Dici Lewis Trondheim e pensi Lapinot. Ma se Trondheim è soprattutto il creatore di una delle saghe con protagonisti funny animals più popolare degli ultimi anni (Oltralpe e non solo). È inoltre stato assai spesso personaggio protagonista dei propri fumetti di stampo autobiografico. Difficile guardare a lui senza vedere un individuo che nel fumetto stesso ci vive, attivo come teorico e come animatore della scena, ma anche direttamente tra le pagine, come personaggio – uccello antropomorfo – che si racconta in prima persona in numerose pagine a fumetti.
Sin dall’inizio degli anni Novanta, Trondheim ha realizzato numerosi fumetti autobiografici – tra i più rilevanti ci sono quelli contenuti in Approximate Continuum Comix e in Petits riens – che mostrano una ordinaria quotidianità, nell’alternarsi e scontrarsi di demoni interiori e vicissitudini banalmente comuni. In quelle pagine, la narrazione è asservita a una continua ricerca del valore narrativo celato in qualunque piccolo aspetto della esistenza, osservata o vissuta. Chiaramente non tutto ciò che gli – e ci – succede nel corso della giornata è meritevole di essere raccontato, ma Trondheim sfida costantemente se stesso a scovare qualunque storia nell’arco delle 24 ore e modellarla in uno schema narrativo semplicemente still life.
Il percorso creativo autobiografico di Trondheim è di una mole così considerevole – forse anche impressionante – da richiedere di essere osservato come un lavoro di ricerca, che prende forme diverse, sia nel segno che negli approcci narrativi, poi nel susseguirsi degli anni e nel susseguirsi dei libri. Di percorsi simili se ne ritrovano prima di tutto nel lavoro di Harvey Pekar, l’americano pioniere del fumetto autobiografico, che si serviva continuamente di disegnatori diversi e nelle sue storie l’attenzione era concentrata su una ricerca di introspezione narrativa. Mentre più vicino all’esperienza di Trondheim c’è il diarismo naif di James Kochalka, anche lui narratore di sé per indagine della materia narrativa, che per anni ha realizzato 4 vignette quotidiane dedicate a un singolo evento della giornata; un campione di minimalismo, come Trondheim (per il quale “realizzare un numero di Blake e Mortimer” sarebbe una “condanna”). Ma Trondheim ha saputo andare oltre, lentamente, senza interrompere la produzione per anni e anni, cercando costantemente un rinnovo della sostanza e della tecnica, usando se stesso come cavia di esperimenti a vignette.
Quindi per uno abituato alla sottrazione, alla cernita di fronte all’abbondanza di spunti narrativi che può presentare ogni giornata, cosa significa accogliere la sfida McLoudiana di realizzare 24 pagine a fumetti in 24 ore? Perché, ricordiamolo, l’idea nacque quando nel 1990 Scott McLoud sfidò Steve Bissette a disegnare 24 pagine in un giorno, trasformandosi poi in una sorta di “maratona fumettistica” nota e praticata a livello mondiale. Per Trondheim la 24 ore diventa una divertita occasione per discutere malcelatamente di fumetto in termini assoluti, di come esso dev’essere per lui – anzi come deve non essere – e di cosa si può raccontare (non solo per riempire un po’ svogliatamente le 24 pagine), di cosa disegnare e perché farlo. Inizia citando concetti di Raymond Queneau (che in più occasioni gli è stato fonte di ispirazione) ma poi, nella sua continua ricerca di equilibrio e leggerezza, non può far a meno di chiudere semplicemente ammettendo di aver copiato 90 foto dell’Instagram di Boulet, ed è così che fugge così dal labirinto da cui cercava di uscire.
*Questo articolo appare come introduzione al volume Le 24 ore del fumetto, di Lewis Trondheim, pubblicato da Proglo Edizioni in uscita a Lucca Comics 2017.