di Gabriele Frasca*
Proviamo tutt’insieme a cominciare dalla fine, da una delle ultime tavole che appaiono in questo fumetto. Prendere le mosse da come un’opera conclude, o si avvia piuttosto alla sua risoluzione, talvolta aiuta, se non altro a rilasciare come per caso una dritta iniziale, che poi fra le informazioni è la più necessaria: il fumetto che avete fra le mani, Maxmagnus, non appartiene alla schiera degli eroi di carta di lunga durata.
Ve ne sono, lo sappiamo, di quelli che, passando di mano in mano in una lunga sequela apostolica, sono persino destinati a sopravviverci. Altri ancora, in epoca di crossmedialità imperante e digitalizzazione dell’impossibile, nemmeno più riusciamo a contenerli nelle loro vignette, e ci tocca inseguirli sul grande schermo, quando non siamo convocati ad animarli su quelli interattivi.
Il nostro pingue sovrano, affiancato dal suo avido e nasuto amministratore, al contrario, non solo è rimasto sdegnosamente nei suoi confini di carta, ma al pari di un eroe dell’epos non si è mai districato dalla parabola conchiusa della sua storia, persino quando Max Bunker, che gli aveva dato la luce con Magnus sulla rivista Eureka dell’Editoriale Corno nel fin troppo fatidico 1968 (e proprio nel marzo degli scontri di Valle Giulia e dell’occupazione dell’università di Nanterre), decise questa volta in combutta con Leone Cimpellin di richiamarlo dal suo esilio fra il 1979 e il 1980.
Anche in quell’occasione, difatti, sebbene potesse disporre dell’ampio respiro di un formato pocket, il personaggio non sfuggì alla sua maledizione, quella cioè di perdere il trono, anche se per prima cosa gli toccò rinunciare addirittura all’albo che lo ospitava, per chiudere malinconicamente il suo inderogabile destino sulla stessa rivista che gli aveva fatto un decennio prima da nursery.
Né l’ingordo re Maxmagnus né il suo mal fidato e avido amministratore, ed è questa la seconda informazione che ci aiuta a comprendere la compiutezza inderogabile della loro storia, potrebbero essere mai messi nelle condizioni di superare i limiti dell’eterno ritorno che le loro avventure sono condannate a illustrare: che, cioè, i regimi si susseguono ma il potere, grottesco e osceno come appare allo sguardo del disincanto ideologico, resta lo stesso.
Non stupisce pertanto che nell’ultimo giro dell’identica parabola, questa volta compiuto con gli auspici della Max Bunker Press fra il 2006 e il 2008, alla ristampa degli albi a suo tempo disegnati da Cimpellin sia stata in fine aggiunta una serie di episodi assolutamente inediti che contribuiscono a riportare la storia esattamente lì dov’era cominciata, con tanto di restaurazione dell’ancien régime. Un finale all’altezza delle mutate condizioni storiche, dunque, e del crollo del comunismo reale, impensabile all’altezza della nascita dei nostri personaggi; non per questo meno amaro. Anzi.
Torniamo dunque, alla luce di queste prime acquisizioni, a dare un’occhiata alla tavola su cui mi piacerebbe provare a ragionare con voi, non prima però di ribadire una piccola ovvietà che al momento vi ho fatto solo intravedere: la struttura a 29 episodi che state in questo momento sfogliando è quella originale che apparve su Eureka con cadenza mensile fino al luglio del 1970, e che si deve alla multiforme inventività narrativa per l’appunto di Luciano Secchi, all’epoca direttore della rivista (e con lo pseudonimo Max Bunker autore di non pochi personaggi di successo nell’universo gloriosamente italiano del formato pocket), e alla versatile creatività di un mancato insegnante di disegno nonché grafico pubblicitario, Roberto Raviola in arte Magnus, fra i nostri più grandi interpreti del genere.
