eterno. La storia doveva vivere fuori dal tempo, la sua era una visione idealizzata e idealizzante del personaggio, e chiunque voglia capire come lo scozzese intenda Superman, quello è il fumetto da leggere.
Essendo fuori continuity, potrebbe venire vissuta con la leggerezza che si riserva a una lettura estemporanea, uno sfizio di uso e consumo immediato. La morte di Superman, in questo senso, non avrebbe lo stesso peso, perché il lettore sa di stare vivendo un sogno lucido, una faccenda che non avrà ripercussioni permanenti. Invece All Star Superman ha tutta la gravitas e la forza di una storia definitiva, come inserita nel flusso narrativo canonico.
Fuori dal tempo eppure incredibilmente sul pezzo, perché Morrison e Frank Quitely trattarono la materia con rigore e credibilità. Evitarono le banalità (la kryptonite verde? Il sovraccarico di energia lo ha reso immune, e per trovargli degli ostacoli bisogna ricorrere ad altri espedienti) e pur baloccandosi con una fantascienza alta e piena di high concept (le ricerche di Leo Quintum, il Cronovoro, i kandoriani che curano il cancro), non portarono mai gli assunti troppo oltre, stiracchiando le dinamiche o esasperando le premesse. Certo, l’assunto di base è che Superman sta morendo, ma non siamo messi di fronte all’ipotesi che Kal-El finisca per diventare leader dell’Unione Sovietica.
Morrison si propose di toccare tutti i luoghi, più o meno noti, del mito – le sue origini, i travestimenti di Jimmy Olsen, il cast di comprimari allargato, i cattivi storici (Lex Luthor, Bizarro, Doomsday), Kandor, i Superman delle realtà alternative – ma tutti questi elementi non furono disposti sulla pagina come in una galleria d’arte, incorniciati e distanti, impossibili da avvicinare, ma furono invece usati attivamente nelle storie, ribaltati nel loro senso o adoperati per dire qualcosa sul personaggio.
Ode alla Storia editoriale di Superman, con un occhio di riguardo alla Silver Age, All Star presenta una concezione forte del personaggio. Lo si capisce già dalla copertina del primo numero, che quello di All Star è un taglio diverso. Superman è seduto sulle nuvole, rilassato come lo era quel cosplayer incontrato a San Diego, distantissimo dalle esibizioni di forza e maestosità che gli abbiamo visto produrre nelle tante copertine storiche in cui sollevava un’automobile o frantumava delle catene con un colpo di diaframma.
Nella Golden Age, Superman era un personaggio da striscia giornaliera. Per ogni cattivo c’era un pugno con il suo nome scritto sopra e una morale spicciola pronunciata a bocca larga. Questa leggerezza narrativa fu estremizzata nella Silver Age, quando l’editor Mort Weisinger spinse oltre il muro del suono le idee contenute in ogni albo, creando una mitologia diventata unica nella Storia del fumetto, per fantasia e portata fanta-stramboide. Era tutto talmente assurdo che faceva il giro e diventava un compatto pacchetto di coerenza. Se eri un ragazzino negli anni Sessanta, sapevi che aprendo un albo di Superman ti aspettavano storie in grado di riscrivere il concetto di “scemo”, dallo spin-off sul fotoreporter Jimmy Olsen in cui la spalla di Superman subiva le più improbabili trasformazioni – tartaruga, uomo lupo, hippy – alla kryptonite di vari colori, passando per Bizarro.
Per un segmento consistente della sua vita, Superman è stato un personaggio senza problematiche, con pochissime debolezze (e altrettanti pochi stratagemmi narrativi per superarle). Il film di Richard Donner lo riportò a una dimensione umana e soap operistica, e il fumetto fece lo stesso: dagli anni Ottanta John Byrne pose l’accento più su Clark Kent che su Kal-El e vi iniettò idee di fantascienza seria. Agli eccessi degli anni Novanta fece seguito uno stallo creativo da parte degli sceneggiatori. E fu lì che Morrison lo trovò, in balia di un’era che lo aveva soppesato in fretta, valutandolo come chincaglieria del passato.
Il tempo aveva trasformato Superman da eroe comune a un santino ispiratore, che non poteva e non doveva sbagliare mai. Rispondere sempre, rispondere correttamente. Ed ecco che da autori che sollevavano questioni meritevoli di un dibattito, ma complesse al punto da non concedersi il lusso di una risposta perentoria (Must There Be a Superman?, su Superman #247, in cui lo scrittore Elliot S. Maggin si chiedeva se il continuo intervento di Superman non stesse redendo l’umanità dipendente dai servigi dell’eroe), si passò a trame che, partendo da incipit forti, lasciavano a Superman l’onere di sbrogliare la situazione con decisioni manichee.
