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“Le avventure di Capitan America”, blockbuster anni Novanta

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Quando nel 1991 Capitan America spense cinquanta candeline, probabilmente capì di essere ancora di più un uomo fuori dal tempo. In quell’anno, nascevano personaggi come Deadpool e Carnage, simboli di un gusto nuovo che nei mesi a seguire non avrebbe fatto altro che insistere sulla nonchalance morale dei supereroi. Nei cinema Boyz n the Hood mostrava la vita della comunità nera tra violenza urbana e razzismo nella bassa Los Angeles. E con la dissoluzione dell’Unione Sovietica si concludeva la Guerra Fredda, quella contrapposizione tra Russia e Stati Uniti che aveva accompagnato Capitan America per quasi tutta la sua vita.

Gli eventi politici avevano segnato in passato le sue storie (un impostore aveva preso il suo posto durante gli anni del maccartismo, il Watergate lo aveva fatto rinunciare alla sua identità segreta), ma i tanti smottamenti socioculturali degli anni Novanta fecero capire che non era più un paese per Cap.

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Lui che, con la sua Storia, parlava al cuore nudo dell’America, ne era il simbolo patriottico, di quel patriottismo che lo rendeva personaggio speculare a Superman. Se Kal-El era l’America delle origini, quella vetusta degli immigrati, il biondo Steve Rogers era l’onda giovane, un prodotto genuinamente americano tanto quanto la Coca-Cola. Ed entrambi sono eroi difficili da maneggiare perché trovano il nucleo dei propri conflitti non (solo) in qualche grande battaglia contro Lex Luthor o il Teschio Rosso ma all’interno di loro stessi. Come racconti un personaggio talmente puro e impavido da essere l’unico a poter sollevare il martello di Thor? O lo si cala nella cornice geopolitica, lo si fa stare sul pezzo, o si torna al passato e lo si omaggia con statue narrative un po’ fredde.

Arrivati al cinquantesimo anniversario della sua nascita, la Marvel volle celebrare il personaggio in grande stile, prima mettendo in produzione un film che, anche per colpa della fattura da b-movie, si fa ricordare per essere so bad so good, e poi con una miniserie che raccontava le origini del personaggio in una veste (anche cartotecnica) nuova, prestigiosa e magniloquente. Scritta da Fabian Nicieza e disegnata da Kevin Maguire, Le avventure di Capitan America: Sentinella della libertà aveva l’aspetto di una statua che celebrava l’icona, ma con gli intenti e le ambizioni del grande progetto generalista che, gettando una luce nuova su avvenimenti vecchi, gli avrebbe ridato vita.

Il team creativo era composto da due nomi caldi nel panorama fumettistico. Nell’anno in cui scrisse Sentinella della libertà Fabian Nicieza stava facendo da balia al disegnatore che avrebbe segnato il fumetto americano degli anni Novanta, Rob Liefeld. La loro gestione di New Mutants e della successiva X-Force contribuì a portare gli X-Men all’apice della popolarità. In quelle serie lasciava l’estro di Liefeld fare a pugni con il bon ton dei canoni fumettistici, ma le sue storie ebbero sempre un gusto meat and potatoes, consistente e concreto nonostante le grandi esagerazioni di quel decennio.

Kevin Maguire, invece, arrivava dal successo inaspettato di Justice League International, il cui inedito impianto da sitcom supereroistica (a opera di Keith Giffen e J. M. DeMatteis) forniva una vetrina di lusso per il talento di Maguire. Oggi questi due nomi dicono poco, perché Nicieza è finito a sceneggiare titoli DC di seconda fascia, mentre la lentezza di Maguire lo ha relegato a copertine e commission.