Per i due, all’epoca consorziati con tanto di & commerciale (come raramente capitava da noi), quel fumetto così esplicitamente corrosivo e satirico, come mai lo era stato nessuno della loro già ricca produzione, non è difficile immaginare che avesse assunto un senso a dir poco di svolta quando non addirittura di rilancio, se il nome del loro personaggio non fa altro che stringere a maglie ancora più strette il loro sodalizio, e se, come se non bastasse, nel crearlo e poi licenziarlo per il quinto numero della rivista non avevano esitato a mettervi la faccia. E non per dire: le fattezze del re deformano opportunamente quelle di Bunker, e Magnus, come avrebbe fatto successivamente col Bob Rock di Alan Ford, si divertì a fare del fraudolento fiduciario la sua stessa caricatura.
E se dunque quei due decisero d’intrappolarsi per sempre nella loro storia senza uscita, e ancor di più nella colonna verticale che fungeva da innovativa intestazione di ogni singolo episodio, è fuor di dubbio quanto percepissero di essere all’apice del loro rapporto professionale. Col senno di poi il discorso non fa una piega: quella collaborazione, difatti, nata nel 1964 con due fortunatissimi fumetti neri come Kriminal e Satanik (che molto misero alla prova il Codice di Garanzia Morale sottoscritto con cautelosa pruderie dagli editori di genere solo tre anni prima), e proseguita poi con lo spionistico Dennis Cobb e il fantascientifico Gesebel, avrebbe da lì a un anno, nel 1969, dato vita al loro più grande successo, Alan Ford appunto, per poi declinare inesorabilmente fino alla separazione della tarda estate del 1975, quando i due autori avrebbero preso ciascuno la propria strada concedendosi solo sporadiche rimpatriate.
Ma in quel momento preciso, alla nascita insomma di Maxmagnus, e con tutto il coraggio necessario per portare alle estreme conseguenze la nota sarcastica che già serpeggiava nei loro pocket contrassegnati dall’ambiguo cartiglio “per adulti”, quei due, è evidente, si saranno sentiti non solo in grado di trasformare tutto in oro, viste le centinaia di migliaia di lettori conquistati dai loro eroi poco convenzionali, ma di sicuro tanto in sintonia da essere inseparabili, se non addirittura consustanziati.
Ed è questa la corrente di vivace complicità che trascorre difatti contagiosa nelle tavole dell’opera. A proposito delle quali, neanche a dirlo, mi torna in mente che quell’unica e quasi conclusiva tavola alla quale volevo ispirarmi per introdurre il nostro fumetto, come nella migliore tradizione umoristica, una digressione dopo l’altra è ancora lì che aspetta di essere illustrata. Dovrò insomma decidermi a sottoporla alla vostra considerazione, consapevole di quanto a ogni giro di periodo rischi di disperdermi ancora alla ricerca di chissà quale ulteriore tassello del mosaico. Dio solo sa quanti ve ne sono.
Sia come sia, la tavola da cui vorrei invitarvi a partire proviene da uno degli episodi finali, il terzultimo, pubblicato nel maggio del 1970 come sempre senza titolo, ma ribattezzato La rivolta per il libro cartonato che sarebbe poi apparso raccogliendo tutte le singole uscite nel novembre di quello stesso anno per l’Editoriale Corno.
È una tavola fondamentale, e innanzitutto perché vi s’inquadra, e solo per la seconda volta con tutti i dettagli del caso, il castello nel quale vive il sovrano accido e vanesio col suo ridicolo e stizzoso amministratore. Svettava difatti sinistra, quella rocca, e appena un po’ sgangherata già nella prima vignetta che occupava quasi per intero la tavola d’esordio del marzo ’68, dove, neanche a dirlo, non si scorgeva essere umano, ma solo il colle brullo su cui poggiava la pesante struttura, sotto la quale si stendeva un paese altrettanto spettrale con le sue catapecchie dai tetti diruti. Nulla lì testimoniava la vita, se non una botte abbandonata (alla passione etilica di oppressori e oppressi) sotto l’insegna di un’osteria.
