Siamo entrati nello studio di Frank Santoro, fumettista americano residente a Pittsburgh, autore del graphic novel Pompei, pubblicato da 001 Edizioni.
Quali sono i progetti a cui stai lavorando attualmente?
Fortunatamente, sono impegnato in più progetti. Ho appena consegnato al mio editore, Editions ca et la, il mio memoir sui miei genitori intitolato Pittsburgh. Ci ho messo quasi tre anni a realizzarlo. Lo stavo progettando sin da quando ho concluso il libro precedente, Pompei. Poi ho un altro bel po’ di cose su cui lavorare. Gestisco un programma di residenze d’artista per fumettisti e faccio da tutor a vari fumettisti che ospito in abitazioni che si trovano tutte sulla stessa stradina e che vengono a casa mia a mostrarmi come procede il loro lavoro. Il mio studio si trova in una vecchia casa a schiera e ho il tavolo da disegno nella sala da pranzo. Un tempo era la casa dei genitori di mia madre. Mio nonno materno è cresciuto qui. Mi immagino spesso i miei nonni che dall’alto mi guardano male per come sono disordinato.
Quali sono gli strumenti che usi per disegnare?
Non faccio uso del computer. Non so nemmeno usare Photoshop. Perché insegnare a una macchina a fare il mio lavoro? Tutto il mio lavoro è analogico. Disegno su normalissima carta da ufficio e uso strumenti basilari da ufficio, come le penne a sfera Pentel, che sono le migliori penne a sfera che sia ci siano. Fu Alex Toth a consigliarmi di usarle. E poi matite colorate e pennarelli, perlopiù di marca Berol Prismacolor. Come dice Art Spiegelman, “è più come scrivere”, se si usano strumenti “asciutti”. Da giovane ho lavorato come assistente di artisti che dipingevano a olio e mi piace il fatto di non dover usare uno studio separato in cui lavorare a certe cose. I fumettisti sono fortunati, perché il nostro lavoro può essere piuttosto pulito. Uso anche l’aerografo. È divertente. Ma è a base di acqua. Lo uso soprattutto per dipingere gli sfondi che mi commissiona Dash Shaw. Ma ho realizzato anche una storia di Silver Surfer per la Marvel con l’aerografo. È divertente perché è come dipingere con aria colorata, ma è a base di acqua.
Hai delle abitudini da rispettare prima di metterti al lavoro?
Cerco di fare sempre disegni di riscaldamento. Mi piace copiare i fumetti della Archie Comics. Mi permette di disegnare senza pensare, senza inventiva. E gli Archie hanno uno specifico realismo cartoonesco che secondo me è perfetto da copiare. Idealmente, mi scaldo per una mezzora circa, per poi iniziare a lavorare ai miei fumetti. Però, quando un lavoro si avvicina al completamento, faccio meno riscaldamento, perché mi sento più sicuro sulla direzione che sto prendendo. Un’altra cosa che faccio è preparare ossessivamente caffè con la mia caffettiera Bialetti. Devo fare un sacco di strada per comprare caffè Lavazza all’alimentari italiano in un altro quartiere. Il caffè americano fa schifo.
Ci sono libri o fumetti che devono essere a portata di mano mentre disegni?
Sono circondato da libri. Fumetti e libri di ogni genere. Ho una collezione folle. Però non li uso per reference, ma più come ispirazione. I fumetti che mi piacciono sono molto diversi da quelli che realizzo io. Mi considero un fumettista sperimentale, ma mi piacciono tutti i generi di fumetto. Più sono scemi, meglio è. C’è stato un periodo in America, dopo il successo delle Tartarughe Ninja, in cui ogni ragazzino di sedici anni che voleva fare fumetti se li stampava da solo. Questo finì per alimentare la scena dei mini-comics degli anni Novanta. Sono perlopiù lavori pessimi, ma io li trovo affascinanti. La cultura delle fanzine per me è molto importante.
Nel tuo studio hai un oggetto particolare a cui tieni?
Il mio orologio a cucù che ho comprato in Svizzera. È un articolo originale. È come un metronomo che praticamente scandisce le mie azioni a un ritmo specifico. Quando la gente lo vede ne è particolarmente stupita, ma a me piace. Inoltre, accumulo sul tavolo oggetti a cui sono devoto, come lettere di amici e foto di famiglia. Gli oggetti sono meno importanti del raggruppamento stesso degli oggetti. La pila può cambiare, ci finisce dentro qualunque cosa che è importante e che non mi posso permettere di perdere. Sento come se ci fosse un’attrazione gravitazionale che punta lì, di modo che quegli oggetti siano a portata di mano mentre lavoro. Credo di poter dire che la casa stessa sia importante. Per esempio, per me è difficile lavorare in un bar. Questo ha a che fare con i miei ricordi e con la mia famiglia, ma soprattutto con il fatto è che ho un bisogno costante di caffè, ma i bar sono costosi e pieni di gente che fissa monitor di computer.