«Ma ecco levarsi sul nostro cammino una figura umana velata, di proporzioni ben più vaste di qualsiasi essere umano. E il colore della pelle della figura era del bianco assoluto della neve.»
Le parole finali del romanzo di E. A. Poe Il racconto di Arthur Gordon Pym (Garzanti, 1990) ci rimandano a un tema sotterraneo e poco considerato che abbiamo riscontrato in alcune delle storie più interessanti del recente corso di Dylan Dog: l’ossessione per il bianco. Il bianco che – come ci ha ben descritto un altro grande scrittore, Herman Melville, nel capitolo XLII del romanzo dedicato alla bianca balena Moby Dick – sa essere colore (o mancanza di colore) misterioso e crudele. Il bianco come assenza di forma, unione dei colori, fine e inizio di tutte le cose. Nella narrazione del mondo, la pagina bianca rimanda a ciò che è potenziale, invisibile e non esistente.
Non a caso, in La fine dell’oscurità di Mauro Uzzeo e Giorgio Santucci (Dylan Dog n. 374), il racconto di una Apocalisse contemporanea, con Dylan Dog nel ruolo che fu dell’apostolo Giovanni, non può che chiudersi con una pagina bianca, simbolo di un futuro ancora da scriversi (o forse da non scriversi). La realtà della narrazione viene negata a favore della realtà “vera”, quindi non più narrata. Nelle pagine finali di questo episodio, un Dylan Dog in preda a un desiderio di autenticità («Voglio guardare in faccia la realtà per quella che è, senza più ingannarmi!») strappa le pagine del suo diario (col quale ha un rapporto ormai simbiotico, tanto da essere rappresentato mentre scrive da Gigi Cavenago, anche nel frontespizio, con tanto di penna d’oca) ed esce di casa con la sua ragazza del mese per godersi una Londra «mai così meravigliosa».
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Il tema qui trattato è molto attuale e critico: nientemeno che la verità. Introdotto da una copertina di Cavenago che cita esplicitamente il Klimt della Medicina (opera che suscitò scandalo nella Vienna dei primi del Novecento per la sua visione pessimistica dell’umanità), questo racconto morale e graficamente aggressivo dichiara una visione del mondo niente affatto ottimistica o consolatoria. Come ci racconta Dylan Dog nella sua cronaca fatta “per non dimenticare” («e dimenticare è la cosa più pericolosa»), quando la fine del mondo è arrivata nessuno l’ha presa sul serio: difficile farlo quando vero e falso sono indistinguibili e ogni individuo ha una propria verità.
Il mondo dopo l’Apocalisse è diventato la realizzazione di un artista che ha posto in cielo la propria idea di Dio, fatto da un enorme occhio e milioni di mani da cui si dipanano fili di carne e metallo attaccati agli esseri umani come fili ai burattini (o come cordoni ombelicali). Lo scenario post-apocalittico immaginato da Uzzeo è potente: la metafora politica ricorda le intuizioni di certo fumetto sudamericano (da L’Eternauta in poi) e rimanda al cinema di David Cronenberg (eXistenZ, citato da Roberto Recchioni nell’introduzione) e ai miti esoterici di H.P. Lovecraft. L’orrore qui si mescola all’apocalittico e alla fantascienza più militante, creando un immaginario efficace proprio in quanto specchio deformante e lente di ingrandimento del nostro assurdo presente.
Se, come direbbe Grant Morrison, la verità ha iniziato a crollare con le Torri Gemelle nel 2001 e con le Teorie della cospirazione che ne sono seguite, l’attualità qui descritta risulta ormai un costante miscuglio di notizie miste a opinioni, un caotico brulicare di eventi dove i pregiudizi si mescolano alle verità e alle superstizioni, un nuovo fascismo nel quale niente è vero e tutto e credibile, dalle scie chimiche ai vaccini creati dalle industrie farmaceutiche per avvelenarci. L’opinione di Dylan Dog, esperto di incubi e di fandonie, è fin troppo evidente. La condanna esplicita di tutti coloro che hanno urgenza di affermare la propria identità (sessuale, culturale, razziale) negando quella altrui, è una presa di posizione niente affatto banale in questi tempi di indignazione dilagante.