Fra il castello e il triste agglomerato di case, perfettamente in asse, si stagliava però l’unico elemento che s’innalzava verticale a congiungere le due sole classi possibili in questo mondo imperfetto, quella degli sfruttatori e quella degli sfruttati: una forca formidabilmente slanciata verso l’alto, con tre corvi nei pressi del capestro in paziente attesa. Chi entra nel regno di Maxmagnus, dove c’è sempre tanto da ridere a condividerne il cinismo, lo fa attraverso il minaccioso patibolo piantato al centro di questo feudo miserabile e sanguinario. Per un Paese che solo un quarto di secolo prima aveva identificato, per dirla con l’incipit di Eros e Priapo di Carlo Emilio Gadda, l’“attività politica” con “la distruzione e la cancellazione della vita”, o meglio ancora con “la obliterazione totale dei segni della vita”, quell’immagine iniziale difficilmente sarà suonata criptica.
E meno male che siamo nel Medioevo! Altrimenti, a tener dietro alle date dei singoli episodi, dovremmo ricordare, col ’68 e i due anni a seguire, anche la Primavera di Praga e la sua repressione, gli assassini quasi in contemporanea di Martin Luther King e di Bob Kennedy, l’elezione di Richard Nixon e la sommossa razziale di Chicago, gli studenti trucidati in Messico e Jan Palach, il massacro di Song My e la strage di piazza Fontana, il volo dell’Apollo 11 e quello di Giuseppe Pinelli, il Moratorium Day e la bomba H dei cinesi, e via di seguito.
Non che queste pagine, porose di per loro, non si siano fatte attraversare da tutto questo, con tanto di uova marce lanciate sui notabili invitati dal re (neanche fossimo nel dicembre del ’68 alla Scala, o dalle parti della Rinascente), o alluvione a bella posta provocata dal nostro vorace duo per trarne il più losco dei profitti, e persino atletica nuotata dell’imbolsito sovrano nel fossato del castello, con inattesa apparizione dell’effige (all’epoca stampigliata in ogni dove) del Grande Timoniere, finito chissà come in quel rigagnolo dallo Yang Tse.
Certo stupisce che la prima volta che i sudditi insorgano, lo facciano proprio nell’episodio apparso nel maggio del 1968, e che una Repubblica Democratica Popolare si profili comunque ineluttabilmente all’orizzonte già a partire dagli episodi 11 e 12 (gennaio-febbraio1969), quando il nostro amministratore si mostrerà fra l’altro non solo a conoscenza delle parole d’ordine à la page, ma disposto di già a seguire opportunisticamente l’onda della storia.
Qualcosa nell’epopea di Maxmagnus rimane insomma sempre in sospeso fra il mondo fantastico che dovrebbe indurre al riso, per quanto caustico e amareggiato, e l’altro in cui non c’è proprio nulla di che divertirsi. Lo sdegno che suscitò il decimo episodio, col suo conclusivo albero di Natale addobbato d’impiccati, replicava allora solo nella forma del consueto moralismo gli attacchi che i benpensanti avevano portato alle tematiche ritenute scabrose di Kriminal e Satanik (con tanto di processo mediatico organizzato nel 1966 sulle pagine della Tribuna iIllustrata); la realtà superava già di gran lunga la fantasia, e chi in quel dicembre del ’68 accusò i due autori di un sarcasmo al limite dell’empietà, probabilmente non aveva occhi per vedere quello che d’altronde non smetteva di avvenire in buona parte del mondo, e contro cui persino Paolo VI, nella sua più famosa quanto inascoltata enciclica (Populorum progressio del 29 marzo del 1967), si era sentito in dovere di levare la voce.
L’ambientazione “fuor di sesto” (“dove e quando molto bene non si sa”, recita il primo cartiglio, per rassicurarci poi che si tratta comunque di “un’epoca remota”) se dunque raffredda a bella posta la materia incandescente dell’attualità, lo fa solo fino a un certo punto, e per un motivo molto semplice. Non è il vero Medioevo, quello di Maxmagnus; e questo è ovvio, ma non è nemmeno il Medioevo immaginario allora in circolazione. Non ha nulla a che vedere, per esempio, con quello descritto nel 1966 da Mario Monicelli nell’Armata Brancaleone, malgrado l’indigenza permanente che affligge buona parte dei personaggi di entrambe le opere. Ma è altrettanto lontano dagli straordinari fumetti da bassorilievo romanico di Enzo Lunari, che nello stesso anno del film di Monicelli, e soprattutto di Uccellacci e uccellini di Pasolini, dava vita alle maliziose Cronache di Fra’ Salmastro da Venegono.
