«This is a fucking book about monster men beating the living shit out of each other». Così Johnny Ryan definiva il suo stesso Prison Pit dalla pagina Facebook dedicatagli. Sono passati ormai otto anni da quando la Fantagraphics dette alle stampe il primo dei cinque volumi che a oggi compongono la bizzarra e ultraviolenta epopea di Fuckface e nessuno si sarebbe mai aspettato che quei disegnetti disgustosi avrebbero avuto una tale importanza. Quella visione primitiva e prepuberale del fumetto fantastico ha finito per generare un autentico culto, con tanto di aspiranti epigoni sparsi ai quattro angoli del globo. Va anche detto che Ryan non è certo un prime mover del genere, ed è bene ricordare che prima di lui sono stati autori come Mat Brinkman e Christopher Forgues a sdoganare un certo fumetto indipendente fatto di «un intricatissimo caos di ispirazione fantasy, con dentro un sacco di mostri, giganti, gnomi e montagne magiche».
I ragazzi del collettivo Fort Thunder prendevano quello che prima era considerato – di certo non da loro – materiale per nerd all’ultimo stadio elevandolo ad avanguardia del fumetto sperimentale. Il tutto senza traccia di pretesa di superiorità. Nessun pericolo di ritrovarsi in zona Hulk-diretto-da-Ang-Lee tra quelle pagine quindi. L’amore per certo immaginario e i suoi mondi era palpabile, seppure filtrato da una sensibilità ermetica e iperstratificata. Un aspetto che nell’opera di Johnny Ryan stento a trovarne tracce. Dopotutto è sullo stesso sito della casa editrice che il fumettista Jeffrey Brown dà la migliore interpretazione possibile di Prison Pit: «There’s no hidden meaning, deep metaphor, life lessons, etc. just crazy, funny action adventure» («Non ci sono significati nascosti, né metafore profonde o lezioni di vita, ecc. solo azione divertente»).
Non che ce ne fossero nei vari Multiforce o Powr Mastrs, di insegnamenti, ma qui si passa decisamente al livello successivo. Ogni vocazione artistica viene abbandonata a favore di uno scimmiottamento del muscolarismo esasperato di Frank Frazetta e delle desolanti visioni alla Hieronymus Bosch del Gran Maestro della cover death metal Dan Seagrave. Due numi alla base della direzione artistica di un altro grande prodotto d’intrattenimento nato per celebrare un certo immaginario preadolescenziale: Brutal Legend di Tim Schafer.
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Quello che non ci si aspettava è che una certa visione del fantasy – fatta di desolate piane rocciose, di violenza, mostruosità deformi e macchinari impossibili. Una sorta di Arzach privato a forza della sua poesia – riuscisse a fare così presa in maniera tanto trasversale. Se negli Stati Uniti la sua ultima incarnazione la possiamo trovare nella serie Extremity di Daniel Warren Johnson – dove le citazioni a Moebius diventano praticamente esplicite – in Italia ci pensa Spugna a darne la migliore interpretazione possibile.
Se nel caso della produzione Skybound si punta tutto su un’epica fatta di vendette, torture e tecnologie iperdettagliate rese con delle tavole clamorose – che si dimostrano però totalmente sbagliate quando si tratta di coreografare una rissa a mani nude – il giovane autore italiano decide di spostare tutto in un territorio più grottesco, attingendo a piene mani da un titolo come Rumble di John Arcudi e James Harren. Limitandone però l’aspetto umoristico all’apparato grafico e slegandolo completamente dalla realtà.
In effetti la lore – tanto per utilizzare un termine caro agli amanti del fantasy – di The Rust Kingdom non ha nulla di spassoso. Si tratta di una narrazione epica davvero cupa, dove la violenza è il motore principale degli attori coinvolti nella vicenda. Mostruosità su mostruosità si susseguono, spesso in maniera quasi meccanica. Si tratta per lo più di ammassi deformi di muscoli e denti che aprono in maniera brutale altri ammassi deformi di muscoli e denti. E quando non lo stanno facendo significa che a) qualcuno si sta trasformando in qualcosa di ancora più butto b) qualcuno sta mangiando qualcun altro c) il protagonista sta vagando in ambienti enormi e desolati. Fine.