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Sentinella della libertà ha molti punti di contatto con Capitan America: Bianco, quarto capitolo della tetralogia dei colori di Jeph Loeb e Tim Sale, in cui il protagonista si guarda indietro ricordando episodi di vita vissuta a fianco del compagno Bucky. I due fumetti hanno obiettivi simili e cercano l’effetto percorrendo le stesse strade: il rimando al cinema e ai cinegiornali in apertura, la resa quanto più orrorifica possibile del Teschio Rosso, l’impianto retrò. Solo che, mentre Loeb usa un tono impressionistico e intimista, Nicieza scrive una specie di Capitan America: Il film, trattando il fumetto come la classica pellicola supereroica in cui si raccontano le origini del personaggio (non è un caso che, tra i tanti spunti fumettistici utilizzati da Captain America – Il primo Vendicatore, ci fosse anche Sentinella della libertà).

Un cripto-Capitan America: Anno uno che però appariva molto distante dal modello milleriano, non essendoci una rilavorazione del mito. I due autori avevano solo preso le origini e le avevano gonfiate per farci un film di novanta minuti, o un fumetto di duecento pagine in questo caso.

Nicieza non mise mai in discussione la figura di Capitan America, non gli passò nemmeno per la testa di questionare l’eroe a stelle e strisce perché non vede in Rogers una figura da attaccare, demolire o portare in un contesto più realistico del necessario. Lo sceneggiatore lo liberò soltanto di quella rigidità che lo aveva reso un simbolo della nazione ma gli era costata il favore del pubblico. Capitan America era più umano e piacione nelle sue esternazioni, ma per il resto Nicieza si limitò a raffinare, limare e lucidare una storia che, all’epoca, era già stata raccontata una decina di volte, solo che qui era presentata con gli ingredienti da blockbuster cinematografico: un interesse amoroso, ovvero la spia Cynthia Glass, prima donna amata da Steve; Bucky Barnes nel ruolo di comic relief, la spalla comica d’ordinanza che serviva ad alleggerire la scena; il cast di comprimari allargato.

Pur con tutte le buone premesse del caso, Sentinella della libertà è un prodotto finito nel dimenticatoio perché non abbastanza memorabile. Da una parte per la poca incisività dell’approccio, dall’altra per la qualità intrinseca. Il fumetto è invecchiato terribilmente in fretta per tutti quegli elementi che hanno datato anche i blockbuster anni Novanta: l’umorismo forzato, i dialoghi grezzi, la pochezza del confronto finale, le scene che giravano a vuoto e la messa in scena dubbia (specie nella prima metà del volume i momenti riempitivi sono molti e sembra davvero che ripieghino sulle parole invece che sull’azione, per paura di sforare il budget).

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Inoltre, il lavoro scenografico lascia a desiderare e non si ha mai davvero l’impressione di essere nel momento storico giusto, ma più di stare assistendo a una ricostruzione fatta con pochi mezzi (la colorazione è l’unica che si sforza di trasmettere una resa atmosferica degli anni Quaranta, con una palette giallastra).

In questo senso si fa fatica a comprendere la scelta di Kevin Maguire, un disegnatore che trasmette entusiasmo e divertimento in una storia che avrebbe avuto bisogno di un tono più compassato. Come aveva dimostrato in Justice League International l’autore dà il suo meglio nelle espressioni facciali, riuscendo a comunicare le emozioni con una precisione e una varietà che ha pochi pari. Lo schifo, la sorpresa, la rabbia non sono mai mostrate con una strizzata d’occhio, una bocca spalancata o un occhio iniettato di sangue, ma attraverso sottili manipolazioni del volto. A Maguire non serve un urlo per comunicare l’ira, basta un labbro teso.

Solo che qui tutta la sua esuberanza grafica è al servizio di una storia che ne fa un uso poco accorto, concedendogli primi piani anche quando non ce ne sarebbe bisogno o lasciandolo libero in siparietti comici (penso agli intermezzi con Bucky) sbrodolanti. Spesso poi, Nicieza lo confina in tavole asfittiche (ci sono pagine con sedici vignette) che non gli permettono di giocare con la figura umana. È nelle grandi immagini del Capitan America in azione o sotto la pioggia che la linea decisa di Maguire si trova a proprio agio. Peccato che le occasioni per farlo siano poche.

Le avventure di Capitan America
di Fabian Nicieza e Kevin Maguire

Traduzione di Pier Paolo Ronchetti
Panini Comics, marzo 2018
Cartonato, 200 pp a colori
€ 21,00

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