Prendete la moda tanto potente quanto effimera per i film di arti marziali della metà degli anni Settanta, una casa editrice in piena esplosione creativa, due giovani autori che si fanno di acidi prima di scrivere e disegnare i propri fumetti e un cattivo dei romanzi pulp degli anni Venti in odore di razzismo.
Se vi aspettate come risultato uno dei fumetti più pacchiani di tutti i tempi, beh, non siete molto lontani dalla realtà. Ma sotto lo strato superficiale di calci rotanti e tizi bizzarri c’è molto di più. Tipo calci rotanti volanti e tizi ancora più strani.
Stiamo parlando, ovviamente, di Shang-Chi il Maestro del Kung Fu, di cui di recente è uscito il primo volume in formato Omnibus di Panini Comics. Si tratta di una delle serie Marvel Comics minori degli anni Settanta, ideata da Steve Englehart (Capitan America: L’impero segreto) e Jim Starlin (Infinity War) nel 1973. Le due giovani star del fumetto erano rimaste colpite dal telefilm Kung Fu con David Carradine, e la New York notturna di una passeggiata da strafatti aveva fornito location e atmosfera; si presentarono così nell’ufficio del caporedattore Roy Thomas, che accettò la storia ma impose loro l’utilizzo come nemico di un personaggio già datatissimo come Fu Manchu.
Shang-Chi è quindi suo figlio, cresciuto isolato dal mondo e convinto che il padre sia un benefattore braccato dalle potenze mondiali e non il peggior criminale della Terra. Addestrato nelle arti marziali, viene inviato a uccidere il Dr. Petrie, storico nemico del cinese, ma, commesso il crimine, capisce di aver ucciso un innocente e che il vero malvagio è suo padre stesso e si ribella al genitore, divenendone il peggior nemico.
Perché Thomas abbia imposto a Englehart e Starlin l’utilizzo di Fu Manchu (e di conseguenza del suo parco di comprimari: gli assassini Si-Fan, la figlia Fah Lo Suee e soprattutto i suoi avversari Dr. Petrie e sir Denis Nayland Smith, veri protagonisti dei romanzi di Sax Rohmer) non è ben chiaro. Così come non è chiaro in quale modo avrebbero voluto sviluppare la serie i due autori senza questa imposizione.
Poco importa, in realtà, perché è proprio la presenza ingombrante del malvagio mandarino a condizionare la serie. Ogni episodio racconta un tentativo di Shang-Chi di sgominare l’impero del male paterno o di uno sgherro di Fu Manchu di uccidere il campione di kung fu. Non aspettatevi una trama orizzontale più lunga di due/tre episodi: ogni numero della serie è quasi scollegato dagli altri.
Questo è il problema principale del volume, ovvero la frammentarietà del materiale proposto. Alle 32 storie hanno lavorato 6 diversi sceneggiatori, 16 disegnatori e 12 inchiostratori. Impossibile che il risultato sia un corpus unitario. In questa massa di storie spiccano però due team creativi, con approcci molto diversi al personaggio.
Il primo è quello composto dai creatori del personaggio. Le tre storie firmate da Englehart e Starlin sono le più cupe e dure del volume, incentrate sul senso di colpa di Shang-Chi per l’uccisione del Dr. Petrie e sulla sua ribellione al padre. Il loro è un guerriero solitario, braccato dagli uomini di Fu Manchu e da quelli di sir Denis Nayland Smith e che vuole vendicare la morte del suo compagno. Come in altre sue serie, Englehart creò un personaggio fatto di ombra più che di luce, tipico esempio di eroe problematico della nascente Bronze Age.
Affascinato dalla filosofia orientale quanto lo era dall’astrologia e dalla magia occidentali che aveva trattato in Dottor Strange, cercò di inserirne concetti e aspetti nella sua narrazione per dare profondità a Shang-Chi e Fu Manchu, rendendo intelligente (“profondo” sarebbe eccessivo) un concept di serie altrimenti terribilmente frivolo.
Dal lato visivo, Jim Starlin, fuoriclasse della composizione, ispirandosi dalle mosse dei telefilm di arti marziali, disegnò alcune delle tavole più spettacolari della sua produzione del periodo, giocando con le inquadrature e spostando continuamente la “camera” in modo da seguire meglio i movimenti dei lottatori.