John Byrne che uccide dei kryptoniani malvagi a sangue freddo (Non puoi più tornare a casa, su Superman vol. 2 #21), Joe Kelly che difende i valori del buon vecchio fumetto contro l’ondata postmoderna (Cosa c’è di sbagliato nella verità, nella giustizia e nel sogno americano?, su Action Comics #775), J. Michael Straczynski che, per sanare un quartiere invaso dallo spaccio, fa bruciare a Superman la casa dei malviventi (Grounded, su Superman #701-714), proprio Straczynski che in altri suoi lavori si era scagliato contro le soluzioni semplicistiche ai grandi problemi umani.
Morrison lo spiega nel suo saggio-memoir Supergods: Superman è un dio puro è semplice e, dai poteri a quella S stilizzata sul petto che ricorda la saetta di Zeus, tutto rimanda a una dimensione divina. È una divinità che, prendendo spunto dagli scritti di Pico della Mirandola (che fa anche un cameo nel fumetto), diventa pietra di paragone attraverso cui l’uomo può aspirare al meglio di sé. I pesci non desiderano correre e un cavallo non sogna di volare, ma l’uomo attraverso l’imitazione e l’ingegno è sempre alla ricerca di limiti da superare, di modelli a cui guardare.
Superman è la versione di noi stessi migliori a cui possiamo aspirare ed è a lui che guardiamo per superare le nostre limitazioni. Ma lo sceneggiatore sa che, pur distanziandolo da noi, non può metterlo su un piedistallo irraggiungibile, pena la perdita di un baricentro emotivo da parte del lettore o la riduzione a santino da cruscotto che non sa offrire niente oltre a qualche risposta semplice. Morrison prende sì le mosse dalla concezione divina del personaggio ma evita di farlo cadere in rappresentazioni statiche che confinerebbero il personaggio sul trono di un Re Salomone con le mutande sopra i pantaloni. Perciò la precarietà della morte lo riporta al centro dell’azione, stabilisce un’altra dicotomia con cui bilanciare il testo e contribuisce a plasmarlo come personaggio: Kal-El viene messo di fronte alla propria umanità e la accetta, non lasciandosi morire, ma vivendo il tempo che gli resta comportandosi come la miglior versione possibile di se stesso.
Le grandi idee sono disseminate su ogni pagina e nessuna vignetta è troppo piccola per non essere riempita con un po’ di sense of wonder. I due autori scozzesi snocciolano l’esistenza del Bizzarro di Bizzarro, Zibarro, o di un cucciolo di divoratore di soli, nutrito con piccoli corpi celesti forgiati con un’incudine cosmica nello zoo privato della Fortezza della Solitudine. Si respira aria moebiusiana in questi luoghi grazie alla matita di Quitely e alla tavolozza brillante e senza ombre di Jamie Grant. Scrive Marco Andreoletti su queste pagine: «Le vignette erano dinamiche come sempre, ma le transizioni dolci e armoniose. Ogni forma di giochetto di layout venne eliminato, a esclusione di un paio di pagine dalla griglia sbilenca».
Superman è il supereroe più iconico di tutti. Tramutandosi in icona, negli anni, è diventato riluttante al cambiamento, accettando poco una rappresentazione fuori dai canoni. Ma “fuori dai canoni” è il modo più sintetico per inquadrare Quitely, le cui anatomie e smorfie sono idealmente in contrasto con il viso pulito e la struttura ossea da manuale di Superman. Proprio lui che aveva disegnato la morte dell’eroe classico ora deve gestire il padre di tutti. Il suo Superman è slanciato, muscoloso ma disegnato con un costume credibile, che non aderisce al corpo come una seconda pelle ma che si piega in grinze come se fosse tessuto indossato da un essere umano. Perché, come aveva dimostrato il cosplayer incontrato da Morrison, non è il costume a fare il supereroe ma l’atteggiamento.
E l’atteggiamento di Superman è regale, composto anche nei momenti di incertezza. Dall’altra parte dello spettro, invece, c’è un Clark Kent altrettanto radicale. Seguendo i suggerimenti di Morrison, Quitely fa diventare l’identità segreta di Superman un orso pasticcione, un armadio goffo che agli occhi di tutti non riesce a mettere un piede davanti all’altro senza combinare un guaio, mentre in realtà sta salvando una vita.
