Quand’è che Alan Moore è diventato Alan Moore? C’è un momento che possiamo identificare come determinante per la nascita della sua poetica, un punto sulla mappa che possiamo indicare con una buona dose di precisione per segnalare che lì il Bardo di Northampton ha fatto fagotto di tutte le sue aspirazioni e ha creato qualcosa che fosse inequivocabilmente suo?
A queste domande risponde con spavalderia il volume edito da Panini Comics Capitan Bretagna, che raccoglie le storie del personaggio eponimo scritte da Moore e disegnate dall’altro unico Alan bravo, Alan Davis, per Marvel UK.
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Le storie dei due Alan uscirono tra il 1981 e il 1984 su tre riviste edite dalla divisione inglese della Marvel, che pubblicava ristampe di materiale già edito negli Stati Uniti ma anche storie inedite commissionate in loco agli artisti britannici.
Fino ad allora, il curriculum di Moore consisteva in opere giovanili (Embryo, Maxwell the Magic Cat) e storie brevi, fossero bagatelle sci-fi per Marvel UK, per cui stava scrivendo i fumetti del Doctor Who e di Star Wars, o le storie per 2000AD e Warrior. Su queste riviste lo sceneggiatore sviluppò D.R. & Quinch (sempre in coppia con Davis), Skizz, V for Vendetta, Miracleman e Abelard Snazz.
Capitan Bretagna appartiene a un periodo in cui gran parte di queste opere non avevano ancora visto la luce, o l’avevano vista in una forma non ancora completa, ed è uno snodo cruciale per Moore, all’alba di un fumetto importante come Miracleman (che qui fa un breve cameo).
Capitan Bretagna apparve per la prima volta su Captain Britain Weekly del 1976, una testata realizzata per il solo Regno Unito dalla divisione Marvel UK. Creato da Christ Claremont e Herb Trimpe (ma il design del personaggio resta senza un padre, e si suppone che John Romita avesse avuto voce in capitolo), Capitan Bretagna avrebbe conosciuto sorti alterne fino al 1981 quando fu rilanciato, con un nuovo costume, nell’antologica Marvel Superheroes, sceneggiata da Dave Thorpe e disegnata da Alan Davis.
Le storie di Thorpe erano troppo politiche e i conflitti con la dirigenza portarono l’autore a lasciare il posto a Moore, che si ritrova con una storia da finire e un disegnatore vorace che aveva appena ridisegnato il costume. Quello progettato dagli americani, infatti, aveva un grosso leone sul petto e in Inghilterra quello stemma era usato per indicare la freschezza delle uova. Ricamato sulla tuta di un supereroe faceva un po’ ridere agli inglesi. Davis gli disegnò invece addosso la Union Jack, si fece ispirare dalle guardie di Buckingham Palace e gli mise leggings bianchi, stivaloni e una maschera che sembrava più un elmetto militare.
Brian Braddock è il rampollo di una famiglia caduta in disgrazia che si trova orfano in giovane età, insieme al fratello maggiore Jamie e alla gemella Elizabeth. Diligente e studioso, inizia a fare ricerca sul nucleare all’istituto Darkmoor, dove resta coinvolto in un incidente mortale. Merlino e la figlia Roma, guardiani dell’Omniverso, gli offrono l’occasione di tornare in vita e combattere il male con l’identità di Capitan Bretagna.
Questo è l’incipit arturiano su cui Claremont aveva costruito il personaggio. Una storia di origini furba, che ammiccava alla tradizione mitologica del paese ma che si guardava bene dallo spingere oltre i riferimenti. Se Capitan America viveva nel paese più patriottico del mondo e poteva riportare nelle sue storie questa foga, altrettanto non poteva fare l’eroe di un paese campanilista spaccato in quattro, che poteva quindi avere come unico momento aggregante una leggenda del passato.
Moore seguì le consuetudini, includendo cliché e passaggi obbligati delle narrazioni supereroiche, e lo fece sentendosi a disagio con i canoni (nell’introduzione scrive di essersi trovato «nel mezzo di una trama che non aveva iniziato né del tutto compreso»). C’era tanta fuffa, non tutto girava a dovere, gli scambi tra i personaggi mancavano di mordente e la scansione dei momenti a volte si incartava, tanto che Davis era costretto a salvare la sceneggiatura con una messa in scena che si districava tra moltissimi personaggi, spesso ammucchiati nella stessa vignetta.
