L’Italia è un paese di anomalie e di storie sottotraccia. Una di queste è nella traiettoria di Segretissimo, la più umile delle tre sorelle dell’edicola di Mondadori: Giallo, fantascienza (cioè Urania, di cui abbiamo intervistato qui Giuseppe Lippi e qui Franco Brambilla) e spy-story, ovvero Segretissimo.
La collana è nata nel 1960 e da subito è stata legata alla serialità, che poi è quello di cui parliamo con il nostro ospite nell’intervista che segue. Infatti Segretissimo debuttò con i romanzi in serie di Jean Bruce (poliedrico autore francese e creatore dell’agente segreto Hubert Bonisseur de La Bath, ovvero OSS 117) e poi sfondò con quelli di Gérard de Villiers (autore delle innumerevoli storie di Malko Linge, principe austriaco e agente fuori quadro della CIA, conosciuto come SAS, ovvero “sua altezza serenissima”).
Un concetto, quello della serialità, che per Segretissimo vale ancora più che per il giallo, dove comunque è importante perché consente di costruire meccanismi narrativi sempre nuovi attorno a delitti sempre diversi ma risolti dallo stesso investigatore. Se ne possono citare tanti, ma forse i più famosi sono Hercule Poirot, Sherlock Holmes, Auguste Dupin, il commissario Maigret, Ellery Queen e Jessica Fletcher.
Segretissimo segue invece la pista dell’avventura: spionaggio, ma anche thriller, azione, con l’immancabile strascico di lusso, belle donne, sesso a profusione, violenza e tante, tantissime pallottole, unite però a una conoscenza molto articolata della politica internazionale e della geografia di luoghi esotici, che fanno spesso parte integrante della trama.
In Italia il vivaio di autori che hanno praticato il genere, a partire dal più illustre e “letterario” di tutti, cioè Giorgio Scerbanenco, è enorme. Il settore ha visto una crescita fino a culminare, alcuni anni fa, nella rivelazione di quella che è stata chiamata la “Segretissimo Foreign Legion“, con l’antologia Legion pubblicata come numero speciale di Segretissimo del 2008. Nel volume, tutti autori italiani che hanno pubblicato spesso e volentieri sotto pseudonimo: Secondo Signoroni, Sergio Altieri, Stefano Di Marino, Andrea Carlo Cappi, Giancarlo Narciso, Claudia Salvatori, Gianfranco Nerozzi, Massimo Mazzoni, Tito Faraci e Franco Forte.
Le antologie servono a mostrare un genere e dimostrarne l’importanza. Un esempio: l’operazione culturale di questo tipo più importante probabilmente è stata la pubblicazione negli anni Sessanta di Le meraviglie del possibile e Antologia della Fantascienza a cura di Sergio Solmi, Carlo Fruttero e Franco Lucentini, poi trasformate nell’antologia bellissima L’ora di fantascienza. Era la scoperta della narrativa di anticipazione (angloamericana) come genere “colto” e ricco di spunti e prospettive, emancipandolo da quella snobistica attitudine del pubblico e della critica nostrana.
Con Legion Mondadori e Segretissimo mettono in scena l’universo ricco e brulicante di storie e pulsante di energia. Gli italiani che diventano protagonisti del genere più conosciuto negli Stati Uniti, cioè la spy-story e il thriller.
Tra tutti, negli anni un nome diventa quasi una leggenda: è quello di Stefano Di Marino, alias Stephen Gunn. Classe 1961, ha scritto a partire dagli anni Ottanta un quantitativo enorme di libri, non solo per gli standard solitamente “stitici” degli autori italiani. E non si ferma. Il suo personaggio più famoso è Chance Renard, il Professionista, ma c’è anche la nuova serie di Bas Salieri e tanto altro, come ad esempio gli western (ne ha appena pubblicato un altro solo digitale per Delos, El Diablo). È entrato nell’occhio della critica, è stato descritto come fenomeno, talento emergente, autore popolare capace di stuzzicare anche altre corde. Oggi è la colonna portante di Segretissimo, non solo quantitativamente.
Quali sono le sue idee sull’immaginario dell’avventura? Quali i confini con il fumetto, quali con l’illustrazione? E soprattutto, un autore da 90 romanzi, che scrive al ritmo di un titolo nuovo ogni mese e mezzo, come fa? Quanto e come lavora? Abbiamo pensato di chiederglielo.
Inizierei chiedendoti: chi è Stefano di Marino?