Qualcosa in più condivide la creazione di Magnus & Bunker con un fumetto nato nel 1964, e che Linus aveva già fatto conoscere agli italiani, The Wizard of Id di Johnny Hart e Brant Parker, se non altro per il fatto che anche in quel caso la falsa ambientazione vela appena questioni di maggiore attualità. Ma la striscia americana (che gli eredi dei due autori mantengono tuttora in attività), con tanto di re in stile carta da gioco avaro e capriccioso, cavaliere flemmatico e codardo e mago pasticcione, senza contare l’eterno prigioniero tutto barba che langue nelle segrete, sfrutta a fini parodistici un immaginario legato da sempre a ogni Medioevo fantastico, tanto nei libri di caballerías del XVI secolo quanto persino nel romanzo storico, quello cioè del ciclo bretone.
Non così accade nel fumetto italiano, che situa la sua “epoca remota” fra la realtà miserabile di un piccolo feudo (dove a farvi attenzione non v’è manto o drappeggio che non sia rappezzato) e il sogno di un mondo di fiabe prossimo al collasso, se il castello dal quale siamo partiti, e al quale ci tocca tornare come per una maledizione, rassomiglia fin troppo a quello (fra l’altro a suo modo fasullo) di Neuschwanstein, reso replicabile e seriale da Walt Disney. Una lunga spira di torpore immaginario, una delle tante con cui la borghesia ha avvolto i suoi commerci, attraversa il secolo pieno che separa il Lohengrin di Wagner dalla Bella addormentata nel bosco di Geronimi, Larson, Reitherman e Clark: ed è esattamente lì che Magnus & Bunker si sono divertiti a piazzare il loro faro antinebbia.
Già: il castello. Qualcosa della pagina grazie alla quale avrei voluto introdurvi a colpo sicuro nel mondo di Maxmagnus, e che invece sembrerebbe svolazzare via a ogni soffio di vento argomentativo, in verità sono riuscita a dirla, persino mio malgrado. Che per esempio questa vignetta, con tanto di castello di sbieco su cui svetta per la prima volta lo stendardo con l’insegna del nostro re (sembrerebbe un giglio rattorto ma è in realtà una mano ungulata e rapace), occupa per intero la prima delle due tavole di cui ciascun episodio si compone, con l’unica eccezione del quattordicesimo (Il giorno dei bagordi), diffuso per ben otto tavole che apparvero all’epoca sorprendentemente a colori.
La circostanza è degna di nota, perché questo strutturarsi su due tavole, con un numero variabile di vignette (mai più di 11), mi pare sia un’innovazione tutta italiana, che se pure ricorda lontanamente la gloriosa tavola domenicale dei primi fumetti, offre uno sviluppo narrativo in grado di coniugare la fulminante icasticità delle storie contenute in un numero limitato di vignette con una ricezione per forza di cose ritmata dalla variabilità della loro grandezza.
Solitamente la prima tavola, con l’intestazione che separa l’effige dei due malfattori sul bordo sinistro della pagina, conta un numero relativamente ridotto di vignette di grandi dimensioni: nella maggior parte dei casi sono tre, in qualche altra occasione due, e molto raramente, ma solo se è in opera una subitanea mutazione fisica di uno dei personaggi, quattro. La seconda tavola, più tradizionale nella suddivisione delle sequenze narrative, è occupata nella maggior parte dei casi da otto vignette regolari, ma può presentarne anche di meno, fino al minimo dei quattro riquadri allungati con cui si risolve l’epilogo del secondo episodio.
Maxmagnus prevede dunque esplicitamente una lettura sostanzialmente a due velocità, e uno sguardo più allenato alla ricercatezza del disegno (che deriverà forse dall’abitudine al formato pocket, con le sue due ariose vignette per pagina), in grado insomma di accelerare e rallentare ad arte il ritmo della storia, e consentire ad alcuni movimenti furtivi e apparentemente fuori registro diegetico (come quelli con cui l’amministratore, mentre sta accadendo tutt’altro, prova a sottrarre di destrezza qualcosa al suo re) di non passare inosservati.