Ma allora cosa è che rende questo fumetto così interessante? Principalmente la quantità di idee visive che gli sta dietro. Quando ti ritrovi a sfogliare Prison Pit – tanto per tornare al punto d’inizio – non ti importa che sia disegnato in maniera approssimativa o che la sceneggiatura si limiti a fare da supporto a una serie di trovate sempre più violente. Ti importa solo di vedere cosa arriva dopo. Quale altra bassezza l’autore sarà riuscito a tirare fuori dal suo repellente cilindro.
Spugna riesce nello stesso intento, sopperendo con disegni ben più strutturati di quelli di Ryan a un potere immaginativo non così debordante come quello del fumettista di Boston. Chiariamoci, su queste pagine ci sono enormi prigioni che camminano, mutazioni alla Stuart Gordon, chiodi arrugginiti piantati in ogni singolo posto dove non dovrebbero, mutilazioni, squartamenti e un sacco di altra roba divertente. Ma non si arriva mai a un autofellatio di un mostro che si innesta un essere vermiforme al posto del braccio (tanto per chiarire a che livello di magnifica puerilità possano arrivare le disavventure di Fuckface).
Le parole sono pochissime, mentre le matite la fanno da padrone. Rust Kingdom si perde spesso nel tratteggiare il suo mondo, con pagine scomposte in riquadri puramente descrittivi. Si va nel particolare del particolare. Le scene di lotta non possono fare a meno di esplodere nelle inevitabili splash a doppia pagina, ma è quando vengono frammentate in microellissi che danno il meglio di sé. Si tratta di vignette tutto sommato minimaliste, piuttosto crude e che non prestano troppa attenzione a inutili orpelli. Gli sfondi sono quasi sempre sgombri, resi tangibili dall’utilizzo di texture materiche che vanno a riempire gli spazi lasciati dalle onomatopee e dalle tinte piatte dei disegni. A volte si sfocia in territori più pittorici, altre volte quasi nell’astratto.
Pur non rinunciando alla sua essenza rude e quasi punk, Spugna si dimostra in grado di maneggiare un sacco di registri senza preoccuparsi troppo di farli sfumare uno dentro l’altro. Le 170 pagine di questo libro sono una sorta di enorme collage dove si è infilata un sacco di roba e dove il protagonista è un mero vettore che si muove da un punto A a un punto B nel modo più lineare possibile. Sembrerà banale ripeterlo ancora una volta, ma è l’universo in cui si sposta che ci riserverà un sacco di sorprese.
Il più grande risultato di Spugna, Ryan e di tutti gli altri autori coinvolti nella descrizione di universi così simili – penso anche alla produzione sci-fi di Benjamin Marra – è il farci partire con un’idea di fantasy che è quella della saga verbosa e interminabile e di sorprenderci invece nel desiderare mostri sempre più grotteschi impegnati a menarsi in un mondo alieno e inospitale. Che non mi si venga a parlare di una regressione all’infantilismo tirando in ballo i soliti disegnetti grandguignoleschi sui bordi dei quaderni delle medie. Arrivare a un risultato simile, mantenendo al contempo sempre alta l’attenzione del lettore, è cosa tutt’altro che semplice e scontata. Riuscirci significa eliminare ogni vezzo e montare aspettative basandosi unicamente sulla propria capacità di creare un’estetica sempre sorprendente.
In un’ottica simile – quella dalla fuga a ogni costo dal banale – la rincorsa al cattivo gusto o al disgustoso è un mezzo come un’altro per continuare a sfornare idee su idee, senza preoccuparsi troppo di quanto possano risultare appetibili a tutti. The Rust Kingdom non ambisce certo a essere un lavoro perfetto, ma la sua lucida visione del fantastico e l’energia con cui la porta avanti lasciano ben poco spazio a fraintendimenti. A conti fatti un titolo che si integra alla perfezione nel catalogo Hollow Press, casa editrice da sempre più interessata a esplorare i meandri del proprio immaginario – il loro primo antologico si intitolava non a caso Under Dark Weird Fantasy Grounds – piuttosto che alla beatificazione popolare.
The Rust Kingdom
di Spugna
180 pagine, colore
Hollow Press