Mi piace pensare di essere un ragazzo che sognava grandi avventure ed è riuscito a trasformare un hobby in un lavoro. Scherzi a a parte, “ragazzo” nell’anima. Sono nato nel 1961 e ho coltivato la passione per la Cultura Popolare attraverso libri, cinema e fumetti sino a diventare “professionista” in questo campo. Dal 1989 mi occupo di editoria a tempo pieno. Sono stato editor, redattore, traduttore, curatore ma ora la mia attività si concentra soprattutto sulla scrittura di romanza e di saggi. Con lo pseudonimo Stephen Gunn firmo dal 1995 la serie di spionaggio Il Professionista pubblicata su Segretissimo, ma ho pubblicato oltre 90 romanzi e saggi spaziando un po’ tra tutti i generi, dal thriller al western.
Quando hai capito che voleva diventare uno scrittore? Quando hai iniziato a scrivere? Ho visto dalle tue note che hai lavorato per Mondadori, nella redazione di Urania se non sbaglio: è così?
Sì ho iniziato professionalmente come redattore di Urania, ma la mia passione, la convinzione che quello sarebbe stato il mio lavoro risale a un tempo molto precedente. Ho sempre letto moltissimo sin da ragazzino. Ho cominciato a scrivere su vecchi quaderni a 13 anni. Non ricordo un periodo della mia vita da allora in cui non ho scritto.
Letteratura e immaginari popolari: dove collochi il confine tra libri e fumetti in questo genere?
Nella mia visione non c’è una divisione netta. Soprattutto a livello di ispirazione sono sempre piuttosto eclettico e non faccio differenze. Il fumetto e la narrativa scritta, come il cinema del resto, sono sullo stesso piano. Oggi si parla di multidisciplinarietà, ho sempre visto queste forme di narrazione molto legate. Una storia prima la devo vedere. Naturalmente ci sono delle differenze di linguaggio. Il cinema, i fumetti, il romanzo hanno delle similarità a livello di trama, di visualizzazione nella mente di chi scrive ma, logicamente, hanno diversi mezzi di espressione. Chi scrive narrativa deve imparare a usare la parola per creare un insieme di immagini e sensazioni che aiutino chi legge a ‘crearsi’ il suo film.
Ho visto che negli anni passati hai lavorato al soggetto e sceneggiatura di fumetti tratti dai tuoi romanzi: quali sono le differenze tecniche? Cosa bisogna cambiare per raccontare una storia per immagini dopo tante storie per i libri?
La sceneggiatura di un fumetto e la stesura di un romanzo sono piuttosto differenti. Un fumetto ha un numero limitato di tavole. La storia va mostrata più che raccontata. È importante scegliere immagini e battute che senza risultare meccaniche, permettano di congelare il racconto nei suoi momenti salienti. È come scattare una serie di fotografie dei momenti più significativi. Un lavoro utilissimo anche quando si torna a scrivere. Nel romanzo la concisione è fondamentale, altrimenti ci si perde per strade che dilatano inutilmente il racconto.
Non parliamo di arte, però prendiamo a prestito un concetto di Umberto Saba sul fare “poesia onesta”, cioè il nesso tra bellezza, verità e artista: ti piace l’idea che l’artista debba essere vero? Ho visto per esempio che pratichi arti marziali, ami viaggiare e in un certo senso vivere una vita più simile a quella dei tuoi personaggi che non a quella dei tuoi lettori, all’opposto di Emilio Salgari.
Sì, ritengo che raccontare l’avventura, anche in modo fantasioso, richieda di aver provato certe sensazioni. Nessuno pensa di diventare davvero un pistolero per poter scrivere di spionaggio, però viaggiare, praticare sport che comportano anche un minimo di rischio può aiutare. Chi scrive, o comunque racconta, trasfigura emozioni reali adattandole al racconto. È un rapporto molto stretto ma anche molto libero.
Ti faccio un esempio. Io per anni ho praticato la Kickboxing che di per sé è uno sport abbastanza duro anche se non pericoloso. Il combattimento, anche a contatto reale, segue delle regole, si indossano protezioni. Ma lo scambio di pugni e calci in qualche modo è reale. Certe sensazioni, la paura persino (be’, prendersi un pugno non è mai piacevole) possono essere amplificate, trasfigurate in qualcosa di molto più… eroico per trasmettere al lettore determinate sensazioni. La costruzione esclusivamente a tavolino resta fredda. Ovviamente narriamo vicende che sono sempre oltre il livello di realtà, ma è il bello di questo lavoro.
Serialità: tu sei uno dei pochissimi autori prolifici nel panorama italiano e segui una importante eredità anglosassone ma soprattutto francese, da Gérard de Villiers a San-Antonio/Frédéric Dard. Chi sono in realtà i tuoi modelli? Quali sono le affinità ideali e quali le affinità di mestiere, di officina che senti e per chi le senti?