Che si tratti in verità di un’intelligente rielaborazione nostrana delle gloriose strisce che i quotidiani americani presero a ospitare sin dal lontano 1907, e della loro successiva lievitazione nei supplementi domenicali (da non confondere con le tavole propriamente dette), e persino del loro approdo a tutta pagina nelle prime riviste d’oltreoceano di settore (fra le quali non può che spiccare Mad), lo si capisce innanzitutto dalla complessiva tenuta stagna dei singoli episodi; anche se già l’ottavo si ricollega al sesto, dando vita a un tema, quello del filtro per ringiovanire, che finirà poi col prendere il sopravvento.
Un’ulteriore riprova di questa filiazione la forniscono le tre modalità narrative con cui Bunker asseconda la coazione alla serialità di ogni singolo episodio, che nella forma striscia, e in quei cartoni animati che presto vi si adeguarono (come in modo esemplare Wile E. Coyote), quanto più ritorna sullo stesso tema (o sugli stessi temi), più genera l’effetto comico del “siamo alle solite”.
Sostanzialmente le varianti di questo percorso obbligato, in cui i personaggi delle strisce sembrano un po’ dei criceti che corrono senza sosta nella ruota della loro gabbia, appaiono nel caso di Maxmagnus tre, e tali resteranno fino al ventunesimo episodio, quando la serie, mescolando il tema del filtro a quello del torneo per ottenere la mano della principessa e all’altro ancora del crescente malcontento popolare, si metterà sul binario narrativo che la condurrà al suo epilogo.
Nel suo sviluppo seriale, insomma, ogni singolo episodio si risolve o in un’esilarante punizione inflitta all’amministratore per aver tentato di derubare il suo re, o nei festeggiamenti per lo più etilici del primo nelle occasioni in cui riesce al contrario a truffare il secondo, o in fine nell’esito per lo più mortale (solitamente per i poveri sudditi cenciosi ma anche per i pingui notabili comunque da spolpare) di un consulto sornione fra i due personaggi principali.
Da questo punto di vista Maxmagnus è allora per davvero un’iperstriscia, e tale sarebbe rimasta se non fosse incappata in quella tensione verso l’epos che ho cercato di mettere subito in risalto, e che si rispecchia perfettamente nella tavola su cui ancora non sono riuscito a soffermarmi.
A tutta pagina come appare, questa non va però confusa con una di quelle panoramiche nelle quali eccelleva Jacovitti, anche se per davvero Magnus nella sua svolta grottesca parrebbe aver contratto qualche debito con l’esplosivo fumettista molisano, al punto da inserirsi di diritto in quella linea della deformazione del corpo umano a suo modo surrealista, e per certi versi addirittura psicotropa, che per l’appunto da Jacovitti giunge fino al genio di Andrea Pazienza.
Ma la vignetta che ritengo esemplare, estesa com’è per tutta la prima tavola del ventisettesimo episodio, e su cui non potrò perdere l’ennesima occasione di concentrare la vostra attenzione, è però tutt’altra cosa: non una panoramica, appunto, ma una splash page, probabilmente la prima della storia del fumetto italiano. La circostanza non è da ritenere di quelle secondarie, perché ci costringe inaspettatamente a rimbalzare dal disegnatore allo sceneggiatore, e a ritornare su Max Bunker, o meglio sulla sua identità quasi segreta, quella di Luciano Secchi nella sua veste di direttore di Eureka, rivista che andrà una volta per tutte riconosciuta come l’intermediaria che ha consentito la prima diffusione in Italia, dopo una comparsata su Linus, di uno dei più grandi autori di fumetti di sempre, Will Eisner.
Le tavole di The Spirit, disegnate dal fumettista americano fra il 1940 e il 1952, giunte nel giro di pochi episodi alla fondamentale innovazione della splash page (una sorta di colpo di scena iniziale, con una sola vignetta a tutta pagina in grado di compendiare quasi l’interezza della storia che si sarebbe poi dipanata), cominciarono difatti proprio nel 1969 a essere pubblicate da Eureka.
