Dicesi weird west quel sottogenere che fa del perturbante la propria cifra stilistica. Le storie di questa categoria sono solite presentare una cornice western iper-classica, con il saloon, l’allegra musica della pianola interrotta da una scazzottata improvvisa, la prostituta merlettata dal cuore d’oro, gli indiani, lo sceriffo stellato, per poi inserire uno o più elementi scompiglianti, presi solitamente da altri generi di fiction speculativa. E allora ecco che la pianola suona i Radiohead (Westworld), gli indiani combattono contro esseri extradimensionali (Cowboys & Aliens) e lo sceriffo indossa una tuta spaziale (Atmosfera zero).
Il genere ha trovato sbocchi insospettabili (con l’iconografia da weird west un po’ ci ha giocato persino The Walking Dead ) ma con fortune alterne, perché la miscela di elementi così diversi spesso crea problemi di tono e non sempre il tutto è maggiore della somma delle parti. Il pastiche non perdona e per ogni isteria collettiva verso Westworld ci sono folle spernacchianti nella direzione di Jonah Hex o Wild Wild West.
Più felici, per qualche motivo, le incursioni fumettistiche (spesso le stesse da cui poi hanno tratto film e serie tv), da Cowboys & Aliens a Wynonna Earp, passando per Pretty Deadly o i nostrani Tex e Zagor, che non hanno disdegnato nella loro storia editoriale l’aggiunta occasionale di elementi fantastici, ma anche le opere delle nuove leve Capitan Artiglio (Kids with Guns) e Vinci Cardona (Black Gospel), come ha raccontato Marco Andreoletti.
In questo filone si inserisce The Sixth Gun, serie di cinquanta numeri nata nel 2010 e conclusasi nel 2016, pubblicata da Oni Press (e in corso di serializzazione in Italia per ReNoir). Il weird west viene messo al centro del discorso, con una premessa da western piegata al fantasy sciamanico-pulp: alla fine della guerra di secessione, il misterioso Drake Sinclair è alla ricerca della sesta pistola, ultimo pezzo di una collezione d’armi potentissime.
Le sei pistole hanno ognuna una caratteristica sovrannaturale (una spara come un cannone, una avvolge tutto nel fuoco, una dona la giovinezza, una provoca la peste, una mostra il futuro e una è in grado di riesumare le anime dei corpi che ha abbattuto). Tutti i conflitti ruotano attorno a queste sei pistole e l’impianto della serie è orizzontale: a ogni arco narrativo si aggiungono personaggi che vogliono entrare in possesso delle armi e solitamente al sesto numero Drake e i suoi riescono a sventare il pericolo.
Non c’è niente di trascendentale in questa serie creata da Cullen Bunn (testi), Bryan Hurtt (disegni) e Bill Crabtree (colori). Hurtt ha il tratto amichevole di un autore per ragazzi, il suo west non è mai troppo spiacevole, le sue creature demoniache mai troppo spaventose, le sue ombre mai troppo nette. Con l’eccezione del protagonista, gli uomini sono dipinti di un unico colore: tipi scalcagnati, arruffati, sporchi e polverosi. Hurtt sembra divertirsi di più a giocare con l’aspetto di Becky Moncrief e della Vedova Hume, rispettivamente le anime femminili positive e negative della storia. Con le espressioni, le pose e i vestiti, Hurtt le caratterizza meglio di quanto faccia con gli altri personaggi.
È tutto molto centrato, niente cadute mortali, niente picchi inebrianti, anche se ci sono elementi che impediscono un attaccamento forte al prodotto (il protagonista per esempio fatica a ritagliarsi degli spazi significativi che lo vedano in primo piano, oltre alle scene d’azione) e la lettura procede speditissima, ma siamo sempre a un passo dal risultare memorabile.
Una banda di pistoleri lucertole, tanto per dirne una, è un guizzo che sulla carta promette grandi cose ma che poi nel concreto ne realizza “solo” di buone. L’idea stessa che sta alla base della serie è furba ma in alcuni passaggi perde di mordente, perché le si preferiscono altri percorsi o perché il suo uso non è fondamentale per la trama. Questo perché Bunn porta avanti la storia con una serietà quasi asfittica, lascia poco spazio alla commedia e mai una volta si concede al gioco di far intendere quanto deliranti siano alcune situazioni.
È grazie a The Sixth Gun e Harrow Country che Bunn si è fatto conoscere e assoldare in Marvel Comics, ma la sua esperienza lì non ha brillato per inventiva. I suoi incarichi su Capitan America e Uncanny X-Men risuonano a vuoto nella mente dei lettori, un pochino meglio gli è andata con Magneto e Venom, ma siano sempre nel territorio delle gestioni mediane.
A volte viene da domandarsi cosa abbia portato gli editor dei grandi gruppi come Marvel e DC a convocare certi nomi, non proprio radunafolle, come quello di Bunn. The Sixth Gun fa capire cosa ci trovassero gli editor in quei nomi tanto da convincerli a chiamarli. La conduzione dei momenti d’azioni è da manuale, come un lungo assalto al treno che mostra una gestione dei tempi inappuntabile. Come anche il bilanciamento tra horror, fantastico e realistico, fondamentale per le premesse della serie e mai dirottato verso un solo genere.
Il meccanismo presumo sia lo stesso che governa le produzioni cinematografiche: giovani talenti pescati dal mare dell’indie vengono messi al sedile di comando di qualche megaproduzione per un non ben precisato aggancio tematico. Gareth Edward ha fatto un monster movie da due soldi che sullo schermo sembrano il doppio? Diamogli Godzilla e incrociamo le dita che sappia gestire l’esercito di una produzione hollywoodiana.
Harrow Country e Sitxh Gun sono prodotti solidi con un forte imprinting horror? Mettiamo Bunn a scrivere Venom. Solo che, come la grande macchina del cinema, nel fumetto corporativista ci sono regole e dinamiche da rispettare, meeting e visti di approvazione attraverso cui passare che possono modificare le idee di un autore o spegnere quella luce creativa che aveva negli occhi. C’è chi si trova bene e chi si fa schiacciare dal processo. Data la sua produzione, Bunn pare molto più a suo agio nel mondo orrorifico che si è creato con queste serie che con i grandi conflitti dei supereroi.
The Sixth Gun voll. 1/5
di Cullen Bunn e Brian Hurtt
ReNoir Comics
Brossurati a colori
€ 14,90 cad.