La serialità è l’anima della Narrativa popolare. Di modelli ne ho avuti moltissimi. Da Ian Fleming ai già citati de Villiers ma anche tutte le serie famose di Segretissimo da OSS 117 a Nick Carter. Parlando di fumetti quello che considero il mio maestro ideale è Jean Van Hamme con le serie XIII e Largo Winch.
Se sfruttata bene la serialità permette anche una evoluzione del personaggio perché se è vero che ci sono elementi che ritornano e il lettore ama ritrovare, se sin dall’inizio abituiamo il pubblico a una certa dose di imprevedibilità e a una evoluzione – se non del carattere almeno della vicenda di base del nostro protagonista – si aprono una serie infinita di possibilità.
Immaginari italiani: dove stiamo andando? Cosa c’è oltre la tua Gangland?
Gangland nasceva nel 2005 dal desiderio di riappropriarmi degli ambienti di casa nostra, un po’ per dimostrare che dopo aver girato il mondo con il Professionista potevo ancora trovare spunti vicino a me, anche perché l’Italia è diventato uno scenario molto meno provinciale di quanto si pensasse una volta. È un nodo importante anche per storie internazionali. E poi mi piaceva l’idea di raccontare la mia città (che poi è Milano anche se la chiamo Gangland) con un piglio più dinamico di quello usato in tanti romanzi nostrani che mi sembra seguano una via… come dire, più sommessa, più da racconto di costume, quasi da commedia.
Con tutto il rispetto per altri autori, io la mia città la vedo così… poliziottesca se vogliamo, in linea con la altre avventure. Non ha senso pensare che certe storie possano essere adrenaliniche a Hong Kong mentre invece a Milano debbano diventare più edulcorate. Era una sfida. I lettori l’hanno presa bene e in quegli anni ho scritto molte storie su Gangland. Adesso siamo a una fase successiva, l’Italia torna spesso nei miei racconti ma non in maniera esclusiva. È uno dei set del racconto, si amalgama con gli altri. Mi sembra un superamento di una posizione troppo limitata. Però… insomma, mi piacerebbe scrivere un’altra storia tutta milanese. Sicuramente lo farò.
La televisione e il cinema fanno crescere modelli di fruizione sempre più acritici, spinti dal marketing, privi di dissenso, mentre il libro (e in parte anche il fumetto) generano dubbio, richiedono interpretazioni. È ancora così? È così anche per il thriller seriale da edicola?
Senza dubbio. Vedi, la fortuna di scrivere thriller seriali da edicola (che sono quasi dei giornalini) è che… be’ a volte l’editore stesso non li prende tanto sul serio. Controlla di meno, non cerca di imporre dei modelli. E questo ti lascia una notevole libertà. E alla fine, visto che poi la circolazione non è così limitata, ti permette di dire la tua a un numero abbastanza alto di lettori. Credo che dovrebbe essere così per tutti i media. Cinema e grande editoria (quella da libreria intendo) mi sembrano molto legati a programmazioni su quello che dovrebbe starci dentro oppure no. Sono formule applicate a tavolino e non sempre funzionano. Il segreto della Narrativa popolare è la spontaneità – se incontro gusti del pubblico (una parte, perché accontentare tutti non si può) è perché istintivamente li condivido anche io.
Se la serie che ti ha dato il maggior successo dovesse iniziare adesso, che strade seguirebbe? Vorresti ancora farla vivere in edicola con Segretissimo? Preferiresti un altro media, come il fumetto, o trasporla come serie televisiva? O magari romanzi da libreria?
Credo che una serie come il Professionista non possa avere altra forma che quella che ha attualmente. Più di settanta episodi: difficile pensarla per la libreria, anche se io ho sempre considerato ogni storia come un romanzo completo, forse più lungo dei serial abituali. No, io credo che seguirebbe lo stesso percorso.
Riduzioni a fumetti o magari televisive sarebbero sempre possibili, mi piacerebbero ma sarebbero adattamenti. Si dovrebbe prendere il fulcro delle storie e concepirne delle altre, adatte per i singoli veicoli. In tal senso torno a citare Van Hamme. Largo Winch era una cosa diversa all’inizio. Erano sei romanzi scritti alla fine degli anni ’70. Quando vent’anni dopo è diventato un fumetto sono state mantenute certe linee guida del racconto, ma è stata apportata una variazione nei ritmi e nelle storie.
Qual è il rapporto dei tuoi romanzi con l’illustrazione? L’avventura classica salgariana doveva moltissimo alle copertine e illustrazioni. Adesso il tuo immaginario come si sposa con le immagini, al di là delle linee editoriali del cerchio rosso con la ragazza armata di pistola di Segretissimo?