Ritrovare questo procedimento nell’episodio del maggio del 1970 è dunque da un lato un segnale di quanto gli autori italiani che partecipavano al grande progetto del mensile fossero al contempo esposti agli stimoli che giungevano dai fumetti stranieri ospitati, dall’altro quasi un sintomo di come al contrario la forma striscia andasse decisamente stretta a Magnus, se in quell’occasione si appropriava di un espediente nato in verità per un ritmo narrativo più esteso, dal momento che le storie di The Spirit si sviluppavano per ben sette pagine.
La tavola, alla cui mensa finalmente ci stiamo accomodando ma solo per salutarci, è un gran pezzo di bravura, che non solo testimonia della scaltrita perizia cui nel giro di pochi anni era giunto Magnus, ma fa già persino intravedere quella che sarebbe stata la straordinaria evoluzione della sua carriera. Pochi altri disegnatori sono stati così radicali nel mettersi in discussione, e quasi nessuno di quelli che l’hanno fatto è riuscito a rimanere tanto riconoscibile.
La splash page, non c’è che dire, se ha tutti i crismi del capolavoro, non può mancare di ambiguità: ammassati contro il castello inquadrato di scorcio, i popolani inferociti si slanciano, brandendo randelli o i loro strumenti di lavoro (con in primo piano logicamente una lunga falce e un grosso martello), contro le guardie armate di tutto punto che vanamente tentano di opporsi. Dai bastioni piovono frecce e massi per disperdere gli assalitori che hanno appoggiato contro una delle torri un’alta scala, e qualcuno è già stramazzato lungo per terra, mettendo in bella evidenza le più caravaggesche piante dei piedi.
L’esito appare, e sarà, scontato: quella che sta per avvenire nel regno di Maxmagnus, d’altra parte, sarà l’unica rivoluzione a compiersi delle tante qui da noi invocate in quegli anni. Ma due particolari su tutti s’impongono al di là della straordinaria forza descrittiva dell’intera raffigurazione: alla scena, così corale e concitata come appare, malgrado il gran daffare che vi è ripreso, Bunker, fatta eccezione per il cartiglio iniziale che occorre un po’ da riassunto dei precedenti episodi, si è astenuto dall’aggiungere la benché minima scritta, dentro o fuori che fosse dai balloon. Non un rumore, non un grido, non un’esclamazione.
Certo: Maxmagnus è uno dei fumetti più felpati della nostra storia, e ricorre difatti con estrema parsimonia alle onomatopee che sembrerebbero iscritte nel DNA stesso del genere; e quando lo fa, produce il più delle volte suoni del tutto innovativi, cui forse non sarà estraneo l’influsso di un altro fumettista americano ospitato in quegli anni da Eureka, il “Mad’s Maddest Artist” Don Martin, il più impressionante intonarumori della storia della forma.
Ma perché, potremmo chiederci, un simile evento, con assalitori e difensori pressati gli uni contro gli altri, non può che essere descritto privo di sonoro, quando nelle vignette della tavola successiva, che non inquadrano più il campo di battaglia, i suoi rumori remoti invece vi giungono? Questo silenzio, non c’è che dire, assorda, ma non copre l’altra e ancora più inquietante particolarità della tavola.
Dei popolani, fatta eccezione per il primo in basso a destra che staglia di tre quarti un naso fin troppo riconoscibile, girati di spalle come sono per dare l’assalto al castello, non si vede mai il volto; così come dei soldati, letteralmente incassati nelle loro armature, non si distinguono le fattezze, con l’unica eccezione di quello un po’ più pingue degli altri sul bastione in alto a destra che suona il corno. Suona, sì, ma lo strumento non emette una sola nota. E perché poi dovrebbe farlo, se sta lì solo come emblema dell’Editoriale che consente a tutti loro di vivere?
Certo: basta confrontare questi unici due personaggi appena discernibili con la solita intestazione che si svolge sulla sinistra, e seguire diligentemente le due linee immaginarie che si possono tracciare dai soliti due personaggi che la incorniciano, per capire chi siano in verità costoro; ma pure una volta collocati com’è giusto che sia al loro posto di combattimento Magnus & Bunker, la questione su questa perturbante assenza tanto di suoni quanto d’identità resta, e porta con sé un’altra domanda.