In Campo di battaglia vediamo Davis che, in una sola immagine grande come un inserto, deve: mostrare il gesto telecinetico di scaraventare una pila di fumetti contro il nemico, vedere questo nemico sommerso dai giornali, far capire che Capitan Bretagna sta valutando la situazione e nel frattempo ascoltando un messaggio telepatico. Magari il risultato non è finissimo, ma significa che a monte c’è uno scrittore che aveva compilato una pagina di descrizione da far stare in un unico riquadro.
Poi, a metà del volume, scatta la molla, e Moore fa una cosa che non gli avremmo visto fare mai più: inizia a crederci. Con Azione esecutiva parte il troncone di storie più interessanti, quello in cui Moore prende confidenza con la materia e introduce l’elemento del meraviglioso, i conflitti si fanno personali e i dialoghi acquisiscono spessore. Appare per la prima volta l’Unità Esecutiva (una banda di mercenari alieni che Moore aveva creato per una storia a fumetti del Doctor Who) e ritorna in scena Fury, un cattivo dal design riuscitissimo per la carica inquietante e il senso di ineluttabilità che trasmetteva la sua faccia senza volto.
Alan Davis percorre la stessa curva di apprendimento, e col passare delle pagine lo si vede prendere confidenza con il linguaggio del fumetto. Il volume fotografa i dolori della crescita artistica mentre questi accadono, e sfogliare le tavole è come passeggiare nell’evoluzione del segno di Davis, che da incerto e granuloso si fa liscio e suadente.
E anche in lui, nel momento in cui arriva Azione esecutiva, qualcosa si accende. Da sempre influenzato da Frank Hampson e Syd Jordan, Davis coglie l’occasione per realizzare una propria versione di Dan Dare e Jeff Hawke piena di esseri stramboidi e design bizzarri.
Nel design dell’Unità Esecutiva e nelle grandi tavole del processo a Saturnyne si legge tutto il suo entusiasmo giovanile. Capitan Bretagna ha la plasticità di un personaggio di Gil Kane, comunica la rigidità del Batman di Jim Aparo. È uomo dalla grande dignità d’animo e con un incrollabile senso del giusto, ma che perde facilmente le staffe. Nel contrasto Moore e Davis trovano la chiave del personaggio: dove Brian Braddock è serio e quadrato, i membri dell’Unità Esecutiva sono battutari disegnati con tratto cartoonesco.
Se Miracleman è il fiore con cui sboccia Moore, perché è lì che l’autore ripensa al concetto di supereroe, Capitan Bretagna è il passaggio che gli serve a familiarizzare con il genere, rappresentando uno degli unici istanti in cui Moore sembra credere nella figura del supereroe (e ci crede talmente tanto che introduce una manciata di Capitan Bretagna alternativi e si inoltra in una storia di multiversi che pare uscita da Secret Wars… e incidentalmente è qui che compare per la prima volta la nozione di Universo 616).
Questo non significa che non abbia già delle timide istanze distruttive, spruzzi di postmodernismo e sfondamento della quarta parete (il proprietario di una fumetteria che mette in salvo i numeri degli X-Men, Capitan Bretagna che squarcia la pagina). Fa quello che avrebbe fatto poco dopo su Swamp Thing: elimina brutalmente personaggi che non gli servono, ne accantona altri di cui ha capito le finalità e uccide il protagonista. Affonda le radici nel mito arturiano, nella letteratura folkloristica, ma stravolge lo schema cercando suggestioni pulp.
Si trovano un paio di idee del Moore maturo (la distopia thatcheriana in cui cadono i Nostri verso la fine della storia) e qualche sua idiosincrasia del periodo giovanile. Penso al motivo degli scacchi, al determinismo del gioco, che già era comparso in una storia breve di Star Wars e che qui è sviluppata con Merlino e la figlia Roma impegnati a giocare con i personaggi, letteralmente pezzi su una scacchiera, come Moore gioca con noi e le nostre aspettative.
Rileggendo queste storie si rimane sconcertati dal salto mentale che farà un autore in grado di produrre, un anno e spicci più tardi, La lezione di anatomia o Per l’uomo che aveva tutto.
Capitan Bretagna
di Alan Moore e Alan Davis
traduzione di Dario Fonti
Panini Comics, dicembre 2017
cartonato, 264 pp., colore
27,00 €