Blade Runner, il film fantascientifico noir del 1982, fu qualcosa di più di un semplice film di successo. Su quel filone, fantascienza noir, c’erano stati altri film di valore subito prima e ce ne furono anche immediatamente dopo. È stata invece una pellicola che, come si dice, “ha fatto epoca” perché è arrivata al posto giusto nel momento giusto. Blade Runner ha definito un immaginario, un ideale estetico e addirittura un fine politico. È il film del cyberpunk e del postmoderno, come William Gibson non ha mai saputo immaginare (e infatti è legato da un filo peraltro piuttosto debole a Philip K. Dick). È il film che ha portato avanti la visione del futuro “sporco” e consumato di Star Wars (che lo precede di cinque anni) anziché quella “pulita” e moralista di Star Trek (1966 per la serie televisiva originale e 1979 per il primo film). E molte altre cose, parecchie delle quali “viste” dai critici o dagli spettatori senza che gli autori e gli interpreti ci avessero chiaramente pensato.
Blade Runner è insomma un caposaldo della fantascienza mondiale e una pagina di cinema di altissimo livello, grazie al talento del regista Ridley Scott e dagli sceneggiatori Hampton Fancher e David Peoples, degli attori (Harrison Ford in testa, perché è stato un magnifico attore adulto come adesso è una figura “matura” paragonabile forse al solo miglior Sean Connery) e del resto della produzione: a partire dalla fotografia di Jordan Cronenweth e dalle scenografie di David L. Snyder. E ovviamente grazie all’epica colonna sonora composta ed eseguita da Vangelis, che con questo film ha segnato il sound di un decennio.
Guarda il corto animato di Blade Runner del regista di Cowboy Bebop
Nel tempo Blade Runner è diventato una specie di testo religioso: un dogma visto e rivisto dai suoi fedeli, con due montaggi diversi (con o senza il voice over di Ford) e con due finali alternativi (quello cupo e buio e quello dell'”orizzonte luminoso”) che giocano sui misteri della serie, sulle domande lasciate volutamente aperte. Rick Deckard, il blade runner, è un replicante anche lui? Rachael ha la data di scadenza come tutti gli altri replicanti? Cosa significano gli origami di Gaff, interpretato da Edward James Olmos? (Quello di Miami Vice e Battlestar Galactica, ve lo ricordate?) Il film allude, crea i presupposti perché i suoi lettori visitino le sue possibili risposte e creino un loro percorso intimo, una loro convinzione. Insomma, perché lo abitino.
A 35 anni di distanza, arriva il seguito di cotanta opera. Si intitola Blade Runner 2049, è scritto sempre da Hampton Fancher con Michael Green, prodotto da Ridley Scott, ma con la direzione del regista canadese Denis Villeneuve. Il protagonista è l’attore canadese Ryan Gosling, diventato universalmente noto un anno fa con La La Land, per il quale ha vinto il suo primo Golden Globe e ricevuto la seconda candidatura al premio Oscar come miglior attore protagonista. E il il vero filo conduttore però è sempre lui, Harrison Ford, come lo è stato per la partenza della terza e ultima trilogia di Star Wars, un paio di anni fa. Niente male per un attore che ha compiuto 75 anni a luglio.
Blade Runner è un monumento, una specie di Casablanca o di Dolce Vita della fantascienza postmoderna. Difficile toccarlo senza che l’ansia di fare un pasticcio non si diffonda tra le sinapsi di chi ha voluto confezionare il prossimo capitolo. Per questo il vostro empatico recensore, vale a dire il sottoscritto, è entrato a metà di una mattinata fredda e caliginosa in un cinema di Milano per l’anteprima stampa con le farfalle nello stomaco.
L’emozione era tutta legata al timore di un ennesimo rifacimento-schifezza, per dirla senza peli sulla lingua. Una specie di film degli emoji (avete presente?) da dimenticare. Un furto di tempo che la vita non ci restituirà mai più. Fast forward, due ore e mezza dopo, sono uscito con il sorriso sulle labbra e la testa sognante. Signori, dopo aver stroncato o comunque dolcemente maltrattato un po’ di film e libri usciti in questi ultimi anni (a partire dal dimenticabile Ghost in the Shell, ad esempio, fino alla sòla di Marvel’s Inhumans) è arrivato il momento di dirlo forte e chiaro: Blade Runner 2049 è un gran film, praticamente un capolavoro. Davvero. Spegnete il computer e andatelo a vedere.
Se volete invece continuare a leggere, per capirlo, per capire la potenza simbolica del film di Denis Villeneuve, bisogna però prima capire quella del film di Ridley Scott. Il filo conduttore, come abbiamo detto, è Harrison Ford. Il settaggio della storia è quello del postmoderno, dell’ambiguità morale, della ricerca del senso, con le ellissi narrative proprie del romanzo hard boiled americano (quello che dalle pagine di Dashiell Hammett e Raymond Chandler si trasfigura nei film di John Huston con Humphrey Bogart e Mary Astor) e sale costruendo strato dopo strato un affresco che non trova equivalenti negli anni successivi.
C’è una eccezione, ed è quella delle atmosfere filologicamente corrette del videogioco Blade Runner pubblicato nel 1997 per Windows, un vero e proprio apocrifo multimediale creato dai Westwood Studios e dedicato all’investigazione pura. Anche il videogioco ha finali multipli, come è anche metaforicamente corretto rappresentare. Ma è una eccezione: la scelta narrativa complessa, fatta di ellissi e di non detto è rara per la fantascienza e in genere per un blockbuster. Non verrà (quasi mai) replicata.
