Durante l’appena conclusa edizione 2017 di Lucca Comics & Games uno degli ospiti più interessanti ed attesi è stato Patrice Killoffer, fumettista e illustratore francese tra i fondatori nel 1990 della casa editrice indipendente L’Association. Il suo 676 apparizioni di Killoffer è stato da poco pubblicato da Coconino Press, dopo quindici anni dalla prima pubblicazione in Francia (e per noi era uno dei libri da non lasciarsi scappare a Lucca).
676 apparizioni di Killoffer è un libro importante, che ha segnato un punto di svolta nella storia recente della bande dessinée, un libro di “autobiografia contro l’autobiografia”, e dove la moltiplicazione delle apparizioni del protagonista vuol dire sia lotta interiore che affermazione di sé.
Killoffer ci ha spiegato questo e molto altro in una conversazione vivace e stimolante.
Leggi in anteprima le prime pagine di 676 apparizioni di Killoffer
Considerando che 676 si presenta come un libro molto personale, come è nato?
Inizialmente tutto ha avuto inizio da una un lavoro commissionato dal ministero francese per gli affari esteri. Ricorreva un anno di gemellaggio tra Francia e Quebec, il 2002 se non ricordo male. Andai in Quebec e la mia prima idea fu quella di produrre un carnet de voyage, ma ero un po’ a disagio, perché a me non piacciono quel tipo di libri.
Un anno dopo, usai alcuni di quei lavori per una mostra in Corsica. Ma in realtà, quelle pagine iniziali del libro in cui Killoffer si moltiplica nascono in un’altra occasione, quando mi innamorai di un’artista svizzera, Anna Sommer. Le inviai cinque pagine molto simili a queste, come dichiarazione d’amore. Lei mi rispose con altre cinque pagine illustrate, bellissime, a colori, per dirmi “no grazie Killoffer, ho già un fidanzato”.
L’inizio è dei più classici: una storia d’amore.
Sì, ma una storia d’amore triste.
Il libro viene spesso descritto come autobiografico, ma la questione è un po’ complessa.
Sì, infatti. Nella vita vera non sono in grado di multiplicarmi. [Ridono]
Quindi come mai scatta subito questa definizione?
Solo perché lo sembra, e lo sembra perché questo personaggio ha qualcosa di mio.
Per te il personaggio Killoffer è come un attore?
Sì, anche. Mi somiglia, ma non sono del tutto io.
Cosa è cambiato in Killoffer in tutti questi anni dopo l’uscita di 676?
Ora non corro più dietro alle donne a quel modo.
E come artista?
Ora sto lavorando a un nuovo libro che è davvero autobiografico. La mia vita attuale la racconto lì, ci sono storie che mi sono accadute davvero. Si tratta di storie pubblicate a puntate su una rivista, una pagina al mese.
Sto anche disegnando un fumetto per Lewis Trondheim, di fantascienza. Lì il protagonista sono io, ma me l’ha chiesto Lewis, e inizialmente credevo volesse solo il mio volto, ma poi mi ha spiegato che voleva proprio me. Sarà una cosa piuttosto strana, soprattutto perché dovrò apparire in contesti fantastici.
Perché scegli di raccontare te stesso in così tante forme?
Perché devo crederci in quel che racconto. Non sono davvero in grado di credere nelle storie di qualche personaggio lontano e assurdo che fa cose a me distanti. Ho bisogno di essere nella storia per crederci.
Ti criticano mai – i lettori o la stampa – perché ti metti così spesso al centro del racconto?
No, no… [Ride]
Non c’è molta differenza tra mostrare quello che fai o quello che immagini. In entrambi i casi si tratta di qualcosa che viene da te, che siano pensieri o che siano azioni, sono sempre io. Nell’autobiografia si parla di me, ma c’è comunque una messa in scena, non c’è mai verità assoluta, è impossibile.
Cosa pensi delle biografie altrui?
Fanno schifo.
Ma anche gli altri hanno bisogno di credere nelle loro storie, no?
Non lo so. Oppure non hanno nulla da dire.
La tua opera quindi sfida l’autobiografia sul suo stesso terreno.
Sì, quando ho realizzato questo libro in Francia era un grande momento per i libri autobiografici, ce n’erano anche troppi. Dal canto mio, pensai di non volerne fare. Questo l’ho realizzato per dire basta e oppormi. Ma ora torno con un libro autobiografico, quindi ammetto un certo conflitto.
Anche nel libro litighi spesso con te stesso. Perché?
Perché ho dei problemi con me stesso. Vorrei essere qualcun altro. Tu per caso sei soddisfatto di te?
No, mai! [Ridono]
Insomma, volevo dire la mia sulla questione dell’autobiografia. Al tempo dell’uscita il vignettista francese Willem disse su Liberation che il mio libro era un capolavoro, e da lì in molti smisero di fare autobiografia, ci fu uno scossone. Quindi posso dire che il mio intento riuscì.
A quei tempi erano in molti a produrre romanzi grafici anche all’interno de L’Association. Penso a Marjane Satrapi, Blutch o Trondheim. Questo libro però si pone in una forma diversa dal romanzo.
Non saprei. Effettivamente, qui dentro c’è anche un ragionamento formale sul fumetto, sin dalle dimensioni delle pagine, fino all’uso di vari codici narrativi, la mia è una ricerca su come comunicare in questa forma.
In Italia c’è una grande tradizione di fumetto in bianco e nero e di ricerca della linea, come fai anche tu nel tuo lavoro. Ci sono autori italiani che ti sono stati d’ispirazione?
Certo, apprezzo molto autori come Hugo Pratt e Crepax, ma uno degli artisti italiani che amo di più è Massimo Mattioli, nonostante la sua produzione non sia prettamente incentrata sul bianco e nero.
Parlando invece del tuo metodo di scrittura, la spontaneità con cui si susseguono le immagini e il testo ricorda lo stream of consciousness. Quali sono i tuoi riferimenti da quel punto di vista?
Non saprei, non penso alla letteratura quando lavoro a un fumetto. Sì, mi piace magari Balzac, per dirne uno. Comunque è vero, la storia era improvvisata. Avevo in mente delle sequenze, ma slegate tra loro, che poi ho unito in modo spontaneo. Per esempio, inizialmente ho inserito il testo ovunque nella pagina, senza darmi una regola precisa. Ma dopo un po’, mi sono fermato. Semplicemente mi sono detto, basta chiudi la bocca, se non hai altro da dire stai zitto.
Infatti, poco prima della metà il libro diventa muto.
Sì, va bene così e basta. Quando imposti uno scenario la storia deve andare da sola.
Il testo stesso effettivamente è parte integrante del disegno nel tuo lavoro.
Nel fumetto si scrive a mano. È disegno anche quello. A loro volta anche i disegni sono un codice, come la scrittura. È sempre interessante unire i due linguaggi e vedere cosa succede.
Un’ultima cosa. Raccontami di Mon Lapin Quotidien, il tuo progetto più recente con L’Association, che dirigi assieme a Jean-Yves Duhoo.
È la nuova incarnazione di Lapin, la rivista de L’Association. Volevamo creare una rivista che somigliasse a un quotidiano, un po’ moderna e un po’ rétro. Volevamo parlare di tutto ciò che gli altri media non raccontano. È anche l’occasione, oltre che per radunare artisti fantastici che adoro, anche scrittori, perché ne conosciamo molti ma non è sempre facile trovare occasioni per lavorarci. C’era anche l’intenzione di stupire un po’ e uscire dagli schemi editoriali. È capitato che i negozi di fumetti non sapessero nemmeno dove posizionarlo o come definirlo.