Se proprio gli si vuole trovare un difetto è che a volte abusa del vuoto scenico come effetto ambientale (lunghe sequenze nei laboratori di Quintum o nella Fortezza della Solitudine agghindate da una mano di colore sullo sfondo). Lo stesso Quitely ci scherzò sopra: «Vorrei vedere Superman nello spazio, in una landa di neve o in un deserto. Ovunque non ci sia bisogno di dover disegnare uno sfondo».
Sotto la storia, Morrison elaborò un sistema di rimandi e giochi simmetrici. Dodici sono gli episodi che compongono l’opera, dodici i mesi in cui si svolgono le vicende, dodici le fatiche di Eracle che si trova a dover superare l’Azzurrone. La pagina d’apertura, una delle più conosciute e citate nel fumetto moderno, condensa la nascita di Superman in quattro elementi («Un pianeta condannato. Due scienziati disperati. Un’ultima speranza. Due anime buone»), una formula per la creazione di un mito, quella stessa formula che Leo Quintum svela di aver inventato nell’ultima pagina del volume. E nel mezzo Morrison e Quitely ci danno prova di quanto la formula funzioni: le storie di Superman non sono che una miscela in dosi variabili di morte, disperazione, speranza e gentilezza.
Sempre Quintum, all’inizio della storia, è preda di un tarlo: non riesce a comporre l’haiku perfetto. Chiama un filosofo ma questi è altrettanto incapace di trovare la sutura. Sarà Lex Luthor, benedetto dalla visione unificata dell’universo, a descrivere il Tutto con lo schema del componimento giapponese: «The fundamental forces are yoked by a single thought» (in italiano reso con «Le forze fondamentali sono aggiogate da un unico pensiero»).
E ancora il numero 10, Senza fine, un uroboro propulso da una spinta eterna: Morrison e Quitely raccontano la creazione da parte di Superman di un universo in cui l’eroe non è mai esistito, per capire come se la cava un mondo senza di lui, e in ventidue pagine assistiamo alla Storia dell’Uomo – piena di paralleli visivi e simmetrie kubrickiane – che dal pleistocene arriva alla mansarda di un palazzotto di Cleveland, dove due ragazzi stanno mettendo su carta il loro terzo tentativo di un fumetto supereroico.
Potrei andare avanti a lungo ma avreste la sensazione di un esaltato che indica ogni quadro del Louvre. E alla fine tutti questi incastri potrebbero dare un mero piacere intellettuale, freddo e distaccato, appena più raffinato – perché celato – delle sovrastrutture palesate da Jeph Loeb in molte sue opere (le festività in Batman: Il lungo Halloween, i giorni della settimana in Catwoman: Vacanze romane, le stagioni in Superman: Stagioni). All Star è una delle storie più belle del personaggio, perché, sì, Morrison ha costruito un meccanismo di specchi e riferimenti, di tanti piccoli ingranaggi che non inceppano mai, ma soprattutto perché, alla base, c’è una fattura ottima, una comunanza di intenti con il disegnatore Frank Quitely – già suo sodale su Flex Mentallo, JLA: Terra 2, New X-Men e We3 – e una storia appassionante.
Se le intenzioni erano le stesse che lo avevano guidato nella sua trasferta in Marvel (nuove letture di vecchi personaggi), le modalità operative dovevano giocoforza cambiare. Seguendo l’insegnamento di quel Superman incontrato a San Diego che aveva detto di vedere la luce in tutte le persone, gli autori mostrarono compassione per ogni personaggio, anche il più pernicioso. Superman non è gli X-Men, lo sceneggiatore non si poteva permettere il cinismo devastante che aveva adoperato con i mutanti, perché Superman ha un cuore grande così. In All Star Superman Morrison ricordava, anche a sé stesso, di averne uno altrettanto pronto a riversare nei fumetti speranza, trascendenza, apertura alle piccole bellezze della vita. E della morte, che è una delle colonne tematiche della storia.