Ora che abbiamo capito il portato del Blade Runner originale, guardiamo al nuovo. Villeneuve compie un omaggio e al tempo stesso un atto di liberazione dal primo film. I contatti ci sono, abbondantemente, ma anziché rivisitare e ripercorrere gli snodi e i luoghi topici del primo film, 2049 va avanti, apre a una nuova pista, fedele all’idea che se si conosce bene la propria storia non si è condannati a riviverla. Cioè a farcela rivedere sul grande schermo.
Bravo, direte voi, è così che bisogna fare. Perché non lo fanno tutti? Perché non è facile, rispondo io. “Andare avanti” rispetto al precedente film-capolavoro poteva essere un atto di tracotanza tragico e definitivo, invece gli autori si dimostrano perfettamente in grado di prendere in mano la storia e aumentare, crescere, arricchire, andare oltre. Harrison Ford, che arriva molto avanti nel film (quando quasi te lo sei dimenticato, ma poi lui non si fa più dimenticare), è la colla che tiene tutto assieme ma non è il protagonista.
Come ai tempi di Guerre Stellari, a fare l’attor giovane è un altro, il convincente Ryan Gosling. Accanto a lui c’è la stupenda e virtuale Ana de Armas (che non conoscevo ma è di una potenza rara, e che assieme a Mackenzie Davis dà vita a una delle più scene più delicate e indimenticabili della storia per regia ed effetti speciali). Non è finita: nel cast spiccano anche Robin Wright, per un pelo non rovinata dal typecasting di House of Card, e una notevolissima Sylvia Hoeks, malleabile e complessa, come il suo ruolo richiede.
C’è molto, moltissimo da vedere e raccontare ma non bisogna rovinare le sorprese e il senso del film a voi, potenziale pubblico. Facciamoci allora solo delle domande. Ricordate l’unicorno origami di Gaff? Anche qui c’è un animale simbolico, ed è il cavallo di vero legno, che fa parte però di un modo e una mitologia completamente diversa. La storia? Si svolge trent’anni dopo quella del primo film. Adesso K (Ryan Gosling), l’agente replicante della polizia di Los Angeles, scopre un segreto sepolto da molto tempo che potrebbe far collassare la civiltà ancora più compromessa che mai dalle devastazioni ambientali.
Mentre le nove colonie extramondo accettano umani e nuovi replicanti “fedeli”, la Tyrell Corporation è collassata, e un nuovo stregone della tecnologia, Niander Wallace (Jared Leto) l’ha rilevata e ne controlla la produzione di replicanti. Se un muro separa due razze, dicono nel film, c’è la pace; ma se il muro non c’è più e le due razze vengono a saperlo, è l’inizio dell’inferno.
Questa è la premessa di un film costruito con attenzione e grande sapienza. Si apre con una sequenza aerea visivamente intrigante, che attraversa un panorama agricolo devastato e che viene seguita da uno scontro fisico potente e drammatico. Villeneuve si prende carico sia della dimensione visiva di Blade Runner 2049 che dell’evoluzione del suo immaginario. E noi scopriamo che il regista di Sicario (2015) e Arrival (2016) non sbaglia davvero un colpo. È un maestro capace di costruire complessi e affascinanti meccanismi visivi e al tempo stesso mettere assieme narrazioni ricche e articolate, costruite su più strati.
Se vogliamo trovare dei difetti, che forse stanno più negli occhi della nostra società che non nella tecnica di Villeneuve, c’è un intento un filo troppo didascalico in alcuni snodi. Tutto torna, la narrazione è un gioiello e la storia è potente. Ma Blade Runner 2049 è anche un film che cerca di spiegare ed esplicitare tutto, o visivamente o a parole. Non c’è più la carica di ambiguità morale, sostituita da un anelito per la vita, per la completezza e la costruzione di un senso esistenziale che da un lato rende molto umani tutti i suoi personaggi ma dall’altro lascia che l’idea postmoderna dell’apparentemente ineliminabile ambiguità etica di fondo evapori del tutto.
Blade Runner 2049 è un film paradossale: da una parte infatti apre molto la narrazione con più potenza visiva del film originale, ma è meno suggestivo (letteralmente: suggerisce meno) e “chiude” zoomando sui problemi e le ansie della nostra soceità di oggi: l’intelligenza artificiale, la vita artificiale e la domanda su cosa sia l’anima e soprattutto chi la possieda. Sono domande antiche ma decisamente potenti. Cinquecento anni fa, mentre conquistavano le Americhe, i francescani e i gesuiti affrontavano un dilemma etico analogo (a spese dei nativi locali), e ancora nei tre secoli successivi gli schiavi dell’epoca moderna, vale a dire gli africani, venivano trattati sulla base di un’ambiguità morale molto simile all’ipocrisia della loro natura di “oggetto vivente” perché dotati di pelle più scura e tratti somatici divergenti da quelli delle persone bianche.
Eppure il concetto di “specie” (la categoria superiore a “razza” secondo il modello di tassonomia universalmente accettato) chiarisce abbastanza la portata del problema: gli appartenenti alla stessa specie sono in grado di avere figli, mentre quelli che appartengono a specie diverse no. L’implicito è che la fertilità sia anche il presupposto della vita “naturale”, oltre che criterio discriminante. E questo è il centro del film. Ovviamente c’è molto di più, ma lo snodo grosso è questo. A voi andare vederlo, secondo me ne vale veramente la pena.
Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio. Il suo canale Telegram si chiama: Mostly, I Write.