Chi ha cominciato fra i due: lo sceneggiatore, rifiutandosi di corredare la battaglia del suo sonoro, o il disegnatore che non ha voluto preservare l’identità di nessuno dei contendenti? A chi si deve insomma l’idea di questa tavola enigmatica, che parrebbe per l’appunto quella di un rebus, o di un sogno? Dovendo azzardare una risposta, propenderei salomonicamente per la & commerciale, perché quando si lavora coi fumetti, per riprendere una bella dichiarazione rilasciata dallo stesso Magnus l’11 marzo del 1995 durante il suo incontro con il pubblico a Treviso Comics, occorre imparare a scrivere “con squadra e compasso” e disegnare “col vocabolario”.
D’accordo; ma anche una volta attribuita la responsabilità di una tavola così pregnante ed emblematica alla ditta, che anche in questo caso ha voluto mettervi la faccia, non per questo risolviamo la questione di tanto silenzio e altrettanto anonimato nello snodo più significativo della storia, quando insomma Maxmagnus ha accettato di barattare la sua serialità virtualmente infinita (qual è quella per l’appunto della forma striscia) con la ciclicità dell’epica, solita interrompere nel peggiore dei modi le sue storie, pur di poterle ripetere ogni volta di nuovo, e rilasciare se mai quell’unica perla di saggezza intorno alla quale sviluppò la sua valva narrativa.
A meno di non trarre, a nostra volta di nuca come appariamo nell’atto d’inquadrare persino noi stessi nel momento in cui fronteggiamo la pagina preferita del nostro fumetto, questa conclusiva considerazione. Che, cioè, non c’è potere che non sia grottesco e osceno, e proprio perché rimanda opportunamente travisata la nostra stessa immagine. Il che poi vorrebbe dire che non esiste potere che non ci rispecchi, e non ci deformi.
E, al contempo, che non vi è forza che lo imponga o difenda, né tensione alternativa che lo abbatta e momentaneamente disperda, che non appaia al contrario anonima, diffusa e tanto indistinguibile da quello che dichiara di avversare da poter mutare continuamente schieramento, senza per questo perdere come suol dirsi la faccia. E per un motivo molto semplice: quella faccia, quando ci si consorzia nel nome di qualcuno o qualcos’altro, non c’è; ma riappare puntualmente per quella che è, la nostra, e quella di nessun altri, quando crediamo di fissare il nostro mandante, o il nostro nemico. Tutto qui? E vi pare poco?
Com’era solito ripetere Marshall McLuhan già nel remoto 1951, commentando una delle sue tante felici intuizioni, quella cioè che i fumetti avevano poco a che fare con l’onesta e tranquilla società letteraria, e tanto invece coi suoi più esplosivi e irriducibili capolavori: «Vi piace Capp?». E si riferiva ovviamente ad Al Capp, il caustico creatore di Li’l Abner, che non mi stupirei di trovare fra le letture preferite di Bunker. «Allora vi piacerà il Finnegans Wake.»
A maggior ragione, dopo aver guardato e riguardato insieme con voi questa tavola, imbandita per l’occasione delle sue silenziose e fin troppo solerti serie “omoerotiche” addossate le une alle altre, potrei azzardarmi a concludere così. Vi piace Maxmagnus? E allora lasciate che vi dia una dritta: con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana ve la spassereste.
Questo articolo è l’introduzione del volume Maxmagnus, pubblicato da Mondadori Oscar Ink.
Gabriele Frasca (Napoli, 1957) è scrittore, saggista, traduttore e regista. Tra i suoi libri citiamo i romanzi Santa Mira (Cronopio, 2002) e Dai cancelli di acciaio (Luca Sossella Editore, 2011), i libri di poesia Lime (Einaudi, 1995) e Rive (Einaudi, 2001) e i saggi L’oscuro scrutare di Philip K. Dick (Moltemi, 2017) e Joyicity. Joyce con McLuhan e Lacan (Edizioni d’If, 2012).
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