Oltre a essere fotografo e appassionato di cinema e fumetti, ho una enorme collezione di libri e illustrazioni. Per raccontare devo vedere prima la mia storia. Come dico spesso, mi faccio il mio film. Un’immagine, una foto o persino un disegno posso suggerire moltissimo a livello narrativo.
Spy story, thriller, ma anche un po’ di paranormale e storie più “gialle” con una sua nuova serie che a me piace molto, Bas Salieri: ci sarà anche la fantascienza nel tuo futuro? Cosa vorresti scrivere?
Lo ammetto, la fantascienza è tra tutti i generi quello che mi attrae di meno. Come dicevamo ho cominciato come redattore a Urania e l’argomento lo conosco, ma ho una formazione più realistica, più avventurosa. In realtà la fantascienza l’ho già scritta. Era il 1998, il romanzo era I predatori di Gondwana e fu pubblicato su Urania. Era poi una rivisitazione in chiave fantascientifica (molto Warhammer) del Corsaro Nero. Un bel ricordo, ma mi sono sentito più a mio agio con il Fantasy, quello che mescolava certe suggestioni del wuxiapian orientale (genere cavalleresco asiatico di duelli e magia) e una visione meno magica, alla George R.R. Martin, se mi è permesso. Il romanzo è L’ultima imperatrice e uscì su uno speciale di Urania. È stato ripubblicato in digitale a puntate per Delos.
E adesso un bel po’ di domande messe tutte assieme, delle curiosità sui tuoi ritmi di lavoro: quanto scrivi al giorno? Come lavori ai tuoi progetti? Uno per volta o ce ne sono diversi in vari stadi di avanzamento? C’è una fase di progettazione, con un soggetto, scalette, studi, oppure la storia procede in maniera più diretta? In genere quante riscritture fai del tuo lavoro? Oppure pratichi la scrittura diretta, “buona la prima”, con un editing solo di forma?
Oggi la scrittura occupa la maggior parte del mio lavoro. Scrivo tutti i giorni, con continuità. Lavoro a un solo progetto per volta ma, ovviamente, progetto e programmo i lavori futuri. Diciamo che quando sono alla fase della stesura tutta la programmazione ha già avuto luogo. A volte traccio delle scalette molto dettagliate, altre ho un canovaccio ma so sempre dove vado a parare. In realtà la fase di progettazione è molto più lunga che quella di realizzazione.
Un Professionista mi prende circa cinque settimane per la prima stesura. Lavorando con largo anticipo finisce che poi lo rivedo almeno altre due volte con interventi a tratti anche significativi soprattutto sul linguaggio. Anche se cerco di realizzare una stesura completa già dal primo passaggio, una revisione attenta e… spietata è sempre necessaria. Diciamo che preferisco metterci le mani io, piuttosto che lo facciano altri.
Ultimissima domanda. Una lunga carriera e molto proficua, iniziata nel 1989 e con 90 opere al tuo attivo. Qual è il tuo strumento di scrittura preferito? Cosa usi per creare i tuoi libri? Sappiamo che Stephen King usa lo stesso sistema da decenni, e George R. R. Martin non si stacca mai dalla suo amata e vecchissima videoscrittura, oggi diremmo primitiva, cioè WordStar (rilasciato la prima volta nel 1978). Tu cosa usi? E poi, è importante per te lo strumento, analogico o informatico che sia, per creare i tuoi libri?
La mia mente è il mio strumento. No, davvero. In realtà io ragiono molto sulle trame: le penso e le ripenso per giorni, magari mentre cammino e addirittura faccio altre cose certi problemi rimangono lì a germinare. Poi, di colpo, ho l’impressione che la mente mi chiarisca tutto. ‘Certo che è così’ mi dico. Poi se vado a smontare tutto mi accorgo che ho fatto dei ragionamenti a una velocità molto superiore al normale. Una specie di computer interno. Da sempre è così, penso che sia un dono. O forse solo un’abitudine mentale. Certo è che se mi metto con il foglio davanti e la penna mi incarto, come si dice. Ovviamente ognuno ha il suo sistema, ma io sono abituato così.
Riguardo al supporto tecnico, ti confesso che non ha importanza. Io uso Microsoft Word come una macchina per scrivere, ma ho sempre scritto: prima a mano e poi con la Olivetti. Certo, i programmi di oggi ti permettono di evitare troppe riscritture e ti aiutano a correggerei refusi. Ma la scrittura, come dicevo nel mio manuale Regole di Sangue (Dbooks.it), sta altrove.