Le storie di Starlin sono purtroppo solo le prime tre, oltre a una breve comparsata più avanti: abbandonò la serie disgustato dal razzismo dei romanzi di Rohmer, decidendo che non avrebbe voluto avere nulla più a che fare con il personaggio di Fu Manchu. Anche Englehart lasciò la serie dopo poco, quando dalla direzione (aka Stan Lee) arrivò la richiesta di fare storie più violente e meno filosofiche.
Il loro posto fu preso da Doug Moench e Paul Gulacy, autori praticamente esordienti che presero alla lettera le indicazioni del sorridente capo, aumentando il numero di cazzotti e diminuendo i pensieri filosofeggianti.
Nelle loro avventure, Shang-Chi perse man mano la caratterizzazione che gli aveva dato Englehart. Non più eroe solitario, ma alleato di sir Denis. Basta con i sensi di colpa, relegati al massimo in qualche didascalia e scomparsi definitivamente con il ritorno in scena del Dr. Petrie. Via anche addirittura Fu Manchu, personaggio che aveva perso qualsiasi interesse, sostituito da trafficanti di droga e armi che vivono in lussuose ville piene di scagnozzi.
Questa trasformazione progressiva di Master of Kung Fu in una serie di spionaggio fu la vera idea geniale di Moench. Nel momento in cui Shang-Chi sembrava non avere più nulla da dire – e il lettore dell’Omnibus se ne accorgerà, stanco di storie costruite sullo stesso schema che si concludono sempre con la fuga del Fu Manchu e i suoi propositi di vendetta – il personaggio diventò improvvisamente un James Bond che stende i cattivi con calci e pugni.
Anche Gulacy, che pure aveva già regalato delle tavole notevoli soprattutto per quanto riguarda l’impostazione della tavola, sembra rinascere con la svolta della serie. Gioca soprattutto con la scomposizione dell’azione, passandola al rallentatore attraverso più vignette – alla Crepax – e mostrandone i vari istanti che la compongono.
Disegnatore abbastanza lento, come si nota dall’altissimo numero di episodi filler disegnati da altri autori, Gulacy è qui inchiostrato da mani diverse. Spiccano però le tavole in cui la china è opera direttamente sua o di Dan Adkins, che evidentemente ne segue da vicino il tratto: abbondano le ombre, i visi e i muscoli sono più segnati, il segno si fa meno classico e più sperimentale.
Sulla carta, dunque, Shang-Chi il Maestro del Kung Fu è una serie che non ha senso. Figlia di una moda del suo tempo e creata da due autori fuori dagli schemi, con imposizioni editoriali insensate e un personaggio fuori tempo massimo come villain, dovrebbe risultare illeggibile nell’AD 2017.
In realtà, a parte qualche riempitivo poco ispirato, nascoste nelle oltre 600 pagine del volume si trovano varie perle del fumetto Marvel degli anni Settanta. In quanto serie minore, infatti, gli autori erano più liberi di sperimentare e inserivano idee nelle trame (ad esempio l’ultima, folle storia del volume), nella narrazione e nel disegno che in una testata chiave non avrebbero avuto spazio perché troppo audaci.
Purtroppo questi colpi di genio risultano diluiti nell’enorme foliazione del volume ed è arduo per il lettore non annoiarsi alla decima storia con piano malvagio del Fu Manchu, letta soltanto per sperare di godere per un fugace momento di ottimo fumetto grazie a un’invenzione di Gulacy o a un’idea stramba di Moench.
È uno dei classici casi in cui la pubblicazione in Omnibus penalizza il materiale: le puntate, pubblicate a distanza di due mesi l’una dall’altra, saranno sembrate meno ridondanti al lettore degli anni Settanta. Raccolte tutte insieme, invece, risultano monotone e più difficili da digerire di quello che sono in realtà. Forse un volume antologico, che selezionasse metà, se non un terzo delle storie – quelle davvero meritevoli – sarebbe stata una soluzione più efficace per far riscoprire al meglio un personaggio come Shang-Chi.
Shang-Chi, il Maestro del Kung Fu Omnibus vol. 1
di Steve Englehart, Jim Starlin, Doug Moench, Paul Gulacy e altri
Panini Comics, 2017
Cartonato con sovraccoperta, 672 pp a colori
€ 59,00