Ma quel che risulta interessante è come questa realtà si traduca in uno scenario originale e coerente, trasfigurato dal segno grezzo e materico di Santucci. Il bianco e nero corposo del disegnatore viterbese dà sostanza alla trama di Uzzeo, costruendo tavole di grande impatto, dove l’uscita dalla gabbia bonelliana di sei vignette (ormai prassi del nuovo corso dylandoghiano) non risulta mai gratuita ma sempre fortemente coesa con lo sviluppo della storia e il faticoso percorso del personaggio verso la salvezza. Una salvezza relativa e non del tutto riuscita, nella quale risulta azzeccata la scelta di una conclusione apparentemente positiva, in realtà niente affatto consolatoria, ma semmai tesa a fuggire le soluzioni scontate cui questa serie ha ormai abituato i suoi lettori.
La realtà negativa immaginata dal mostro del mese viene dunque ancora abbattuta da Dylan Dog, per poi, con facile ribaltamento finale, rivelarsi presente nella nostra realtà: di nuovo, si scopre (come prevedibile) che il mostro non è davvero sconfitto, e che l’inferno è il mondo in cui viviamo. Questa conclusione, ormai standard nella carriera del personaggio, viene però negata da Dylan Dog stesso, che legge le pagine successive del suo diario, trovandole bianche, e di conseguenza le strappa via negando la verità del racconto (di ogni racconto): «Io non voglio più raccontarmi storie!».
Una così decisa volontà di superamento dei cliché della serie ricorda due precedenti albi recenti della testata, anch’essi fortemente critici sul percorso del personaggio e sul suo ruolo nella narrazione: il primo è l’albo del ritorno di Tiziano Sclavi, Dopo un lungo silenzio (non a caso, con copertina bianca), il secondo l’episodio scritto da Ratigher e intitolato Graphic Horror Novel. In tutti e tre questi racconti gli autori, per quanto spinti da intenti e obiettivi differenti, riflettono sul modo in cui Dylan Dog si rapporta al mondo contemporaneo. E tutti e tre arrivano alla stessa conclusione, sintetizzata nella misteriosa, crudele pagina bianca in cui tutto finisce: la verità spiacevole è fuori da qui, è banale e lontana dalle parole.
Sclavi, tramite una sincera autocritica al personaggio, prendeva le distanze dalle illusioni che alimentano false speranze e cattivi pensieri. Il tema era ripreso – non so quanto volutamente – nell’episodio di Ratigher e Paolo Bacilieri (col contributo fondamentale di Montanari & Grassani), nel quale l’Autore della storia (il personaggio DFW) scopriva la verità della propria mediocrità, giungendo infine allo scardinamento della gabbia fumettistica, alla pagina bianca nella quale perdersi. Infine, in La fine dell’oscurità, Dylan Dog è egli stesso autore consapevole della storia che sta narrando: scopre che questa apocalisse è frutto del proprio diario, ridotto in pezzi per giungere all’unica verità possibile. In tutti questi casi, la conclusione si materializza in una pagina bianca, che tutto acceca e tutto zittisce.
La “fine dell’oscurità” per Dylan Dog, perlomeno nelle storie più interessanti che abbiamo letto finora, è uno spazio bianco nel quale cercare la verità del mondo. Il vero incubo è la verità che sta in ognuno di noi. Il mondo non è più – come Sclavi ci aveva mostrato nei primi anni del personaggio – un posto crudele e pieno di mostri, che la narrazione in qualche modo avrebbe rivelato. in questo presente di post-verità e di ipernarrazioni, il mondo “reale” somiglia più a una pagina bianca che, per quanto spaventosa possa sembrare, è ancora tutta da scrivere. O, per meglio dire, da vivere.