C’è la morte evidente e esplicita, fisica e biologica, quella di Superman. Non è una morte da blockbuster causata dalla sconfitta, dalla supremazia di un qualche nemico o dal risultato di uno scontro fisico. O, meglio, lo è perché dietro a tutto c’è Lex Luthor e a deperire è il corpo di Kal-El, ma il pensiero che guida All Star Superman è la semplice e ineluttabile presa di coscienza che tutto è parte di un circolo vitale. Superman, personaggio immortale, senza tempo, che ha resistito alle intemperie degli anni meglio di quanto abbiano fatto i suoi lettori, ora si trova nella stessa situazione di un Lex Luthor che, svegliatosi una mattina, aveva capito di stare invecchiando dopo aver visto nello specchio «tante piccole ragnatele attorno agli occhi».
C’è la morte evocata, come la famosa pagina in cui il Nostro salva una ragazza dal suicidio. C’è la morte dei padri, quella di Pa’ Kent, che è anche un po’ il papà di Morrison, morto nel 2004 durante la stesura dell’opera. Walter Morrison aveva vissuto la vita da eroe, come racconta il figlio in Supergods, era stato un uomo dell’esercito che aveva disobbedito agli ordini e celato un passato da attivista politico ed ecologista. Non era stato un santo, aveva tradito la moglie e infranto il nucleo famigliare, ma la sua morte era servita a Morrison per riflettere sulla mortalità. Il sesto capitolo, Funerale a Smallville, è un flashback sui generis in cui riviviamo la giovinezza di Clark e la morte di Pa’ Kent, mentre una squadra di Superman di diverse linee temporali arriva per sventare l’attacco del Cronovoro, il divoratore di tempo.
In un pezzo pubblicato su Comicus, Davide Giurlando si chiedeva che impatto avrebbe avuto la serie – che, nel momento in cui scriveva Giurlando, era uscita da poco – in futuro. Sono passati dieci anni dalla pubblicazione dell’ultimo numero. E di quel Superman divino si sono un po’ perse le tracce. Perché il progetto All Star non era calibrabile per un appuntamento seriale e poi perché lo stesso Morrison aveva ormai ripensato al proprio Superman quando la DC gli affidò il reboot di Action Comics dopo The New 52.
In quell’occasione, Morrison si approcciò scandagliando un lato che in All Star non aveva toccato, ossia Superman come artefatto di Americana. Clark era giovane e indossava la divisa working class di Bruce Springsteen, scarpe da lavoro, jeans rattoppati e maglietta. Recuperando alcune idee scartate da All Star, Morrison riesumò il Superman con cui era meno a proprio agio, un Kal-El giovane e irruento simile all’incarnazione degli anni Quaranta. L’incarico terminò dopo pochi numeri senza lasciare ricordi memorabili.
Tuttavia, anche se è un titolo oscuro al di fuori dell’ambito fumettistico, All Star Superman rimane un paragone con cui confrontarsi nonché un generatore di momenti iconici, citazioni e riferimenti più o meno dichiarati. Max Landis, quando si è trovato a sceneggiare la propria visione di Superman, ha preso Morrison e Quitely come pietre di paragone. Il suo Alieno americano è un anti-All Star Superman perché, se in quest’ultimo fumetto Superman è la risposta alla domanda «Cosa succede quando l’uomo aspira al proprio massimo potenziale?», in Alieno americano sono gli uomini a rendere Superman l’eroe che è.
A omaggiare All Star Superman è stato anche Matt Fraction, che ha provato ad applicare il modello di Morrison ai Fantastici Quattro, gli eroi Marvel che più si avvicinano ai valori dell’Azzurrone. Fraction non ha mai menzionato l’ispirazione morrisoniana per la sua gestione datata 2013, ma i paralleli sono palesi: un incidente causa il decadimento molecolare dei protagonisti, portandoli a intraprendere un viaggio lungo un anno; viene compiuta un’operazione atta al recupero di elementi del passato, non necessariamente derivanti dai fumetti, con una predilizione per gli anni Settanta (il robottino H.E.R.B.I.E. della serie animata in Fraction, i rimandi al Superman di Richard Donner in Morrison), e alla riflessione sul ruolo dell’eroe e della divinità.
E pensare che è tutto nato da un ragazzo con un costume e un pelo in più di sicurezza in sé della media. Morrison ha detto di averlo rivisto un paio di volte, alle fiere, ma non era più Superman, era soltanto un ragazzo alla mano vestito come lui. Di quelli Morrison ne aveva visti tanti, alle fiere o davanti al Grauman’s Chinese Theatre, a farsi fotografare con i turisti, ma nessuno era mai stato così convincente o significativo come il Superman che gli apparve nel 1999, nel momento in cui ne aveva più bisogno.